Febbraio 9th, 2025 Riccardo Fucile
IL SOTTOSEGRETARIO, NEL 2017, DA PRESIDENTE DELLA CORTE D’APPELLO DI ROMA, AVEVA CONFERMATO L’ARRESTO DI UN EX LUOGOTENENTE DELL’ESERCITO ED EX CAPO DELL’AGENZIA DI SICUREZZA INTERNA IN LIBIA, ACCUSATO DI CRIMINI EFFERATISSIMI COME LA TORTURA DEI PRIGIONIERI POLITICI… OGGI, CON IL CASO ALMASRI, MANTOVANO, CHE SI OCCUPA DI SERVIZI SEGRETI, E’ FINITO INDAGATO. PERCHÉ IL RAS DEL CENTRO DI DETENZIONE DI MITIGA È STATO RISPEDITO IN LIBIA CON UN VOLO DI STATO
«Per questi motivi la Corte ordina che Mohamed Khaled Al-Tulhami, nato nel 1942 in Libia, sia sottoposto alla misura della custodia in carcere». Era il 17 novembre del 2017. Alfredo Mantovano, attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ricopriva il ruolo di presidente della Corte d’Appello di Roma. E in quella veste ha firmato l’arresto di un ex luogotenente dell’esercito ed ex capo dell’Agenzia di sicurezza interna in Libia, accusato di crimini efferatissimi come la tortura dei prigionieri politici.
Oggi col caso Almasri sembra di assistere a un déjà-vu. Dal finale capovolto. La vicenda è nota. Lo scorso 19 gennaio il generale libico Almasri è stato arrestato a Torino su mandato della Corte dell’Aia. Due giorni dopo la Corte d’Appello di Roma non ha convalidato l’arresto a causa di un cavillo giuridico che il ministro della Giustizia Carlo Nordio, avvisato sin da subito dell’arresto, poteva sanare
Il vizio di forma però è rimasto e Almasri è stato rimpatriato su un volo di stato, gestito dai servizi segreti. Per questa faccenda il guardasigilli, insieme alla premier Giorgia Meloni, al ministro Matteo Piantedosi e allo stesso Mantovano, è indagato dalla procura capitolina guidata da Francesco Lo Voi, attualmente “inviso” al governo e all’intelligence nostrana.
2017-2025. Due faccende analoghe, due decisioni opposte. Otto anni fa, l’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, trasmetteva «al procuratore generale della Corte d’appello di Roma – si legge negli atti giudiziari – la richiesta della Corte penale internazionale de L’Aia tesa a ottenere l’arresto» di Mohamed Khaled Al-Tulhami, su cui dal 2013 pendeva un mandato d’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità.
Il militare «ha avuto il ruolo di eseguire gli ordini di Gheddafi tesi ad arrestare, detenere, effettuare incursioni, sorvegliare, indagare, vigilare, torturare prigionieri politici», riportano le carte. Così la Corte d’Appello presieduta da Alfredo Mantovano ha ordinato l’arresto dell’ex luogotenente libico, morto nel 2021.
Anche oggi, per Almasri, doveva andare così. Sarebbe bastato che il ministero della Giustizia chiedesse alla Corte d’Appello di Roma, tramite il procuratore generale, di convalidare l’arresto e disporre la custodia cautelare in carcere in vista dell’estradizione.
Ma tant’è, e gli interrogativi non possono che essere molteplici. Come mai il ministro Nordio non ha sanato il vizio di forma con cui la Corte d’Appello ha scarcerato Almasri? Perché il guardasigilli non ha mai risposto alla procura che aveva inviato a via Arenula il fascicolo ventiquattro ore prima della liberazione del torturatore? E ancora, perché dal Viminale è poi arrivato l’ordine di espulsione? Perché Almasri è stato rispedito in Libia con un Falcon 900?
(da editorialedomani.it)
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Febbraio 9th, 2025 Riccardo Fucile
BASTA GUARDARE I DATI DELL’ORGANIZZAZIONE INTERNAZIONALE PER LE MIGRAZIONI (OIM) PER RENDERSI CONTO CHE IL DATO CORRISPONDE AL TOTALE DEGLI STRANIERI PRESENTI IN LIBIA E CHE LE NAZIONALITÀ NON SONO QUELLE CHE SBARCANO IN ITALIA
Due anni fa si trattava di un rapporto degli apparati di sicurezza inviato al governo. Oggi della relazione del Copasir “sulla situazione geopolitica del continente africano e sui suoi riflessi sulla sicurezza nazionale”.
