IL CENTRO PRECIPITA NEL PROPRIO VUOTO, MA IL SILENZIO DEL LUTTO NON PUO’ ESSERE L’UNICA RISPOSTA
GLI SCONFITTI NON POSSONO DIVENTARE AFONI, SVANIRE NEL NULLA E CONDANNARSI AL’IRRILEVANZA… IN POLITICA SI PUO’ PERDERE, MA NON SPARIRE DOPO AVER PERDUTO
Dopo la sconfitta elettorale, il centro moderato, quello che voleva e doveva diventare il terzo polo riequilibratore della politica italiana, è scomparso. Silente. Stordito. Incapace di indicare un sia pur minimo segnale di riscossa a beneficio almeno di quel 10 per cento di italiani che lo aveva scelto.
L’ago della bilancia si è spezzato.
Il terzo polo è emerso fragorosamente, ma sventola come icona quella di Beppe Grillo: altro che riequilibrio.
I postumi di una sconfitta sono dolorosi.
Ma il senso di lutto, se si è responsabili verso quella parte anche se minoritaria di elettorato che ha optato per i perdenti, non può essere l’unica risposta.
Se le idee «riformiste» erano buone, è giusto non dismetterle anche nel caos post-elettorale che rischia di precipitare l’Italia nell’ingovernabilità .
Si cerca una via d’uscita al marasma scaturito dalle urne.
L’attenzione pubblica è concentrata sull’oggetto misterioso che il movimento di Grillo ha portato in Parlamento.
Ma il Pd e il Pdl sembrano inghiottiti dagli identici schemi del passato.
Il bipolarismo che l’area capeggiata da Mario Monti bollava come primitivo e in balia delle rispettive spinte estremiste o massimaliste, è stato travolto da un pareggio che non prevede soluzioni di governo che non passino attraverso il bagno in una qualche trasversalità .
Le forze che si sono combattute in campagna elettorale devono trovare una qualche intesa se non si vuole il ritorno il più celere possibile alle urne.
Manca però la voce di quel «centro» che fino a pochi giorni fa sembrava il pilastro essenziale della governabilità futura.
Il Fli di Fini è stato annichilito, l’Udc di Casini è ridotto al minimo, la «Scelta civica» di Monti vive un risultato deludente, asfittico, di gran lunga inferiore anche alle meno rosee previsioni.
Ma gli sconfitti non possono diventare improvvisamente afoni.
Se ritenevano la loro «agenda» essenziale per salvare l’Italia dal baratro della crisi, a maggior ragione oggi, anche se i numeri parlamentari non consentono di svolgere un ruolo determinante, quella certezza non può essere abbandonata, annientata dal dibattito politico.
Le forze che si sono coalizzate per un progetto evidentemente non gradito all’elettorato devono seriamente ragionare sui motivi di una sconfitta tanto cocente, ma non possono consentirsi di svanire nel nulla, di condannarsi all’irrilevanza, di mettere il silenziatore su tutte le proposte sostenute con tanta veemenza in campagna elettorale.
Se la linea di Pietro Ichino sul mercato del lavoro era considerata indispensabile alla vigilia delle elezioni, non può essere sradicata dall’ordine delle cose possibili dopo una disfatta elettorale.
Se una parte della «società civile» ha ritenuto utile e urgente «salire» in politica, non è possibile che la salita venga seguita da una repentina e amara ridiscesa, a seguito di un verdetto elettorale molto negativo.
Se continuerà la linea depressiva del silenzio e dello sbigottimento post-traumatico, si regaleranno argomenti a chi considerava la coalizione centrista un mero espediente elettorale.
In politica si può perdere, ma non si può sparire dopo aver perduto.
Non ci si scioglie, non si lascia senza guida un 10 per cento di elettori, senza una prospettiva, senza l’idea di qualcosa per cui valga la pena combattere anche se le cose vanno in senso contrario.
Qualcosa che vada oltre gli incontri istituzionali di routine.
E che abbia l’ambizione di restare nel tempo.
Pierluigi Battista
(da “il Corriere della Sera”)
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