Maggio 19th, 2025 Riccardo Fucile
I MANIFESTANTI SCESI IN STRADA CHIEDONO LE DIMISSIONI DEL PREMIER ABDULHAMID DBEIBAH: TRE MINISTRI DEL GOVERNO SI SONO DIMESSI … IL RUOLO DELLA RUSSIA, CHE POTREBBE PAPPARSI LA CIRENAICA
Negli ultimi giorni, la situazione in Libia ha conosciuto un ulteriore
deterioramento. Le proteste popolari contro il governo guidato da Abdulhamid Dbeibah sono esplose con una forza inaspettata, culminando in manifestazioni di massa a Tripoli. La richiesta dei manifestanti è chiara: le dimissioni del primo ministro e del suo esecutivo. In risposta, tre ministri hanno per ora rassegnato le dimissioni, e con loro alcuni sottosegretari, segnalando una crescente frattura interna. Questi eventi si inseriscono in un contesto già estremamente fragile, segnato da violenti scontri tra gruppi armati rivali e da una crescente delegittimazione dell’autorità centrale. Le dimissioni ministeriali rappresentano un punto di svolta, rivelando un indebolimento critico della capacità di governo.
Allo stesso tempo, le infrastrutture petrolifere, pilastro dell’economia libica, sembrano continuare a funzionare regolarmente, almeno secondo le dichiarazioni della compagnia nazionale del petrolio (NOC).
Tuttavia, la tenuta del settore energetico non può essere data per scontata. Il rischio che il caos politico e militare si estenda anche agli asset strategici del Paese è concreto, soprattutto se le proteste dovessero radicalizzarsi o se le milizie utilizzassero la leva energetica per rafforzare le proprie posizioni.
Il quadro suggerisce che la Libia sia entrata in una nuova fase di transizione critica, in cui il dissenso popolare si salda con la crisi delle strutture statali. Il fallimento delle elezioni promesse e la persistenza di una governance armata priva di legittimità democratica alimentano una spirale di instabilità. In assenza di un’iniziativa politica forte e multilaterale — sostenuta dalle Nazioni Unite e da attori regionali ed europei — il rischio è che la crisi degeneri ulteriormente,
compromettendo la sicurezza dell’intera regione euro-mediterranea.
La Libia è di nuovo sull’orlo del collasso. La capitale Tripoli, dopo mesi di instabilità latente, è precipitata questa settimana in una nuova spirale di violenza urbana innescata dall’uccisione di uno dei comandanti miliziani più potenti del Paese, Abdel Ghani al-Kikli. A capo del Dispositivo di Supporto alla Stabilità (SSA), Kikli incarnava la fusione opaca tra autorità formale e potere armato che ha segnato la parabola del sistema tripolino post-Gheddafi. La sua morte, avvenuta in un agguato durante una riunione a Tripoli, ha scatenato una reazione a catena che potrebbe ridefinire — in chiave ancora più instabile — gli equilibri militari e politici in tutta la Libia occidentale.
La calma delle armi è attualmente rientrata, ma sotto la superficie la situazione ribolle. Nei giorni successivi all’eliminazione di Kikli, le sue basi sono state occupate da milizie rivali allineate al governo di unità nazionale. La capitale è entrata in stato d’assedio, con scontri tra miliziani, blackout, scuole chiuse e l’aeroporto di Mitiga evacuato. L’uso di droni armati e mortai ha trasformato per qualche ora gli scontri in una vera e propria guerra urbana, con la partecipazione attiva di gruppi fino a poco tempo fa integrati negli apparati di sicurezza dello Stato.
L’uccisione di Kikli segna la fine di una fase: quella in cui lo Stato cercava di contenere le milizie attraverso forme ibride di cooptazione e legittimazione. Il suo gruppo era divenuto un attore semi-statale, con accesso a fondi pubblici, influenza economica e capacità di condizionare la burocrazia. Il suo dominio si fondava su una rete di interessi trasversali e sull’impunità garantita dalla sua
utilità tattica per l’equilibrio della capitale.
Ma questo modello è arrivato al limite. Il controllo esercitato dalla Banca centrale libica sulla distribuzione delle risorse ha ridotto il margine d’azione delle milizie, accendendo tensioni latenti. L’escalation è stata aggravata dalla competizione tra gruppi come la Brigata 444 e le forze di deterrenza di Souq al-Juma, che stanno ridefinendo i rapporti di forza nella capitale. Le accuse rivolte al premier Dbeibah di aver autorizzato operazioni senza il consenso del Consiglio Presidenziale contribuiscono ad alimentare ulteriormente il clima di crisi istituzionale.