Ma stavolta il documento è pubblico (questo il link) e non dice affatto quanto alcuni organi di stampa stanno attribuendo al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. “In Libia ci sono 700 mila migranti irregolari pronti a partire“, hanno titolato alcune agenzie e ripreso alcuni quotidiani, interpretando un dato, quello della presenza straniera in Libia, che la relazione del Copasir non trasforma in alcun modo nella minaccia spesso paventata. Da ultimo nella vicenda del torturatore libico Almasri, che il governo avrebbe liberato anche per evitare “un’improvvisa ondata di partenze” via mare.
Il 12 marzo 2023 ci cascò anche il Corriere della Sera: “Nei rapporti settimanali sull’immigrazione che vengono mandati al governo italiano, gli apparati di sicurezza e gli analisti sottolineano come in Libia, nei campi di detenzione ma non solo, ci siano 685 mila migranti irregolari pronti a partire per sbarcare sulle coste italiane”, scriveva. L’ultimo censimento allora disponibile dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) contava in Libia 683 mila “international migrants”, che nei rapporti Oim sono tutte le persone “che cambiano il proprio paese di residenza abituale”. Insomma, tutti gli stranieri presenti in Libia, compresi quelli rinchiusi nei centri di detenzione come quelli guidati da Almasri, poche migliaia sul totale di circa 7.000 detenuti tra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan.
I migranti internazionali sarebbero oggi 787.326, dato raccolto dall’Oim tra agosto e ottobre 2024 e coerente con quello raccolto dal Copasir. “Secondo quanto riferito nelle audizioni svolte, sono presenti circa 700 mila immigrati irregolari in Libia”, si legge nel documento approvato il 5 febbraio dal Comitato, che in base agli elementi raccolti sviluppa poi una serie di raccomandazioni al Parlamento.
Ma nemmeno qui si parla di migranti “pronti a partire”. E non a caso. Ancora una volta, il dato è sovrapponibile a quelli dell’Oim, che evidenziano come “nove migranti su dieci (87%) in Libia hanno dichiarato di non possedere un permesso di lavoro“. Niente di strano in un Paese che non offre alcuna garanzia di tutela dei diritti fondamentali e dei potenziali richiedenti asilo, non avendo neppure ratificato la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati. Per questo non è sbagliato parlare di “700mila immigrati irregolari”, senza però dimenticare che il 79% degli stranieri lavora, soprattutto nelle costruzioni e nell’agricoltura, e che la Libia rimane anche e soprattutto un Paese di destinazione
Quello che però disinnesca l’allarme dei 700mila irregolari pronti a imbarcarsi è il confronto tra l’origine degli stranieri in Libia e le principali nazionalità di chi sbarca in Italia. Il 26% degli immigrati oggi in Libia viene dal Sudan, il 24% dal Niger, il 21% dall’Egitto, il 10% dal Ciad e il 4% dalla Nigeria. Al contrario e coerentemente con il 2024, i 4.144 migranti sbarcati dall’inizio dell’anno provengono da Bangladesh (32%), Pakistan (21%), Siria (12%) ed Egitto (8%), mentre un ulteriore 11% viene da altri Paesi.
Egitto a parte, Paese confinante con un’alta percentuale di occupati in Libia (93%), nessuna delle altre principali nazionalità presenti in Libia compare tra le prime dieci che sbarcano in Italia. Inoltre, per il 70% di sudanesi, nigerini e non solo, il denaro che inviano a casa è la fonte primaria di reddito per le loro famiglie, che utilizzano le rimesse per coprire i bisogni alimentari. Per la maggior parte, insomma, interrompere l’invio di denaro per rischiare la vita in mare semplicemente non è un’opzione. Quanto ai Paesi d’origine di chi arriva in Italia via mare, secondo la rilevazione Oim i bangladesi in Libia sono 19.820, i Pakistani 4.442 e non tutti quelli intervistati hanno espresso l’intenzione di proseguire verso altri Paesi, Europa compresa.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Febbraio 9th, 2025 Riccardo Fucile
DOMANI LA CAMERA ESAMINERÀ LA MOZIONE DI SFIDUCIA PRESENTATA: PER QUANTO ANCORA MELONI E LA RUSSA POSSONO SALVARE LA POLTRONA DELLA SANTANCHÈ?
La ministra del Turismo Santanchè continua a ripetere di non essere preoccupata.
“Come vede sto lavorando tranquillamente. Io rispondo a tutto, sono qua, lavoro e porto avanti le attività del ministero del Turismo”, ha detto rispondendo ai giornalisti alla Bit, la Borsa Internazionale del Turismo che si tiene alla Fiera di Milano a Rho, riguardo al rinvio a giudizio a suo carico, quello per il processo per falso in bilancio nel caso Visibilia, che inizierà il prossimo 20 marzo.
Il procedimento giudiziario al Tribunale a Milano nasce dall’inchiesta avviata nel 2022 a seguito di un esposto presentato da un gruppo di piccoli azionisti per gravi irregolarità nella gestione del gruppo Visibilia, fondato dalla senatrice, che ha avuto cariche tra il 2014 e la fine del 2021.
