IL LAVORO POVERO E’ PER LEGGE: MELONI UCCIDE IL REDDITO DI CITTADINANZA PER IMPORRE CONTO TEERZI STIPENDI DA FAME
LA NARRAZIONE SOVRANISTA SMENTITA DAI FATTI
È arrivato il giorno in cui il governo Meloni consumerà la promessa di vendetta contro il Reddito di cittadinanza: oggi il Consiglio dei ministri approverà il decreto che cancella, dopo soli quattro anni, lo strumento anti-povertà voluto nel 2018 dal Movimento Cinque Stelle e lo sostituisce con l’Assegno per l’inclusione, misura molto meno generosa che taglia la platea e la durata dell’aiuto. Dopo essere stato l’ultimo Paese europeo, in ordine cronologico, a introdurre un sussidio per gli indigenti, l’Italia sarà anche il primo a ridimensionarlo sensibilmente.
La mossa cade in una ricorrenza non casuale: il Primo Maggio, festa dei lavoratori, a voler simbolicamente dire che questo esecutivo è a favore del lavoro e contro l’assistenzialismo, come se le due cose fossero alternative e non – come sostengono tutti gli esperti – complementari. Così si porta a compimento un’operazione “culturale” nata diversi anni fa e basata su una narrazione – pur smentita finora dalle evidenze che citeremo – per cui ricevere un aiuto sociale dallo Stato spingerebbe le persone a non darsi da fare, rimanere sul divano e accoccolarsi sul denaro garantito.
Un racconto che poggia sulle testimonianze di alcune imprese, specialmente quelle turistiche e agricole, amplificate soprattutto dopo la pandemia dai media compiacenti, ma che si scontra con una carrellata di dati che in questi anni ha dimostrato l’esatto contrario. Cioè che i beneficiari del Reddito di cittadinanza il lavoro lo cercano eccome, spesso lo trovano, accettano anche impieghi precari, part time e mal pagati. Ed è proprio l’aver operato con basse retribuzioni che li ha spinti nel disagio economico e nelle condizioni di dover prendere il Reddito. Non sono poveri perché non hanno voglia di lavorare, ma per il fatto stesso di aver lavorato in quelle condizioni. Questo non esclude l’esistenza di singoli comportamenti opportunistici, ma trarne un trend generalizzato appare inverosimile. Se è vero infatti che oggi per le aziende è diventato più difficile (non impossibile) trovare manodopera, questo dipende da fattori ben diversi. La leggenda dei lavoratori irreperibili a causa del Rdc è stata comunemente accettata da parte dell’opinione pubblica perché i dati che la smentiscono sono stati pubblicati molto raramente e quelle volte non hanno ottenuto l’eco che meritavano. Del resto, leggere e comprendere una tabella è più complesso di ascoltare il ristoratore di Jesolo che non trova cuochi e camerieri.
Ad alimentare il mito degli addetti introvabili è un’interpretazione superficiale dei bollettini Anpal-Unioncamere, indagini che coinvolgono le aziende stesse e dalle quali emerge una difficoltà di reperimento del 45%. Tuttavia, solo un quarto delle assunzioni previste è al Sud, nei territori con più beneficiari del Rdc. L’unico vero report dettagliato sugli esiti occupazionali del Reddito è stato diffuso un anno e mezzo fa: emerse un numero molto chiaro, cioè che in tre anni – tra il 2019 e il 2021 – ben 725 mila percettori del sussidio avevano lavorato. Si trattava di circa il 40% degli 1,8 milioni inviati ai centri per l’impiego. Va ricordato che la platea è formata per tre quarti da persone con massimo la terza media e questi risultati sono stati raggiunti in piena crisi Covid, quindi le cifre sono rilevanti. In oltre il 63% dei casi, i contratti firmati sono stati precari, un terzo inferiori a un mese. Rapporti che non avevano quindi la capacità di tirare fuori queste persone dalla povertà. L’ultima rilevazione, di dicembre 2022, parla di 157 mila occupati su 882 mila beneficiari tenuti al patto per il lavoro. Poco meno del 60% con contratti a tempo indeterminato o in apprendistato, tutti gli altri con varie forme di lavoro a termine.
Insomma, c’è un elemento da tenere a mente: centinaia di migliaia di persone lavorano eppure mantengono i requisiti di reddito, Isee e patrimonio per continuare a prendere il Reddito di cittadinanza. Quindi non basta il lavoro per uscire dalla condizione di indigenza. La struttura della nostra economia, specialmente al Sud, è troppo debole per poter garantire impieghi solidi. Prendiamo il turismo, le cui imprese sono le più inclini a dolersi del Rdc: in Italia è molto stagionale, quindi concentra la gran parte delle assunzioni nei mesi primaverili ed estivi. Chi ci lavora, quindi, può contare su guadagni per una ristretta parte dell’anno. Si tratta di un settore a basso valore aggiunto, anche per questo con salari orari bassi. Si aggiungano i turni improponibili e l’alto tasso di irregolarità testimoniato, da ultimo, da un’operazione dell’Ispettorato nazionale del lavoro che ha riscontrato violazioni nel 76% delle 445 aziende ispezionate. L’operazione culturale svolta dalla destra – e da pezzi della sinistra e dei centristi – è quella di descrivere il lavoro nero come una furbizia per cui incolpare il lavoratore e non come un reato compiuto in prima battuta dagli imprenditori, che così risparmiano su retribuzioni, assicurazioni e contributi.
Il lavoro povero in Italia è una realtà evidente nelle storie e nei numeri. Lo ha quantificato un gruppo di esperti nominati lo scorso anno dall’ex ministro del Lavoro Andrea Orlando. Se consideriamo le paghe lorde, il rischio di basse retribuzioni coinvolge quasi un lavoratore su quattro. La percentuale scende al 21% solo considerando la redistribuzione operata dal Fisco. Insomma, il mercato del lavoro ha comunque bisogno di interventi compensativi dello Stato, e anche quando questi arrivano i bassi salari continuano a interessare una quota molto alta di popolazione. Con l’inflazione dell’ultimo anno e la lentezza dei rinnovi dei contratti nazionali, in assenza di un salario minimo di legge, i lavoratori hanno ulteriormente perso potere d’acquisto. Tutto ciò ricorda oggi, in occasione del Primo Maggio, che in Italia il lavoro è un diritto spesso negato e, quando c’è, troppe volte non libera dalla morsa della povertà e dell’umiliazione. Solo nei primi tre mesi del 2023, è costato la vita a 196 persone. L’ordigno sociale è pronto già da tempo in questo Paese, il governo Meloni oggi ha deciso di accendere la miccia.
(da il Fatto Quotidiano)
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