Parallelamente, la Cirenaica osserva e si muove. La dichiarazione di mobilitazione generale da parte di Misurata, in risposta a movimenti militari provenienti da Sirte — in parte controllata dalle forze di Khalifa Haftar — evidenzia il rischio di una saldatura tra il collasso del fronte tripolino e una nuova avanzata orientale. Haftar potrebbe sfruttare il vuoto di potere per rafforzare le proprie pretese nazionali
Il caos a Tripoli è dunque più di una faida interna: è l’epilogo (temporaneo) di una strategia che ha favorito la frammentazione e legittimato attori privi di accountability. Gli effetti collaterali sono già visibili: proteste popolari, crisi umanitaria, paralisi istituzionale e perdita di controllo su snodi strategici. Le riforme annunciate — come la ristrutturazione degli apparati di sicurezza — rischiano di rimanere superficiali senza un intervento politico forte e inclusivo.
Il rischio di regionalizzazione del conflitto è concreto. La Libia, già terreno fertile per interessi stranieri, potrebbe tornare a essere leva geopolitica per attori
esterni intenzionati a destabilizzare l’area mediterranea. La Russia, in particolare, potrebbe approfittare del vuoto istituzionale per espandere la propria influenza in Africa e fare pressione sull’Europa meridionale. In questo senso, la sicurezza libica si conferma un nodo critico nella stabilità euro-mediterranea.
(da agenzie)
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Maggio 19th, 2025 Riccardo Fucile
SANCHEZ: “NETANYAHU VIOLA IL DIRITTO INTERNAZIONALE COME PUTIN”
Il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez ha chiesto oggi di escludere Israele dalle prossime edizioni dell’Eurovision, nell’ultima stoccata allo Stato ebraico nell’arco di pochi giorni.
«L’impegno della Spagna per la legalità internazionale e i diritti umani dev’essere costante e coerente, anche a livello europeo», ha premesso Sánchez parlando a un convegno a Madrid, dove ha richiamato la necessità dell’impegno comune «perché cessi la guerra, che sia in Ucraina o a Gaza». Di qui il parallelo che il premier spagnolo ha tracciato tra le azioni militari del regime di Vladimir Putin e del governo guidato da Benjamin Netanyahu, e le relative conseguenze. «Credo che nessuno si sia messo le mani nei capelli quando tre anni fa iniziò l’invasione russa dell’Ucraina e si decise, né più ne meno, di escludere la Russia dalle competizioni internazionali, compresa l’Eurovision, come abbiamo visto questo finesettimana. Perciò non dovrebbe partecipare neppure Israele,
perché quello che non possiamo permettere sono i doppi standard, tanto meno nella cultura», ha affondato il colpo Sánchez. Che all’indomani della conclusione della 69esima edizione dell’Eurovision Song Contest diventa così il primo capo di governo a far sua la richiesta avanzata sin dallo scorso anno da gruppi organizzati vicini alle istanze palestinesi così come da decine di artisti di diversi Paesi.
Dalla tv all’Onu, l’offensiva anti-Netanyahu della Spagna
Nell’edizione appena chiusasi a Basilea la cantante israeliana Yuval Raphael, sopravvissuta alla strage del 7 ottobre, si è classificata seconda con la sua New Day Will Rise, e il breakdown della classifica ha poi mostrato che era stata la più votata dal pubblico televisivo in Europa. La tv pubblica spagnola che ha mandato in onda le puntate dello show continentale aveva però già “anticipato” la mossa di oggi di Sánchez rompendo col regolamento ufficiale dell’Unione Europea di Radiodiffusione (Uer), che l’aveva esplicitamente ammonita a non evocare il conflitto in corso a Gaza. Per tutta risposta RTVE ha pubblicato sul proprio sito – in spagnolo e in inglese – un video di 16 secondi con una scritta bianca su sfondo nero. Nessun suono, solo parole: «Di fronte ai diritti umani, il silenzio non è un’opzione. Pace e giustizia per la Palestina». Nei giorni scorsi Sánchez ci era già andato giù durissimo con Israele, definendolo in Parlamento «Stato genocida». Poche ore dopo il ministero degli Esteri israeliano aveva reagito convocando l’ambasciatrice spagnola Ana Salomon per consultazioni. Sabato, poi, El Paìs ha riportato come il governo di Madrid si appresti anche ad agire in sede Onu contro Israele, avanzando la proposta di adire nuovamente sia
la Corte internazionale di giustizia che la Corte penale internazionale per giudicare se Israele non stia violando il diritto internazionale, compreso quello umanitario, con le sue azioni a Gaza, ivi compreso il blocco degli aiuti umanitari che solo da questa mattina è stato parzialmente sciolto dopo due mesi e mezzo.