Ora non è escluso per Santanchè un secondo rinvio a giudizio, per truffa aggravata ai danni dell’INPS, per aver beneficiato di migliaia di euro, usufruendo illecitamente dei fondi della cosiddetta Cassa Covid, che il governo aveva messo a disposizione delle imprese costrette a non far lavorare i propri dipendenti a causa della pandemia. E con questo secondo rinvio a giudizio le sue dimissioni potrebbero non essere lontane.
Domani, lunedì 10 febbraio, l’Aula della Camera esaminerà la mozione di sfiducia presentata dal M5S nei confronti della ministra, mozione che verrà votata più avanti. Una data per il voto ancora non c’è: non si svolgerà martedì, cioè subito dopo la discussione, e forse nemmeno giovedì 13, ma si potrebbe slittare alla settimana successiva o “addirittura a marzo”, come spiegano fonti di FdI.
Il punto è che anche questa volta, così come avvenuto l’anno scorso per un’altra mozione di sfiducia contro di lei, probabilmente la ministra verrà salvata dalla sua maggioranza e rimarrà al suo posto. Almeno fino al secondo rinvio giudizio, che potrebbe essere imminente dopo che è stato stabilito dalla Cassazione che il procedimento per truffa ai danni dello Stato di Daniela Santanchè rimarrà a Milano
(da Fanpage)
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Febbraio 9th, 2025 Riccardo Fucile
A SOVRASTARLA LA FIGURA DEL BEATO SILVIO BERLUSCONI – WALTER VELTRONI, CHE CURA UNA MOSTRA NELLA CITTÀ TOSCANA SULLA STORIA DEL RAPPORTO TRA LA KERMESSE E LA SATIRA POLITICA: “LA SITUAZIONE ATTUALE È TALMENTE GROTTESCA DI SUO CHE NON HA BISOGNO DEL CARNEVALE PER ESSERE RACCONTATA”
Politica e giornalismo. Da un lato il bersaglio prediletto, dall’altro la cassa di risonanza del fare satira. Walter Veltroni, che questi due mondi li ha attraversati con ruoli da protagonista (da militante della Fgci a direttore de L’Unità, da ministro a sindaco di Roma, a segretario del Pd), oggi ripercorre l’evoluzione di un’arte «delicatissima, antica quanto la convivenza umana».
Lo fa attraverso una delle mostre che accompagnano questa edizione del Carnevale di Viareggio: Secoli di satira. Dalle “bambocciate” ai bozzetti del Carnevale, quattro secoli di satira illustrata, fino all’11 maggio alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea “Lorenzo Viani”, e curata da Veltroni e Roberta Martinelli, direttrice del polo museale della Cittadella.
Veltroni, partiamo da Viareggio. Che rapporto ha con la città e con il suo Carnevale?
«Sono stato a lungo e spesso a Viareggio. Di recente anche per completare il mio lavoro sul rapimento di Ermanno Lavorini del 1969. La considero una città che, nella storia dell’Italia contemporanea, ha un certo peso. Merito anche del suo Carnevale, che è molto più di un evento ludico, è un laboratorio in cui la storia italiana e mondiale da sempre viene raccontata attraverso una dimensione grottesca che esaspera i fatti, le vicende, i volti, le tendenze».
Da qui l’idea di una mostra che allarga la visione all’arte della satira nella storia?
«Sì, questa è una mostra che valorizza il grande patrimonio storico e culturale del Carnevale attraverso un percorso che va oltre i suoi 151 anni di vita. Nella sezione introduttiva abbiamo raccolto dipinti e incisioni dal Seicento all’Ottocento, come le raffigurazioni grottesche di nani e animali del pittore Faustino Bocchi e le incisioni dell’artista inglese William Hogarth, fino ad arrivare alle stampe satiriche contro Napoleone e Garibaldi».
La satira politica fece il suo ingresso al Carnevale nel 1960, quando Avanzini portò sul carro Eisenhower, Krusciov, De Gaulle. Poi negli anni, sono arrivati Fanfani, Andreotti, Berlinguer, Moro, Craxi, Spadolini, Berlusconi, oltre ai leader delle grandi potenze mondiali.
Che valore hanno avuto queste rappresentazioni
«La forza dei carri è sempre stata straordinaria perché capace di abbinare profonde riflessioni con la risata amara. Elaborando in maniera grottesca i tratti fisici dei leader, i maestri ne hanno denunciato contraddizioni e limiti. Non ultimo, il Carnevale ha sempre saputo rappresentare anche le più grandi paure collettive, come la guerra e, più recentemente, la crisi climatica».
Negli ultimi anni, però, la voglia di prendere di mira i politici è diminuita. Che cosa è successo? Maggiore tolleranza o crescente indifferenza?
