I FIGLI D’EUROPA STREGATI DALL’ODIO
LA QUINTA GENERAZIONE PANISLAMISTA CRESCIUTA IN OCCIDENTE
L’accento british del boia di Jim Foley materializza un incubo per governi e opinioni pubbliche occidentali: quello della guerra in casa.
Già evocato da un video dell’IS, circolato nelle scorse settimane in Rete, che riprende immagini di città americane. E nel quale la voce narrante fa sapere: «Siamo già tra voi!». O meglio: «Siamo sempre stati qui!».
Un incubo che non riguarda solo gli Stati Uniti. Ci sono migliaia di giovani europei, musulmani di seconda generazione, cittadini o residenti di Paesi dell’Unione, nelle file dello Stato Islamico.
Non solo britannici, ma anche francesi, tedeschi, scandinavi, belgi.
Oltre che italiani: come ha rivelato la morte in combattimento in Siria del convertito Giuliano Delnevo. E tra Mosul e Raqqa vi sono decine di nuovi italiani.
Non poteva essere diversamente nel tempo della globalizzazione che trasforma le società occidentali in società multietniche e multiculturali.
Significativamente il gruppo che gestisce il «circuito penitenziario» degli ostaggi dello Stato Islamico, e al quale appartiene «John» il carnefice di Foley, sono chiamati dagli jihadisti locali i «Beatles».
Non certo perchè, oltre a salmodiare versetti coranici, cantano Lucy in the Sky with Diamonds. Gli «scarafaggi» britannici, così come i loro compagni d’avventura partiti dalle banliues parigine o dai quartieri etnici tedeschi, fanno parte della quinta generazione panislamista.
Seguita a quella, pionieristica, che ha praticato il jihad contro la potenza «atea» sovietica negli anni Ottanta; a quella che ha avuto il battesimo del fuoco in Bosnia a metà degli anni Novanta; a quella riunita attorno a Al Qaeda nell’Afghanistan dei Taleban; a quella che ha combattuto in Iraq durate l’epopea sanguinaria di Zarkawi.
La novità è proprio questa: la quinta ondata registra una massiccia presenza di mujiahidin nati o cresciuti in Occidente.
Alcuni dei quali giovanissimi e non solo maschi. Un dato che, purtroppo, non stupisce.
Con il suo dogmatismo, le sue risposte nette all’indeterminatezza della vita, il suo richiamo alla dimensione comunitaria, l’islam radicale offre straordinarie certezze e, sia pure distorte, risposte di senso.
Quelle che nel tempo della fine delle grandi ideologie, nessun altro sistema culturale è più in grado di offrire.
In discussione, per questi membri della generazione del rifiuto e del rancore, non vi è solo una politica che, a loro dire, criminalizza sempre e comunque l’islam, ma anche un sistema di valori.
Per questa generazione militante nessun passaporto può mettere in discussione la sola appartenenza riconosciuta: quella transnazionale alla comunità di fede e ideologica declinata secondo i principi radicali.
Quella attuale è, però, una generazione, figlia del suo tempo.
Nell’era del frammento e dell’individualizzazione, anche la partecipazione al jihad segue cicli temporali definiti da fattori impolitici. Così per parte di quei giovani è «normale », dopo aver partecipato alle campagne di Iraq o Siria, tornare nel Paese nel quale hanno vissuto e riprendere una vita quotidiana scandita da altri imperativi, come il lavoro o la famiglia.
Per quelli che non sono stati catturati, o da eserciti ostili o da video che ne fissano per sempre il volto negli archivi d’intelligence, si presentano opzioni diverse.
Alcuni, come i ludici, che hanno praticato l’esperienza essenzialmente come dimensione esistenziale legata ai loro vent’anni, ritengono il kalashnikov un momento fondamentale ma superato della loro biografia.
Una realtà più diffusa di quanto si pensi tra gli europei che hanno combattuto in Mesopotamia. Anche se l’aggravarsi di conflitti internazionali, o la percezione di una criminalizzazione collettiva dell’islam, spesso maturata nelle dinamiche locali, non esclude che possano tornare in azione.
Altri, invece, rimangono legati, più o meno organicamente, alla rete jihadista, che estende i suoi tentacoli nelle metropoli occidentali.
Sono gli jihadisti mascherati o « in sonno», non certo esposti nell’attivismo di quartiere. Hanno un alto profilo di rischio, sanno usare armi ed esplosivi, e possono colpire su input esterno o autonomamente.
Il timore, oggi, è che il conflitto siro-iracheno trasformi le città occidentali in nuovo avamposto del fronte.
A conferma che la distinzione tra globale e locale è, in questi casi, sempre più effimera.
Renzo Guolo
(da “La Repubblica”)
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