(da agenzie)
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Maggio 19th, 2025 Riccardo Fucile
L’EX DIRETTORE DI “ROLLING STONE”, CARLO ANTONELLI: “STUPISCE CHE I CLAMOROSI TRIONFI DI JASMINE PAOLINI PASSINO PER ‘NORMALI’. EPPURE È N.4 AL MONDO, VIENE DA UN’ANNATA DI TRIONFI”
Il tripudio immediatamente ritrovato per Sinner -il bambinetto secco preciso e
cattivissimo, killer- meriterebbe un’ulteriore analisi attenta, transazionale forse. La divisa custom-made di Nike, la zuccherosa vista dal Papa con racchette e palle e anche i genitori, mamma mia. Ma soprattutto il sadismo generalizzato per la polverizzazione di Ruud vissuto come assassinio manco tanto simbolico…
La fraccata di spot (20? 30?) in onda SEMPRE tra un break e l’altro indicano un’insicurezza o piuttosto una sicurezza di tirare il carro per un numero limitato di anni, una sorta di coscienza molto montanara-altoatesina per la sicurezza prima o poi della slavina agonistica-biologica.
Come si e’ iniziato a vedere al Foro Italico di fronte alla prestanza a 360 gradi di Carlos Alcaraz. Ma anche, un paio di giorni prima all’eleganza A.P.C. tra vecchio e perfetto nuovo stile di Lorenzo Musetti. Di fronte a questo beh stupisce che i clamorosi trionfi di Jessica Paolini vengano tutto sommato passati come ‘normali’.
Eppure n.4 al mondo, un’annata di trionfo totale, Internazionali di Roma in ultimo. Non molti i lavori da testimonial, pochi anzi
I motivi sono indubbi:
1) e’ tracagnotta, non slanciata come certe slavate pennacchione giusto pinzare di Sinner, questo perche’;
2) la body positivy non e’ affatto assimilata nell’animo del Paese;
3) la Paolini (che non a caso e’ stata vista da Mattarella e non da Leo XIV) e’ mezzo italiana e mezzo polacca, solo che la meta’ polacca e’ composta anche da un ulteriore meta’ ghanese.
E’ soprattutto questo il punto: il Mondo, e il mondo femminile da una parte e il Mondo Bianco e spietato dall’altra. Meno male che ha vinto il secondo.
Jasmine con il suo fisico minuto (1.63) in un tennis di perticone davvero ha stupito tutti, dopo essersi abituata a prendersi le cose un po’ alla volta, lavorando: “Mi piacerebbe avere qualche centimetro in più per servire meglio
però c’è da dire che essendo piccolina mi muovo bene”. A proposito, alle critiche sulla convocazione rispose così, con ferma timidezza: “Lasciateci crescere, ci vorranno almeno dieci anni per giudicare i nostri risultati”.
E invece è arrivata in anticipo, aspettando con il sorriso e la pazienza che maturasse anche il suo momento. Papà Ugo gestiva un bar a Bagni di Lucca in cui mamma Jacqueline lavorava come cameriera. Lei, con la cugina, si era trasferita in Italia dalla Polonia, paese della madre ma non del padre, nato in Ghana e spostatosi in seguito a Copenaghen.
Jas a sei anni preferisce il tennis al nuoto, su suggerimento di papà e dello zio Adriano, e prende in mano per la prima volta una racchetta al Tc Mirafiume di Bagni. Un colpo di fulmine proseguito poi a Forte dei Marmi e, dopo aver capito che il tennis era la strada da percorrere, al Centro Federale di Tirrenia, dove conosce Renzo Furlan, il coach che la seguirà per un decennio portandola in finale a Parigi e a Wimbledon e soprattutto in top ten, quinta italiana di sempre dopo Schiavone, Errani, Pennetta e Vinci: già, proprio le dee della generazione dorata, quelle che non avrebbe mai potuto eguagliare. E adesso può davvero ricordare con una delle sue risate contagiose di quando le dicevano che era troppo bassa per giocare a tennis.
Talento, volontà, raffinata intelligenza tennistica e quelle gambe di caucciù, lascito del nonno materno ghanese: “Sono veloce per le mie origini africane, probabilmente, ma non sono mai stata lì e non ho mai conosciuto mio nonno.
Conosco bene, invece, la Polonia, fino ai 10-11 anni ci andavo tutte le estati e ho tanti ricordi d’infanzia. Parlavo polacco ma non praticandolo lo sto un po’
perdendo, non è una lingua facile. Comunque, credo che la multiculturalità sia un valore e mi abbia sicuramente arricchita”.