«A mio parere, la trasformazione della satira è da imputare al peso diverso che politica e potere hanno oggi nella società: la loro importanza è diminuita e di conseguenza anche il desiderio e la necessità di graffiarli attraverso la satira. Lo si è notato tra i carri del Carnevale, ma anche sui giornali e nelle vignette satiriche. Un tempo i partiti e i loro leader occupavano le pagine dei quotidiani. Oggi, anche a livello internazionale, non hanno più la stessa forza che hanno avuto agli occhi dell’opinione pubblica per tutto il Novecento».
Che cosa è successo?
«Il potere si è spostato. Anche a livello mondiale è avvenuta una radicale ridefinizione dei rapporti di forza. E poi, l’avvento dei social ha cambiato radicalmente il nostro modo di pensare, di valutare e di comunicare».
Chi le sarebbe piaciuto vedere rappresentato al Carnevale quest’anno?
«Credo che la situazione attuale sia talmente grottesca di suo che non ha bisogno del Carnevale per essere raccontata. Scherzi a parte, più che sui politici, oggi dovremmo fare satira su personaggi come Musk, Zuckerberg o Jeff Bezos».
Tornando alla mostra, ci sono dei bozzetti inediti che non sono mai diventati carri. Ce li racconta?
«Studiando i materiali d’archivio, ci siamo resi conto che la linearità del Carnevale si interrompeva in corrispondenza degli anni della seconda guerra mondiale. In quel periodo nessuno aveva voglia di sorridere, si soffriva per la fame, il freddo, la dittatura.
Allora abbiamo chiesto ai maestri di oggi di immaginare dei carri per quel periodo. Gli artisti hanno lavorato per mesi e adesso possiamo finalmente mostrare le loro opere che ricuciono questo strappo nella storia del Carnevale».
Un’ulteriore dimostrazione che sa satira e democrazia procedono di pari passo?
«I regimi cancellano lo spirito critico, mettono a tacere il dubbio. La satira invece è la cartina di tornasole dell’esistenza di una democrazia perché è la misura con cui ci si difende dagli eccessi del potere, mettendo alla berlina chi lo esercita in maniera sbagliata».
(da La Repubblica)
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Febbraio 9th, 2025 Riccardo Fucile
DOPO L’USCITA DEL LIBRO “FRATELLI DI CHAT”, SALVINI STA PENSANDO COME FARGLIELA PAGARE A GIORGIA MELONI… DUE I MODI PER SFIDARE LA DUCETTA: LA LEGA HA FATTO CAPIRE DI VOLERE UN RIMPASTO IN REGIONE LAZIO, DOVE GOVERNA IL MELONIANO FRANCESCO ROCCA. NON PAGO, SALVINI HA LANCIATO UNA NUOVA ROTTAMAZIONE DELLE CARTELLE ESATTORIALI, “SFIDUCIANDO” IL LAVORO DEL VICE-MINISTRO DI FDI, MAURIZIO LEO
“Matteo è ancora offeso”. In pubblico ha fatto il pompiere, ma a Matteo Salvini non sono
andati giù gli insulti nelle chat di Fratelli d’Italia pubblicati nel libro Fratelli di chat (Paper First). Dentro la Lega raccontano che il ragionamento del leader sia grosso modo questo: passino i messaggi dei peones, cioè i vari parlamentari non di primissimo piano, ma non quelli di Meloni. Salvini ha deciso di non attaccare l’alleata, ma non mancano i modi per sgomitare, mettendo in difficoltà la premier su argomenti sensibili: l’ennesima rottamazione, le armi, le Regioni e così via.
Ieri, per dirne una, Salvini era a Madrid al raduno del gruppo dei Patrioti, la famiglia europea di cui fa parte la Lega. E se sugli elogi a Donald Trump il terreno comune con Meloni è facile da trovare, molto più spinosa è la questione della guerra in Ucraina.Salvini ci torna su: “Un tema centrale per noi è la pace. Noi vogliamo un’Europa che sia un ponte per la pace, non un campo di battaglia. Vogliamo un’Europa che dialoghi con tutti e cerchi soluzioni e non si pieghi ai diktat di chi vuole solo vendere armi e alimentare nuove guerre per alimentare solo interessi economici”.
Messaggio anche per i Popolari (di cui fa parte Forza Italia), incalzati pure a “scegliere”: “Vi chiediamo la visione e il coraggio di smettere di collaborare con i socialisti, di scegliere tra un passato disastroso e un futuro di cambiamento. I popolari devono scegliere tra il passato di Soros e il futuro di Elon Musk”.
