I RENZIANI TRASCINANO GIU’ IL PD: DAL VENETO FINO ALLA LIGURIA E ALL’UMBRIA
RISPETTO ALLE EUROPEE LA MORETTI FA PERDERE 600.000 VOTI SU 900.000, CON LA PAITA E LA MARINI SE NE VA IL 505 DELL’ELETTORATO… VINCONO I NON RENZIANI ROSSI, EMILIANO E CERISCIOLI
Hanno perso tutti.
Il Pd che festeggia il 5-2 e dà la colpa della Liguria a Pastorino. Finchè si parla di vittoria, può anche avere ragione. Ma i democratici fanno finta di non notare che in termini assoluti, nelle sette regioni, lasciano sul campo tra un milione e mezzo e due milioni di voti rispetto alle elezioni Europee.
Perchè la forbice? Perchè alle Europee il Pd corre da solo, alle Regionali si presentano spesso liste civiche a supporto dei candidati presidente che però sono animate da pezzi del partito. Secondo l’istituto Cattaneo il Partito democratico ha perso 2 milioni e 143mila voti.
Se ci aggiungiamo le preferenze raccolte da liste come “Emiliano sindaco di Puglia” o “De Luca presidente” si scende a un milione e 632mila voti di differenza tra la performance del 41 per cento di un anno fa e quella del 5-2 delle Regionali.
Tanto per capirsi: il Pd che aveva “non vinto” alle Politiche del 2013, quello di Bersani, aveva preso nelle stesse Regioni un milione di voti in più.
E a registrare che il “nuovo” Pd ha scalato di una marcia sono tutti i giornali con Stefano Folli (Repubblica) che fotografa che il 40 per cento non esiste più e Aldo Cazzullo (Corriere) che conferma che “l’uno contro tutti non funziona”.
Eppure per Renzi il “voto è molto positivo“.
La dispersione eventuale di voti tra la lista del Pd e le altre collegate ai presidenti è la prima avvertenza di un raffronto di questo tipo.
Ci sono altri due fattori che mettono Europee e Regionali su piani diversi.
Il primo: l’affluenza che nel 2014 in quelle regioni fu del 61 per cento e ora è stata del 52; tuttavia anche l’affluenza può essere letto come un “giudizio” dell’elettore.
Il secondo: il contesto politico, perchè un anno fa c’era il richiamo di un appuntamento “nazionale”, per giunta con l’esordio di Renzi fresco presidente del Consiglio e l’onda lunga dell’entusiasmo grillino.
Paita, la più renziana delle sconfitte
Ma per il Pd il punto è anche un altro: il calo non è tutto omogeneo da nord a sud ed è l’altra cosa che Renzi segretario non potrà nascondere nell’ultimo cassetto: in Puglia Michele Emiliano ha perso pochissimo (circa 15mila voti), in Toscana e nelle Marche Enrico Rossi e Luca Ceriscioli hanno stravinto.
Mentre il tracollo è stato in Veneto, con Alessandra Moretti, e in Liguria con la Paita che ha perso metà dei voti (160mila voti) mentre Pastorino a cui tutti danno la colpa non ne ha presi più di 36mila.
Ne viene che i candidati davvero forti potranno anche subire l’influenza della politica nazionale ma resistono (e vincono) anche in caso di “emergenza” e di colpi di scena, come può essere la prestazione del Carroccio.
Non solo: sembrano aver retto all’urto i candidati “non renziani”, mentre l’icona del fiatone del Pd è proprio la Paita, la più renziana nelle dinamiche e nei modi di fare politica, con quegli occhiolini a destra che Rossi o Emiliano non si sono mai sognati di fare.
Renzi rischia di ritrovarsi una pagella insufficiente se a questo si aggiunge la frittata della Campania, dove ha sostenuto un candidato presidente che ora da presidente del Consiglio dovrebbe sospendere. E se non lo sospende si alzerà il grido allo scandalo sul Pd che favorisce il suo candidato. Un bivio quasi cieco, nonostante il leader democratico sia di solito abituato a sorprendere.
Emiliano l’invincibile
L’unico che non perde voti rispetto a un anno fa è Emiliano. Non ne perde il Pd in termini percentuali (33,5 nel 2014 contro 32 tra Pd e liste collegate), non ne perde in termini assoluti (differenza di 16mila voti in meno) e l’effetto è che anche l’affluenza è identica (51 per cento). Per giunta lo stesso ex sindaco di Bari ha vinto disperdendo gli avversari in una Regione gestita finora da Nichi Vendola, circostanza che alla vigilia veniva descritta come un handicap per la corsa del nuovo governatore.
Sostenitore del dialogo con i Cinque Stelle (per convinzione o per strategia, quello è un altro conto), Emiliano si è sempre mosso in modo molto “autonomo” rispetto ai vertici del partito. Con il renzismo c’entra poco. Tanto che Renzi a fare campagna elettorale in Puglia non è mai andato.
Il comunista democratico e l’ex sindaco
E hanno fatto il vuoto anche Rossi in Toscana e Ceriscioli nelle Marche.