(da agenzie)
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Maggio 19th, 2025 Riccardo Fucile
“CHIUSURE SELVAGGE DI UFFICI, SMANTELLAMENTO DELLE RETI DI PROTEZIONE INTERNAZIONALE, TAGLI INDISCRIMINATI AL PERSONALE NECESSARIO: NON È COSÌ CHE SI METTE MANO AL DEFICIT, CHE INFATTI È RIMASTO TALE E QUALE. I DAZI NON SARANNO LA SOLUZIONE”
“Il problema del disavanzo pubblico esiste in tutti i Paesi industrializzati, e ovunque si cerca di attaccarlo. I problemi dell’America sono due: le dimensioni astronomiche dei titoli in circolazione (quasi 37mila miliardi di dollari, ndr) e il fatto che Trump sembra proprio la persona meno adatta per affrontarlo”.
James Galbraith, economista e professore di Scienze politiche all’Università di Austin, Texas, commenta così il fatto che per la prima volta nella storia gli Stati
Uniti non hanno più la tripla A presso nessuna delle principali agenzie di rating.
Perché Trump non è all’altezza della situazione?
«Perché ha una naturale idiosincrasia per qualsiasi regola e qualsiasi autorità di controllo, compresa la Fed e addirittura i giudici. Anziché riconoscere il valore dei tecnici, si affida all’estemporaneità di gente come Musk, che in pochi mesi ha fatto un disastro con il suo attacco al sistema della sicurezza sociale, che invece funzionava bene. Chiusure selvagge di uffici, smantellamento delle reti di protezione anche internazionali, tagli indiscriminati al personale necessario: non è così che si mette mano al deficit, che infatti è rimasto tale e quale».
Invece cosa andava fatto?
«Intanto alzare le tasse, a partire ovviamente dai ricchi e le corporation, anziché continuare a prometterle di abbassarle. Poi smetterla di assicurare che saranno i dazi la soluzione: è quanto di più sbagliato».
Ma a questo punto è verosimile che gli Usa avranno il problema di non riuscire a rifinanziare il debito?
«Direi ancora di no, vista la forza del dollaro, che per quanto scalfìta dalla crisi di fiducia rimane alta. Certo, i tassi saliranno e quindi il problema si autoalimenta: il debito sale ancora per pagare gli interessi. Bisogna fare attenzione sempre alla questione dei dazi: se prevarrà lo “spirito di Ginevra” o si andrà a nuovi scontri con la Cina. Con Trump non c’è mai certezza».
Quindi ritiene che il pericolo di una recessione esista ancora?
«Il primo trimestre si è chiuso in negativo per l’anomalo andamento delle importazioni dovuto alla paura dei dazi. Ora i timori si sono attenuati: in questo
trimestre prevale viceversa il rallentamento delle catene di fornitura e non credo che si andrà di nuovo in rosso. Ci sarà un rimbalzo. Ma, ripeto, le incertezze sono tante».
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Maggio 19th, 2025 Riccardo Fucile
LA “COMPASSIONE” DI TRUMP, CHE HA COINVOLTO LAST MINUTE “COSETTA” MELONI NELLA CHIAMATA CON MACRON, STARMER E MERZ – LE FAKE NEWS DI PALAZZO CHIGI PROPALATE DALLA STAMPA E MEDIA DI DESTRA COL SUPPORTO DEL “CORRIERE DELLA SERA”: NON E’ MAI ESISTITA LA VOLONTÀ DI ESCLUDERE L’ITALIA DAL GRUPPO DEI ”VOLENTEROSI”. È LA “GIORGIA DEI DUE MONDI” STESSA A ESSERSI CHIAMATA FUORI, IN PREDA ALL’AMBIZIONE SBAGLIATA DI DIVENTARE LA “PONTIERA” TRA STATI UNITI ED EUROPA
Come abbiamo avuto modo di sottolineare più volte, Giorgia Meloni soffre per la sua
impotenza politica di diventare il “pontiere” mediatore per far dialogare Stati Uniti ed Europa.
L’attivismo di Macron, Starmer, Merz e Tusk, ha fatto precipitare la premier in un cono d’ombra, da cui ha provato a tirarsi fuori maldestramente organizzando la “tavoletta rotonda” con JD Vance e Von der Leyen, ieri a margine della
messa di inizio pontificato di Papa Leone XIV
Un incontro accidentale, favorito dall’insediamento del nuovo papa (a dimostrazione che non è Giorgia Meloni a convocare i potenti a Roma, ma la Chiesa) e che, in gergo diplomatico, viene definito da “tè e biscottini”, ovvero generiche chiacchiere, buone intenzioni, cordialità. Tradotto: il bla-bla del nulla, buono solo per far scattare una foto, accompagnata dalle trombette della propaganda.
Per di più con l’aggravante dello sgambetto velenoso di Ursula, che ci ha tenuto subito a precisare, a differenza di quanto orgogliosamente affermato da “Dear Giorgia”, che non era ”la prima volta” che incontrava il vicepresidente americano (la prima, peraltro, s’è materializzata a febbraio nella Parigi dell’odiatissimo Macron).