Poi, giusto per tenere alti i toni di governo e per tornare su un elemento di divisione con FdI, ecco un riferimento all’Organizzazione mondiale della sanità – da cui la Lega, come Trump, vorrebbe uscire –, accomunata non senza fantasia alla Corte penale internazionale: “È giunto il momento di smettere di finanziare gli organismi sovranazionali come l’Oms, che difendono gli interessi delle multinazionali e non dei cittadini. È ora di mettere in discussione realtà come la Cpi, che mette sullo stesso piano i terroristi di Hamas e Netanyahu”.
Non finirà qui. La Lega ha infiniti argomenti per pungolare Meloni, come per vendicarsi dell’onta delle chat. E a poco serve la difesa di Giovanni Donzelli, che ieri ha minimizzato sul contenuto dei messaggi ricordando che erano conversazioni passate (“a quei tempi il centrodestra era diviso, dicevamo le stesse cose in pubblico”). Peccato che ci sono anche chat di ottobre scorso in cui i dirigenti di Fratelli d’Italia, e la stessa premier, ironizzavano sullo stato dei treni in Italia. […] La preoccupazione in FdI ora è per le mosse della Lega.
Due giorni fa il Carroccio ha fatto capire di volere un rimpasto in Regione Lazio, dove governa un meloniano come Francesco Rocca. Il quale, fiutata l’aria, per molti avrebbe già voglia di programmare elezioni anticipate, magari dimettendosi un anno prima della scadenza oggi prevista per il 2028. Le date, peraltro, coinciderebbero con una candidatura in Parlamento. Ma intanto c’è la Lega da gestire. Salvini ha lanciato una nuova rottamazione delle cartelle esattoriali, sfiduciando il lavoro del vice-ministro FdI Maurizio Leo sulla materia.
(da Il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 9th, 2025 Riccardo Fucile
IL CAPO DELLO STATO INVOCA POI “UN’EUROPA PIÙ FORTE” ALLA FACCIA DELLA DUCETTA TRUMPIANA ORMAI S-MUSKERATA E DI SALVINI A MADRID PER L’INTERNAZIONALE DEI PUZZONI SOVRANISTI CHE VOGLIONO DISTRUGGERE L’UE
I nazionalismi dividono, l’Europa accomuna: quante volte Sergio Mattarella l’aveva già detto nei dieci anni della sua presidenza? Eppure la stessa tesi, ribadita ieri, è suonata più attuale che mai perché in questo passaggio storico l’Unione rischia di disunirsi, minacciata da fuori e corrosa al suo interno. Caso ha voluto che, proprio mentre il presidente ne stava parlando nel pomeriggio a Gorizia, si tenesse a Madrid la manifestazione degli ultra-sovranisti Ue guidati da Marine Le Pen, da Viktor Orbán e da Matteo Salvini con il traguardo dichiarato di smantellare l’edificio europeo e restaurare gli Stati-nazione.
Il contrasto tra le due tesi, quella di Mattarella che chiede più Europa e l’altra dei Patrioti che ne vorrebbero meno, non sarebbe potuto suonare più stridente (sebbene i due eventi fossero programmati da mesi e la concomitanza occasionale). Il presidente è andato a festeggiare, insieme con la collega slovena Pirc Musar, una giornata davvero memorabile per Gorizia e per Nova Gorica nominate insieme Capitale della cultura transfrontaliera
E ciò esprime, secondo Mattarella, «il grande valore storico dell’Ue: una cultura con tante preziose peculiarità nazionali, con più lingue, ma comune». Esempio da seguire in un mondo caratterizzato da crescenti tensioni e «dall’abbandono della cooperazione come elemento fondante della vita internazionale» (le sanzioni Usa contro la Corte penale internazionale ne sono l’ultimo esempio). Nessuna parola invece sulle vicende italiane, in particolare sulle iniziative incendiarie del governo contro il procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi: la cerimonia di Gorizia non era la circostanza ideale.
E pure se lo fosse stata, Mattarella avrebbe evitato di esprimersi sull’argomento perché è sua priorità riportare la calma tra le istituzioni della Repubblica laddove un richiamo al governo (come gradirebbe l’opposizione) ovvero ai magistrati (secondo l’auspicio di maggioranza) non farebbe che gettare ulteriore benzina sul fuoco, ottenendo un effetto contrario. Non a caso la moral suasion di Mattarella dentro il Csm mira a calmare le acque più agitate.
A queste considerazioni, già note, negli ultimissimi giorni se n’è aggiunta un’altra: le denunce e controdenunce hanno innescato una raffica di inchieste incrociate che permetteranno alla magistratura stessa di fare luce sui comportamenti seguiti dal governo (nel caso Almasri) e dalla Procura di Roma (accusata da Palazzo Chigi per ritorsione di avere reso pubblico un rapporto dei Servizi sul capo di gabinetto della premier).
Qualunque opinione venisse espressa adesso dal presidente, prima che gli accertamenti si svolgano, verrebbe interpretata come un’interferenza, un tentativo fuori luogo di forzare la mano agli inquirenti esercitata oltretutto da un’autorità per definizione super partes.
