I RETROSCENA DELLA CANDIDATURA DI MARCHINI: SE VINCE PER RENZI SONO GUAI SERI
COSA HA PORTATO ALLA SUA NOMINA E PERCHE’ E’ UNA MINACCIA PER L’ASSE MELONI-SALVINI
Non sono stati giorni facili fra Arcore e Palazzo Grazioli.
Gli effetti positivi del capolavoro-Milano (un candidato moderato che unisce il centro-destra e drena consensi nell’elettorato di sinistra) rischiavano di essere rovinati dal pasticcio romano.
Al Cavaliere arrivavano sollecitazioni di ogni tipo.
Quelle nordiste, a ricomporre l’alleanza con Meloni e (soprattutto) Salvini.
Quelle aziendali, e dei forzisti di Roma, a fare esattamente il contrario. E
in mezzo, Bertolaso.
Berlusconi aveva agito in modo lineare in uno scenario che di lineare non aveva nulla. Avrebbe voluto Marchini dal principio, d’accordo in questo con Salvini, e aveva dovuto rinunciare per l’impuntatura di Giorgia Meloni.
L'”Evita Peron” della Garbatella aveva giurato che mai e poi mai il ricco imprenditore con un pedigree di sinistra (nonno e zio molto vicini al PCI) sarebbe stato il suo candidato. Popolo di destra contro quartieri alti di sinistra? O più banalmente voglia di “marcare il territorio”?
Poichè Almirante riempiva in memorabili comizi Piazza del Popolo, la Meloni (e il suo mentore Rampelli) pensano che Roma sia cosa loro.
E quindi Bertolaso, che se ne stava a Londra in tutt’altre faccende affaccendato, venne richiamato d’urgenza a Roma, accettato e applaudito da tutti.
Bertolaso si mise all’opera, e a dire alcune verità . Apriti cielo.
Disse che i rom non si possono semplicemente cancellare dalla faccia della terra, e quindi va bene sgomberare i campi, ma poi da qualche parte bisogna pur metterli (cosa del tutto ovvia), e di colpo per Salvini divenne un traditore.
Convocò ai gazebo il (non numerosissimo) popolo della Lega di Roma chiedendogli che candidato volessero. Bertolaso ovviamente arrivò ultimo.
Primo classificato — indovinate — fu proprio Marchini.
Il colpo di coda di Meloni
In questo caos, Giorgia Meloni annunciò — supremo sacrificio — la propria disponibilità a candidarsi, subito accolta con entusiasmo da Salvini.
Dunque Bertolaso venne lasciato solo con il suo golfino azzurro a ripetere come il bimbo della fiaba che “il re è nudo”, fra lo sconcerto generale.
Berlusconi doveva prendere una decisione, e lo fece, come suo solito, da solo. O meglio, ascoltò un’ultima volta tutti, diede un’ultima occhiata ai sondaggi, poi invitò a cena Umberto Bossi (uno che della Lega e della politica italiana sa molto e capisce tutto) e gli annunciò la sua decisione: Marchini.
Perchè lo ha fatto? La partita di Roma è una partita più complessa di come la raccontano.
La debolezza dell’asse Salvini-Melon
Intanto l’asse Salvini-Meloni esiste solo sulla carta. Salvini, che a Roma è debolissimo e ha scarso interesse concreto ai risultati romani, aveva tutt’altro in mente. Non tanto l’egemonia del centro-destra, che comunque non gli dispiacerebbe, quanto quella della destra-destra.
Costringere la Meloni a contarsi, e – nel caso di un’improbabile vittoria — relegarla nel ruolo prestigioso ma rischiosissimo e comunque paralizzante di sindaco di Roma, oppure — di fronte ad un’assai più probabile sconfitta – ridimensionarne definitivamente le ambizioni da co-leader della coalizione.
Già , perchè la Meloni per Salvini è un concorrente molto più pericoloso di Berlusconi. Insegue lo stesso elettorato della Lega, ora che Salvini ha abbandonato l’indipendentismo padano per posizionarsi nello spazio della destra tradizionale.
Con la differenza che a sud della linea gotica la Lega è ancora guardata con sospetto. Decenni di insulti contro Roma ladrona, di “forza Vesuvio” e di orgoglio padano non si cancellano con qualche passeggiata a sud nè con la faccia paciosa di Raffaele Volpi, simpatico bresciano di lontana origine DC incaricato da Salvini di radicare il verbo leghista fra gli ex-“terroni”.
Il pezzo che manca
Gli è andata male, perchè la Meloni avrebbe dovuto vincere — o perdere — con l’appoggio di tutto il centro-destra. Salvini era convinto che Berlusconi avrebbe finito con l’assecondare il gioco, per salvare l’unità della coalizione.
Il problema è che oggi l’unità della coalizione non basta più, e Berlusconi lo sa benissimo.
Sa anche di non essere affatto in pericolo, con buona pace della narrazione conformista dei principali quotidiani.
Certo, Forza Italia è ben lontana dai bei tempi dei trionfi, ma una cosa è ben chiara: Berlusconi è l’unico fra i leader del centro-destra ad avere delle alternative, a poter scegliere fra geometrie politiche diverse. A Roma lo ha dimostrato.
Il ruolo oggi di Berlusconi
La destra italiana negli ultimi vent’anni è stata una destra di governo, forte del suo rispettabile 15-20%, grazie al fatto che si è alleata con un centro moderato che portava il 30% mancante, cioè i consensi necessari a diventare maggioranza. Senza di questo, sarebbe stata soltanto un grande MSI, forte ma ininfluente.
Quello che è stato il capolavoro di Berlusconi, rendere possibile l’alleanza fra i moderati e la destra democratica, non possono farlo nè Salvini nè la Meloni. Può farlo ancora una volta solo Berlusconi. Lo ha fatto con Parisi a Milano, sta provando a farlo con Marchini a Roma.
Se ci riuscirà , avrà vinto di nuovo. Nel 1994 Achille Ochetto, nel 2016 Matteo Renzi, pensavano di aver già vinto per mancanza di avversari.
Allora fu l’alleanza a geometria variabile con Bossi e Fini, oggi dal cilindro del mago di Arcore è uscito un coniglietto con il sorriso furbo di Stefano Parisi e l’abbronzatura di Alfio Marchini.
Al povero Renzi, già in difficoltà per conto suo, fra sondaggi che non decollano, ministri con parenti imbarazzanti, ripresa che non si vede, questo guaio non ci voleva proprio.
(da “Panorama“)
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