La presidente della Commissione Ue e l’ex hillbilly dell’Ohio hanno chiacchierato amabilmente di Papa Prevost e della pace “giusta e duratura” in Ucraina.
Quando nell’aria ha iniziato ad aleggiare il tema dazi, Ursula ha tirato fuori gli artigli e ha stoppato Meloni da ogni possibile conversazione al riguardo, precisando che dell’argomento si stanno occupando, tra l’altro con risultati meglio del previsto, il commissario Ue al commercio, Maros Sefcovic, e il segretario al commercio Usa, Howard Lutnick.
E la Meloni ha “dovuto” precisare (ammettendo dunque una sostanziale impotenza e l’assurdità delle trattative bilaterali sulle tariffe) che la competenza sul tema non è dei singoli stati, ma della Commissione di Bruxelles e che
l’Italia vuole solo “aiutare” il dialogo.
L’attivismo di Giorgia Meloni deve aver mosso a compassione l’amico Donald che, avendo stabilito il format della videocall con i “Volenterosi”, questa notte ha voluto coinvolgere anche la premier italiana.
La telefonata avrebbe dovuto svolgersi alle 14 ora italiana, ma è stata anticipata per una necessità di agenda della Casa Bianca.
Dopo il confronto con Macron, Merz, Meloni e Starmer, Trump dovrebbe sentire telefonicamente Vladimir Putin, con cui discutere della ipotetica tregua per poi aggiornare Merz, Macron e Tusk, che hanno già discusso della situazione con Zelensky, al summit a Tirana di venerdì scorso, in occasione del vertice della Comunità politica europea.
La foto dei leader con l’ex comico ucraino, al telefono con Trump, ha messo in allarme i capoccioni col fez di Palazzo Chigi: in quell’immagine, era evidente l’irrilevanza del Governo italiano nella grande partita su Kiev. A Tirana forse Giorgia Meloni ha capito il suo isolamento e ha provato a muoversi in contropiede, organizzando in fretta e furia il trilaterale “tè e biscottini” con von der Leyen e Vance.
Ora va chiarita una volta per tutte che nessuno del quartetto Macron-Starmer-Tusk-Merz si è mai opposto alla presenza della Ducetta tra i “Volenterosi”. È lei, semmai, ad essersi chiamata fuori con la scusa della sua contrarietà all’invio di truppe europee a sostegno di Kiev, per non dare sponde al “pacifinto” e filo-putiniano Salvini
Una mega-balla ben montata ad arte dai giornali di destra e dal “Corriere” filo-governativo, una fake news, come ha detto Macron, che serve solo a far credere che l’Europa voglia imbracciare il fucile e combattere contro la Russia, e tenere l’Italia sovranista ai margini.
Niente di più falso: sono favorevoli ad andare boots on the ground soltanto Francia e Regno Unito, mentre Germania e financo la Polonia, in prima linea nel riarmo in funzione anti-russa, non ne hanno la minima intenzione.
Di più: l’eventuale invio di truppe britanniche e francesi riguarda unicamente la salvaguardia e la sicurezza dei confini ucraini, con l’indispensabile presenza dell’intelligence americana.
Inoltre, si parlerà di un’eventuale missione di peacekeeping soltanto dopo la firma di una tregua, che ancora non si vede all’orizzonte, e solo in presenza di una indispensabile “copertura” di intelligence da parte degli Stati Uniti (come attualmente avviene con i mezzi messi a disposizione dalla Cia). Quindi, niente eserciti in guerra al fianco di Kiev, come propala la propaganda meloniana diretta al cuore delle mamme.
Ps. Nonostante la grancassa mediatica, insufflata dalla propaganda di Palazzo Chigi, la “fortezza” del consenso meloniano non sembra più così intangibile.
Se il gradimento di Fratelli è ancora alto, tra il 28 e il 29%, anche grazie all’attivismo da “influencer” di Giorgia Meloni, d’altra parte il consenso complessivo degli italiani verso il Governo è ai minimi dall’insediamento, del 2022, come certificava sabato il sondaggio di Ilvo Diamanti su “Repubblica” (il governo è al 35%, 20 punti in meno rispetto all’ottobre 2022, ma Fratelli d’Italia guadagna punti rispetto alle elezioni, e resta al 29%. merito di un’opposizione che non riesce a incidere)
(da Dagoreport)
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Maggio 19th, 2025 Riccardo Fucile
L’EX COCCA DELLA MERKEL SI RIFERISCE AL BILATERALE “VERO” DELL’11 FEBBRAIO, NELLA PARIGI DELL’ODIATISSIMO (DALLA PREMIER ITALIANA) MACRON. CONCETTO POI RIBADITO IN UN TWEET … LA SORA GIORGIA “COSTRETTA” DALLA COMMISSIONE A RICORDARE CHE LA COMPETENZA SUL COMMERCIO È DELL’UE… GIALLO SUI TEMPI DELLA TELEFONATA DI MELONI CON TRUMP. E VON DER LEYEN LA CORREGGE
«Vice president, good to see you again!». Von der Leyen esordisce così. In un salottino di Palazzo Chigi, sgombrato del mobilio abituale per far posto al tavolo ovoidale che ospita il terzetto, Giorgia Meloni ha appena celebrato a favore di obiettivo il «primo incontro» tra un rappresentante dell’amministrazione Trump, il vice-Donald JD Vance, e il capo della commissione Ue.