Ragione per cui Mattarella se ne astiene e tace, nonostante la premier si senta nel mirino delle toghe e il governo abbia scatenato contro Lo Voi tutta la sua potenza di fuoco, addirittura con un esposto del Dis, il dipartimento che coordina le agenzie di intelligence: iniziativa quest’ultima senza riscontri nella storia repubblicana.
(da agenzie)
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Febbraio 9th, 2025 Riccardo Fucile
IRRITAZIONE PER LA NOTIZIA SUI MEDIA INTERNAZIONALI
Il silenzio del governo sul caso Paragon, la società israeliana produttrice dello spyware al
centro del presunto spionaggio contro giornalisti e attivisti, sta creando un corto circuito.
Ieri una fonte molto qualificata del governo ha assicurato al Fatto: il contratto è ancora in essere, la società non ha rescisso ancora alcunché, tanto più che quello spyware continua ad essere usato per le finalità previste, ossia la lotta alla criminalità. Tuttavia quando chiediamo conferma ufficiale a Palazzo Chigi, contattato via Whatsapp, non otteniamo alcuna risposta.
Eppure sono giorni che la notizia del passo indietro da parte degli israeliani è finita sui media. Ma ancora adesso, ufficialmente, il governo non ha proferito parola. Ha solo assicurato che i servizi segreti italiani non c’entrano nulla e che non sono stati spiati giornalisti, ma per tutto ciò che riguarda i rapporti e gli accordi con la società il luogo di discussione deve essere il Copasir. Eppure le opposizioni chiedono invece che si riferisca in aula: la vicenda è troppo grave per parlarne sotto il segreto. Dall’altra parte però l’esecutivo non vuole svelare informazioni sui sistemi di monitoraggio che altrimenti potrebbero avvantaggiare Stati esteri.
Il governo, che non ha apprezzato la pubblicazione sui media stranieri della notizia relativa alla chiusura del contratto, si aspetta che di qui a poco ciò possa avvenire realmente. Nel frattempo il Fatto ha chiesto ufficialmente conferma che lo spyware sia ancora in uso e che il contratto sia ancora in corso, ma da Palazzo Chigi non è arrivata alcuna risposta. Il punto però è che queste mancate spiegazioni stanno creando ambiguità, mentre la vicenda sta diventando per Meloni una grana sempre più grande. Soprattutto perché tra gli spiati c’è anche un giornalista, Francesco Cancellato, direttore di Fanpage. E poi ci sono tre attivisti di Mediterranea, come il fondatore della Ong Luca Casarini. In Italia si parla di sette soggetti finiti nel mirino, ma i numeri potrebbero presto salire. Di certo, il software di Paragon è stato usato dai servizi segreti (si assicura non verso i soggetti di cui si parla). Giovedì 6 febbraio, poi, erano stati i media esteri, l’inglese Guardian e l’israeliano Haaretz, a parlare della rescissione del contratto da parte della società. Si spiegava che già da venerdì 31 gennaio, quando la vicenda del presunto spionaggio diventa pubblica, c’era stato un “congelamento preventivo”. Haaretz aveva aggiunto che Paragon aveva chiesto all’Italia di fornire dettagli e dare spiegazioni. L’Italia aveva negato qualsiasi coinvolgimento ma, secondo il quotidiano estero, senza convincere gli israeliani. Il Guardian ha fornito anche un altro dettaglio: Paragon avrebbe chiuso l’accordo perché l’Italia avrebbe “infranto i termini di servizio e il quadro etico concordato nell’ambito del contratto”. In altre parole, sembra che l’azienda voglia puntare il dito contro un cattivo uso del software da parte dell’Italia. Dopo la diffusione di queste notizie, l’unica nota ufficiale di Chigi è stata quella del 5 febbraio: si “esclude che siano stati sottoposti a controllo da parte dell’intelligence e quindi del governo, i soggetti tutelati dalla legge 3 agosto 2007, n. 124, compresi i giornalisti”. “Per ogni altra questione… relativa all’uso degli strumenti in questione” Chigi riferirà al Copasir. Ora una fonte qualificata al Fatto assicura che il contratto non è stato ancora rescisso. Ma qui c’è un’altra stranezza: perché allora Paragon non ha smentito le notizie del Guardian e di Haaretz? E perché non lo ha fatto, nei giorni scorsi, neanche Palazzo Chigi?
