FARE LA FESTA AL LAVORO, IL PRIMO MAGGIO ALL’INCONTRARIO DEL GOVERNO SOVRANISTA
PRECARI E PAGATI DI MENO
Questo 1° Maggio all’incontrario, col governo che si riunisce per trasformarlo nella festa del lavoro purchessia, e pazienza se ciò comporterà pagarlo meno e renderlo ancor più precario, rientra nell’offensiva di destra che va sotto il nome di “controegemonia culturale”.
Non a caso Giorgia Meloni rispolvera il vecchio epiteto dispregiativo triplice all’indirizzo dei sindacati: col decreto che abolisce il reddito di cittadinanza, alza il tetto dei voucher e facilita i contratti a termine, vuole occupare il centro della scena di fronte ai cortei dei lavoratori e al Concertone di piazza San Giovanni. Suonerà la grancassa della riduzione del cuneo fiscale – una manciata di euro in più nella busta paga degli occupati, sottratti ai disoccupati in età lavorativa – scommettendo sul definitivo venir meno della solidarietà di classe fra i soggetti deboli della nostra società.
La sfida aperta di Giorgia Meloni alla Cgil di Landini è un azzardo. Trae ispirazione dal recente convegno degli intellettuali di destra che, richiamandosi con invidiosa ammirazione al pensiero di Gramsci, la incoraggiavano per l’appunto a cimentarsi nel tentativo ambizioso di una “controegemonia culturale”. Ma qui mica si tratta solo di contestare la presenza di Mattarella e Benigni al Festival di Sanremo. Qui si tratta di far digerire agli italiani lo smantellamento definitivo di un sistema di garanzie del lavoro salariato. Già anticipato dal codice degli appalti e dalla promessa di sgravi fiscali “per tutti”, ricchi e poveri.
Per questo ci troviamo a vivere un surreale 1° Maggio all’incontrario. Anziché la festa del lavoro, qui si vuole fare la festa al lavoro. I giornali della famiglia Angelucci (e non solo loro, purtroppo) rispolverano la guerra ai “fannulloni”. Loro si sono arricchiti con la sanità privata e non gli dispiacerà certo continuare a spillare soldi ai lavoratori per fare gli esami e le cure mediche impossibili da ottenere gratis visti i mancati investimenti nel welfare.
Stavolta, però, la provocazione del governo rischia di tradursi in un autogol perché svela il profilo demagogico della “destra sociale”. Nel paese che detiene il record negativo dei bassi salari e dello sfruttamento dei giovani precari, il decreto del 1° Maggio non farà che legittimare questo andazzo, a vantaggio di una classe imprenditoriale cui si concede briglia sciolta. Il cattivo esempio, del resto, viene dal pubblico impiego: il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, annuncia in pompa magna uno stanziamento per i tutor, gli insegnanti che dovrebbero seguire i ragazzi in difficoltà nel pomeriggio. Ma poi si scopre che verranno pagati 7,34 euro lordi l’ora.
Suona beffardo che il Mef motivi la riduzione del cuneo fiscale (solo 16 euro al mese!) quale “contributo alla moderazione della crescita salariale”. Dove la vedono questa crescita salariale? Qualunque sia il colore politico del governo, è mai possibile che fra le sue priorità non rientri un’azione di contrasto alla vergognosa diffusione del lavoro povero? Certo, essa implicherebbe un maggior carico fiscale sui grandi patrimoni, sugli alti redditi, sugli extra-profitti. Ma qui casca l’asino. L’ideologia della destra italiana non mette al centro il lavoro bensì l’impresa produttrice di ricchezza, che lo Stato dovrebbe proteggere in nome del “lasciar fare”. Il predicozzo rivolto da Meloni a Landini sul diritto di lavorare il 1° Maggio contiene un messaggio ben preciso: trasformare la Festa dei lavoratori nella Festa dei padroni.
(da il Fatto Quotidiano)
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