Ma appena la parola passa alla popolare tedesca, dopo i ringraziamenti a «Giorgia» per l’ospitalità, ecco la puntualizzazione. L’incontro non era il primo,
detto in soldoni, ma il secondo. «Vicepresidente, sono felice di vederla di nuovo». Again, precisa Ursula.
Che prosegue così: «Ci siamo già incontrati a Parigi, ora qui a Roma». Parigi, parola tabù, per la cerchia della leader della destra italiana. Il riferimento di von der Leyen è a un altro summit con Vance: l’11 febbraio, a margine dell’evento sull’intelligenza artificiale organizzato dal presidente francese Emmanuel Macron.
Non era stata una fugace stretta di mano, tre mesi fa, ma un bilaterale vero, «per discutere delle relazioni» fra Bruxelles e Washington, con tanto di bandiere di Usa e Ue sullo sfondo.
E non è un convenevole, per von der Leyen, ricordarlo in premessa. Nemmeno un inciso. Tanto che pure nel tweet di commento al trilaterale romano, le versioni delle due leader non collimano. Meloni insiste sul «primo incontro». Mentre la presidente della commissione Ue ribadisce, nella prima riga, di essere «felice di avere incontrato JD Vance di nuovo». Again.
Non sono sfumature, nel linguaggio della diplomazia, anche se naturalmente tutta la macchina comunicativa di FdI spinge sul «capolavoro» riuscito alla premier «pontiera», come le riconosce Vance.
Fonti di maggioranza spiegano che non ci sono problemi di relazioni con von der Leyen, che per Meloni ha speso parole di elogio, anche ieri. Il punto è che il capo della commissione deve rispondere a 27 governi. E non tutti, naturalmente, vogliono conferire a Roma un ruolo speciale. Tanto che l’idea originaria della premier di radunare nell’Urbe Trump, “VdL” e gli altri leader
europei pare ormai definitivamente tramontata. Secondo le stesse fonti, anche per rispondere a una richiesta di Bruxelles Meloni ieri ha ricordato che la «competenza sui dazi è della Commissione».
Consapevole di queste difficoltà con i partner Ue, Meloni scommette sul feeling con l’altra sponda dell’Atlantico. Rapporto testimoniato dalla batteria di complimenti di cui la ricopre Vance tra gli stucchi di Chigi, dopo quelli alla Casa bianca di Trump. Con The Donald Meloni si è sentita di nuovo. E i tempi dello scambio sono un rebus.
Palazzo Chigi, fino a ieri pomeriggio, non confermava chiamate con Washington. Poi, all’ora di cena, la notizia è stata battuta dall’agenzia Adnkronos. Ma la telefonata risale a due giorni fa. Cioè a sabato, all’indomani della call dei “volenterosi” a Tirana con il tycoon, dalla quale l’Italia era stata esclusa
(da La Repubblica)
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Maggio 19th, 2025 Riccardo Fucile
IL SEGRETARIO AL TESORO, SCOTT BESSENT, PROVA A RASSICURARE IL MERCATO E DÀ LA COLPA DELLA SITUAZIONE A BIDEN. PECCATO CHE L’AGENZIA DI RATING ABBIA CRITICATO APERTAMENTE IL PIANO DI TAGLI ALLE TASSE DA 5MILA MILIARDI VOLUTO DA TRUMP… IL DEBITO AMERICANO NEGLI ULTIMI VENT’ANNI È RADDOPPIATO: VALE QUASI 37MILA MILIARDI DI DOLLARI (MILLE ALL’ANNO DI INTERESSI)
Il taglio del rating degli Stati Uniti da parte di Moody’s, che si accoda a S&P e
Fitch nel privare gli Usa della tripla A, mette pressione al mercato dei titoli di Stato americani, al centro ad aprile di una forte turbolenza che aveva contribuito all’ammorbidimento delle politiche tariffarie del presidente Donald Trump.