Intanto ieri sul caso è intervenuto anche Guido Crosetto: “Penso che le spiegazioni siano molto più semplici di quanto venga ipotizzato. Forse basterebbe pensare a chi può utilizzare quegli strumenti oltre ai servizi” ha detto a chi gli chiedeva un commento sulla vicenda dello spyware. Sembra che il ministro della Difesa si riferisca a qualche procura. Ma Il Fatto ha verificato: le procure di Palermo, Roma, Milano e Genova non hanno a disposizione questo software, peraltro molto costoso.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Febbraio 9th, 2025 Riccardo Fucile
IL DUELLO TRA ASPIRANTI LEADER SOVRANISTI PER CHI E’ IL MIGLIOR SERVO DI TRUMP
La convention di Madrid è il terzo incontro in pochi mesi dei leader sovranisti ma il primo celebrato davanti a un pubblico, con la scenografia, la partecipazione e il coté emotivo di una grande assemblea di popolo. Anche per questo risulta un atto fondativo, una sorta di primo congresso di una potenziale internazionale Maga o Mega sul suolo dell’Unione, l’adunata di un “team Donald Trump” che va ben oltre la naturale simpatia riservata dalle destre europee a ogni presidente Usa espresso dalla destra americana. Qui c’è un grande progetto che ciascuno dei big coltiva per se stesso: diventare il trumpiano-in-chief sul suolo d’Europa, contendendo quel ruolo alla concorrenza conservatrice e soprattutto a Giorgia Meloni, quella che con Donald Trump ci parla davvero, quella che proprio qui a Madrid cominciò la sua scalata al cielo col famoso discorso “Yo soy Giorgia, soy una mujer”.
L’eco di quel comizio risulta evidente quando Matteo Salvini avvia il suo intervento in spagnolo, scusandosi per la pronuncia traballante, e ricorda il suo ruolo di difensore dei confini e i tre anni di inchieste e processi subiti “per aver bloccato migranti clandestini”. Ma la sfida tra i trumpiani d’Italia è solo un piccolo pezzo del racconto. Per capire il contesto generale e certi eccessi encomiastici dei discorsi – Trump “detonatore delle placche tettoniche della politica”, Trump agente della “reconquista cristiana”, Trump “rivoluzionario del buonsenso” – bisogna guardare alle biografie dei leader arrivati nella capitale spagnola.
Sono capi affamati, assetati, stremati da infinite traversate nel deserto che adesso vedono l’avvento dell’era Maga o Mega come un’oasi di latte e di miele improvvisamente fiorita davanti a loro. Marine Le Pen, una scalata al potere lunga ventitré anni e sempre fallita a pochi metri dalla vetta. Santiago Abascal, dal 2014 in campo con le stesse parole d’ordine, gli stessi video tonanti, in una Spagna che non gli ha mai dato più del 15 per cento (ora è al 9, 5). Matteo Salvini, pure lui capo di partito da oltre un ventennio, a un passo dal cielo nel 2019, precipitato in un purgatorio senza gloria, costretto a fare buon viso agli sberleffi dei potenti alleati di FdI. Ma anche l’olandese Geert Wilders, vincitore nelle urne e costretto a lasciare la premiership a un tecnico. O il portoghese Andrè Ventura di Chega! , che tira la carretta dal 2019, bandito da ogni intesa di governo malgrado il 18 per cento delle ultime elezioni.
L’unico con una corona in testa è il premier ungherese Viktor Orban, l’uomo che ha messo insieme tutti gli altri nel raggruppamento europeo dei Patrioti e adesso li incoraggia a osare di più: “Il tornado di Donald Trump – dice all’assemblea – ha cambiato il mondo. Ora siamo mainstream, siamo il futuro”. Ora, è il sottotesto, c’è un’opportunità per tutti di prendersi il potere così a lungo inseguito. Sarà. Ma intanto i riscontri dall’altra parte dell’Oceano non si vedono. Elon Musk non manda il messaggio di riconoscimento che ci si aspettava e resta indifferente alla pronta adozione del suo Make Europa Great Again come slogan-guida. Il presidente Usa, figuriamoci. E alla fine della due giorni l’unico link formale col mondo del lontano sovrano resterà la cena di venerdì sera con Kevin Roberts, il capo della Heritage Foundation, sponsor del Progetto 2025: un piano così estremista che persino Trump fu costretto in campagna elettorale a prenderne le distanze definendo le proposte “ridicole e abissali” (nel suo ultimo libro il politologo invita letteralmente a “incenerire molte istituzioni americane” a cominciare da Fbi e New York Times).
La convention così si è dovuta accontentare di un messaggio di quindici secondi dell’argentino Javier Milei, più che altro un saluto all’amico Santiago Abascal, e di un breve discorso della leader dell’opposizione venezuelana Corina Machado. Non sembra abbastanza per supportare le idee grandiose di un’internazionale benedetta dai padroni politici ed economici dell’Occidente, e nemmeno di una possibile relazione speciale con l’altra sponda dell’Atlantico. E tuttavia una gara è cominciata e quella sembra la posta in palio: chi cavalcherà meglio e con più efficacia il nuovo mainstream della libertà di dire, fare, demolire, provocare, sfidare i grandi organismi internazionali che finora hanno protetto i commerci, la salute, i diritti delle persone. Sempre ammesso che questo tipo di mainstream risulti vincente tra gli elettorati europei. Un recente sondaggio ha rivelato che persino un terzo degli elettori di Lega e FdI hanno un’opinione negativa del debutto di Donald Trump da presidente, e ancora non sono arrivati i dazi e la guerra commerciale che tutti danno per certa. Vai a vedere che questo celebrato nuovo mainstream, alla fine, risulti assai meno mainstream di come immaginano i Patrioti. . .