Il primo ha saltato le primarie su indicazione della dirigenza del Pd: si definisce comunista democratico, da sindaco di Pontedera vent’anni fa bloccò il trasferimento della Piaggio, si fa le foto con i rom, manifesta davanti alle fabbriche con gli operai contro i gruppi industriali che si trasferiscono all’estero, si incazza e risponde stizzito e a muso brutto a chi lo contesta per strada, ha sempre in bocca l’antifascismo (cosa c’entra con Renzi?).
Il Pd in Toscana ha perso 400mila voti in un anno, un milione contro circa 600mila e rotti, ma l’avversario più vicino è rimasto a 28 punti di distanza, rendendo quasi ininfluenti Cinque Stelle, centrodestra vario (nonostante le urne rigonfie di voti alla Lega) e sinistra alternativa.
Marche, Ceriscioli “l’incandidabile” (per Lotti)
Ceriscioli, invece, ex sindaco di Pesaro, con Renzi ha avuto un lungo duello a distanza perchè il Partito democratico non voleva farlo correre alle primarie per la segreteria regionale: lo statuto prevedeva che chi fa il sindaco non può partecipare.
“Ma come — disse Ceriscioli — Renzi da sindaco di Firenze ha fatto le primarie nazionali e io non posso fare quelle regionali?”.
Renzi evitò di occuparsi del caso, Ceriscioli disse che il silenzio del capo era “agghiacciante” e serviva a favorire le correnti di Fassino e Franceschini.
Il fedele Lotti gli chiuse la porta in faccia: “E’ incandidabile”. Il Pd nelle Marche, a questo giro, doveva fare i conti con la questione del lavoro con il boomerang Whirlpool e gli scandali sui rimborsi.
Per giunta il presidente uscente Gian Mario Spacca con disinvoltura è passato dal centrosinistra al centrodestra (con effetti zero, ma vabbè). Eppure ai democratici sono rimasti 212mila voti (contro i 361mila del 2014, meno 6%).
Umbria, Catiuscia Marini: il renzismo non basta
E’ un dato di fatto che invece abbiano sofferto i candidati ritenuti più vicini al capo del governo, che siano della prima o della ultima ora. In Umbria la presidente uscente Catiuscia Marini, “giovane turca” (area Orfini) ed ex bersaniana, ha vissuto un paio d’ore bruttarelle quando exit poll e proiezioni davano il suo rivale Claudio Ricci in testa, anche se di poco.
Il precedente di Perugia persa dopo 70 anni di sinistra era lì dietro l’angolo, ma alla fine la paura è stata a fatica scacciata.
La Marini ha dato il merito della corsa di Ricci alla Lega Nord, in realtà il Pd ha fatto fuori in un anno quasi la metà del proprio bacino elettorale: 228mila nel 2014 contro 125mila di domenica. Se la percentuale è rimasta identica (intorno al 36 per cento), c’è l’affluenza che è crollata dal 70 al 55 (calo tra i più vistosi) e in questo caso non si può dare la colpa alla tentazione di andare al mare.
Il buco nero del Veneto
Poi c’è la voragine del Veneto: alle Europee aveva fatto notizia il 37,5 per cento del Pd nei territori delle piccole imprese, delle partite Iva, delle villette e della paura di furti e rapine.
Erano quasi 900mila voti, allora, che sono diventati solo 390mila, meno di quelli che prese Bersani nel 2013. Una bella botta di sfiducia che potrebbe trascinare giù anche Casson — un altro che con Renzi può vantare solo un rapporto professionale — nel ballottaggio di Venezia.
L’impresentabile e i 300mila voti in meno
La Campania fa un po’ storia a sè perchè lì — come scriveva alcuni giorni fa il Financial Times — comanda più De Luca che Renzi quindi non si capisce chi è sostenitore di chi.
La cronaca degli ultimi mesi, tuttavia, racconta di Renzi e Guerini che hanno dato il via libera a De Luca decine di volte, a partire dalle primarie.
E che ora il Pd ha perso oltre 300mila voti, nonostante la vittoria finale: da 832mila a 543mila, dal 36% al 24, con l’affluenza stabile al 51 per cento. Un successo che potrebbe diventare solo un pensiero in più per il presidente del Consiglio che ora deve sbrogliare il gomitolo della legge Severino.
Tutti per la Paita, anzi no
Infine la Liguria, la sconfitta più bruciante. L’affluenza è scesa dal 60 al 50 per cento. I voti democratici sono stati falciati da 323mila a 163mila e la sinistra che “se n’è andata col pallone in mano” non c’entra niente.
La Paita è stata sostenuta da tutto il partito, a Genova sono passati Renzi, Delrio, la Boschi, la Madia e la Pinotti e — visto che la situazione era molto complicata — perfino Speranza e Bersani. Ma non è bastato.
E infatti Rossi il berlingueriano ora, certo, dice che “non ha senso stare fuori dal partito con avventure minoritarie e velleitarie”, ma avverte i vertici del partito che dopo i risultati di domenica “di qualcosa si dovrà parlare”. Altro che “va tutto bene”.
Diego Pretini
(da “il Fatto Quotidiano”)
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