I rendimenti dei titoli a trent’anni hanno superato il 5% per la prima volta da aprile, arrivando a toccare il 5,01%, mentre quelli decennali si sono spinti sopra il 4,5%, fino al 4,52%, in scia alla decisione di Moody’s che ha puntato il dito contro un debito e un deficit crescenti che aumentano il costo per interessi del governo americano e rischiano di mettere in discussione la posizione degli Usa come principale destinazione dei capitali globali.
Riaprono le Borse e torna la grande paura del debito. Non quello italiano, ma degli Stati Uniti, raddoppiato in vent’anni fino alla fantasmagorica cifra di 36.866 miliardi di dollari, che costano mille miliardi l’anno di interessi. Ed è solo il debito federale.
Venerdì sera anche Moody’s, l’ultima delle tre agenzie globali a farlo, ha scritto che non ci sono più le condizioni perché gli Usa abbiano un rating tripla A, ribassandolo ad Aa1.
Moody’s ha poi espresso preoccupazione per l’aumento del debito Usa, in uno scenario di entrate stabili che «dovrebbe aumentare il rapporto deficit/Pil dal 6,4% del 2024 al 9% nel 2035».
Per tutto questo venerdì, mentre Wall Street chiudeva con il quinto rialzo filato, i rendimenti dei Treasury bond decennali sono risaliti dal 4,42% al 4,5% in pochi istanti
Oggi saranno rimessi alla prova, come pure le azioni di Wall Street e il dollaro
che a gennaio ha perso la parità sull’euro (venerdì ha chiuso a 0,90).
Il segretario al Tesoro Usa, Scott Bessent, ieri ha provato a dare messaggi rassicuranti. «Penso che Moody’s sia un indicatore in ritardo, questo è ciò che tutti pensano delle agenzie di rating», ha detto il finanziere in un’intervista alla Cnn.
Bessent, che ha fatto fortuna creando il fondo hedge Key Square Group, ha accusato la scorsa amministrazione di Joe Biden «e le spese che abbiamo visto negli ultimi quattro anni» di essere alla base della bocciatura di Moody’s: «Non ci siamo arrivati negli ultimi cento giorni».
L’agenzia di rating, tra l’altro, ha criticato la legge di bilancio ora in discussione al Congresso degli Usa, che punta a nuovi tagli di tasse per circa 5.000 miliardi di dollari estendendo la misura introdotta da Donald Trump nel suo primo mandato (2017), e per ora non passata anche dato il voto contrario di alcuni repubblicani.
Prima di Moody’s, che venerdì aggiornerà anche il rating dell’Italia(oggi Baa3, e prospettive “stabili”), avevano già tolto la tripla A agli Usa Fitch nel 2023 e S&P, nel 2011. Quella volta fu uno choc, con la crisi finanziaria in atto dopo il dissesto di Lehman. Oggi, anzi da mesi, gli operatori si comportano già come se il debito Usa sia un po’ meno “senza rischi”: ma potrebbe essere ugualmente l’occasione per un’ondata di vendite, dato che i mercati vengono da un mese di rimbalzi, con un parziale di quasi +20% per l’S&p 500.
(da agenzie)
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Maggio 19th, 2025 Riccardo Fucile
DEBACLE DEL PARTITO SOCIALISTA, CHE SCENDE AL 23%: IL LEADER, PEDRO NUNO SANTOS, SI DIMETTE … I SOVRANISTI DI ANDRÉ VENTURA (GRANDE AMICO DI SALVINI) SALGONO AL 22% E OTTENGONO 58 SEGGI
La coalizione conservatrice Alleanza democratica, guidata dal premier uscente Luis Montenegro, ha ottenuto la vittoria con il 32,7 per cento dei voti alle elezioni politiche in Portogallo, aumentando i propri seggi da 80 a 89.
Tuttavia, dopo il voto di domenica la coalizione non e’ riuscita a raggiungere la maggioranza assoluta in Parlamento. Il Partito socialista (Ps), guidato da Pedro Nuno Santos, ha subito invece una significativa sconfitta, scendendo al 23 per cento dei voti e passando da 78 a 58 seggi.
In seguito al deludente risultato elettorale, Santos ha annunciato le sue dimissioni dalla segreteria del partito. La formazione sovranista Chega, guidata da Andre’ Ventura, ha a sua volta registrato un notevole incremento, raggiungendo il 22 per cento dei voti e ottenendo 58 seggi, eguagliando il Ps. Questo risultato consolida Chega come terza forza politica nel Paese lusitano e rappresenta una sfida significativa al tradizionale bipartitismo portoghese
instauratosi dopo la Rivoluzione dei Garofani del 1974.