(da lastampa.it)
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Febbraio 9th, 2025 Riccardo Fucile
A FORZA DI RIPETERLA, ANCHE UN’IDIOZIA DIVENTA COSA SENSATA, MA NON E’ COSI’
Molto spesso nelle norme del codice civile si fa riferimento alla figura retorica “diligenza
del buon padre di famiglia”: arrivata fino a noi dal diritto romano, costituisce un modello per la valutazione della responsabilità, in cui sussiste l’idea e concezione di un’autorevolezza e di un’autorità positiva.
Nel sistema di governo basato sulla democrazia rappresentativa, può esistere un’astensione intesa come “mozione di sfiducia” contro i rappresentanti che non applicano la diligenza del buon padre di famiglia?
Prevalentemente chi si occupa dell’opinione pubblica, e convintamente ritiene di conoscerla assai bene, ribadisce e sostiene che: per l’opinione pubblica l’astensione o non voto è una reazione e manifestazione di protesta o sfiducia contro il sistema, poiché l’elettore non ha in alcun modo la possibilità di delegare (votare) la giusta rappresentanza per le proprie specifiche istanze politiche.
Ma tutto questo è solamente narrazione, ed è paradossalmente in contrasto con il comune buon senso, di fatto il non voto garantisce il perpetuarsi dello status quo, di rimanere nella situazione precedente se non peggio. Eppure per chi gestisce la comunicazione e l’informazione, per chi è in grado di influire e creare l’orientamento dell’opinione pubblica, questa “favola” è la corretta narrazione.
§Chi governa esercita i tre poteri sovrani tradizionalmente identificati: il potere legislativo, il potere esecutivo e il potere giudiziario, ma non solo questi; esercita anche il quarto potere, quello di orientare e formare l’opinione pubblica.
Strumenti del quarto potere sono: il mainstream asservito, i tuttologhi e gli intellettualoidi a busta paga, e poi tutta la corte dei miracoli che sta appresso ai potenti, quelli che se ne stanno tutti lì, in attesa di un posto al sole o di prebende.
Sono loro gli artefici del chiacchiericcio, che nel nulla e dal nulla creano la tendenza e la moda. Ed è di moda quello stridente leitmotiv: l’astensione è voto di protesta, l’astensione è voto di protesta… e ripeti, ripeti qualcosa resta… al punto tale che anche un’idiozia appare sensata, tanto da convincersi che per protestare non si debba andare a votare… e così: se i temi della politica appaiono incomprensibili, se nei talk-show l’olezzo ripugnante del populismo e della demagogia è insopportabile, col cine-panettone ci si può rilassare, e poi per dar sfogo alla rabbia è sufficiente non andare a votare…
E comunque che senso avrebbero tanto l’atto della delega quanto quello della sfiducia, verso il “facente funzione” del buon padre di famiglia? Si tratta esclusivamente della rinuncia a esercitare responsabilmente una propria coscienza e consapevolezza, sia individuale che sociale, ma soprattutto è una rinuncia alla democrazia politica. Fondamentalmente per giudicare l’idiozia dell’astensione di protesta, basta ancora il buonsenso del detto: “chi tace acconsente ed è complice”, ed hanno un bel dire: “sono tutti uguali” o “è sempre stato così”, una scusa e un pretesto idiota per giustificarsi di essere complice.
Poi? Poi ci sono quelli che si appropriano delle iniquità, malvagità e scelleratezza del sistema, si tratta solo di ribadire, addirittura, di avere il diritto all’illecito in quanto si tratta di perseguire “la diligenza del buon padre di famiglia”, in quanto “chi non ruba, ruba ai suoi figli”. E ancora: che “la ragione è dei fessi” riscontrando che nella realtà i grandi illeciti raramente portano alle giuste condanne.
E infine dal momento che si ha un approccio con l’illegalità, e la tendenza a riconoscerla come ineluttabile e sistemica, si apre un percorso tale da accondiscendere in modo succube, omertoso e comunque complice, a chi si identifica nelle tre scimmiette, quelle che: io non ho visto, io non ho sentito, e se anche avessi visto e sentito non ne parlo. Si tratta di assumere comportamenti comuni alle mafie
(da ilfattoquotidiano.it)
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