Ventura ha dichiarato l’intenzione di governare in futuro, ma al momento ha escluso intese con Alleanza democratica. La partecipazione elettorale e’ stata del 64,3 per cento, superiore a quella del 2024. Nonostante cio’, il futuro della governabilita’ rimane incerto, in attesa dei risultati del voto estero. Il fronte di sinistra ha subito un forte calo, mentre il partito ecologista Livre ha registrato un modesto miglioramento.
Queste elezioni, le terze in tre anni, sono state indette a seguito della caduta del governo Montenegro, provocata da un presunto conflitto d’interessi legato ad un’azienda di famiglia del premier. Sebbene non siano emerse al momento illegalita’, la mancanza di trasparenza ha sollevato forti accuse da parte dell’opposizione.
(da agenzie)
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Maggio 19th, 2025 Riccardo Fucile
IL CANDIDATO EUROPEISTA, RAFAL TRZASKOWSKI, BATTE DI MISURA AL PRIMO TURNO IL NAZIONALISTA KAROL NAWROCKI. SE AL BALLOTTAGGIO DEL 1 GIUGNO VINCESSE IL SECONDO, IL PREMIER DONALD TUSK CONTINUEREBBE A ESSERE UN’ANATRA ZOPPA
L’ottimismo dei Volenterosi, il pessimismo della realtà. Il risultato del nazionalista
Karol Nawrocki al primo turno delle presidenziali polacche — quasi un quarto di voti più del previsto, stando agli exit poll — dice per ora una cosa: la Polonia, il nuovo soggetto politico adottato dal piccolo direttorio europeo di Volenterosi anti-Putin, l’ultimo ammesso nel salotto buono di francesi e tedeschi, rischia d’inciampare sulla corda che i nazionalisti le stanno tendendoA sorpresa, l’europeista Rafal Trzaskowski s’inchioda appena sopra il 30% (i sondaggi lo davano favorito: almeno due punti sopra) e fino a tarda sera
si trova quasi appaiato al 29,15% di Nawrocki, uno che per gli scommettitori invece non poteva andare oltre il 23%.Che nessuno ce la facesse al primo turno, era previsione facile. Che il sovranista ce la facesse così bene, no. Adesso, s’andrà al ballottaggio del primo giugno con un interrogativo: peseranno di più i voti del terzo incomodo, il milionario iperpopulista e putiniano Stanislaw Mantzen (che può contare su una base del 14%), o quelli dispersi fra i candidati minori che andrebbero a logica su Trzaskowski?
Non aiuta a decifrare l’affluenza del 66,8%: è stata superiore a quella di cinque anni fa, e non è possibile dire chi abbia favorito, né capire quanto si mobiliteranno ora i 7 milioni e mezzo di polacchi rimasti a casa. «Questo risultato dimostra quanto dobbiamo essere forti e determinati», avverte Trzaskowski a tarda sera, nello stadio di Sandomierz, arringando i suoi fan.
«Dobbiamo vincere al ballottaggio per impedire agli altri di monopolizzare il potere», il guanto della sfida di Nawrocki.
Di sicuro c’è che per il premier Donald Tusk presidente di turno dell’Ue, e per le cancellerie di mezz’Europa, saranno due settimane di passione. In Polonia, il presidente ha tre poteri: orienta la politica estera, può mettere il veto ad alcune leggi, comanda le forze armate. E chiunque vinca fra due settimane, dovrà affrontare il rapporto proprio con Tusk.
Il presidente uscente, Andrzej Duda, sovranista, con l’arrivo del Donald di Varsavia s’era reso famoso per tutti gli stop che poneva alle scelte filo-Ue del governo. Il suo erede Nawrocki promette di dare a Tusk la stessa battaglia, se non di più. In gioco, ci sono anche il milione di ucraini che i sovranisti vorrebbero rispedire a casa loro, oltre che la giustizia, l’aborto, i diritti delle minoranze.
Il trumpiano Nawrocki è uno storico specializzato nei crimini nazisti e comunisti, si fregia d’un rapporto privilegiato col Donald americano, è chiacchierato per qualche amicizia neonazi e non ama le politiche dell’Europa, né la Germania che accusa d’avere (di nuovo) invaso la Polonia con le onde migratorie.
Molto cambierebbe se fra due domeniche la spuntasse l’europeista Trzaskowski, nobile pedigree d’un oxoniano che parla pure l’italiano, ex ministro e sindaco di Varsavia, figlio d’un famoso jazzista e pronipote dell’uomo che aprì le scuole superiori alle donne polacche: una sua presidenza sarebbe il via libera a Tusk e alle sue riforme.
Ma proprio questo è il nodo: pur di fermare questa «dittatura delle oligarchie europee», promette il terzo arrivato Mentzen, «sono disposto a cercare voti porta a porta».
(da agenzie)
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