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LA STRAGE SOVRANISTA DI UTOYA, DIECI ANNI DOPO

BREIVIK E’ UNO ZOMBIE, MA LA SUA EREDITA’ SOPRAVVIVE

Dieci anni fa, a quest’ora, la vita della stragrande maggioranza dei norvegesi procedeva placida, come al solito.
Nessuno poteva immaginare che da lì a poche ore il tranquillo Paese scandinavo sarebbe diventato l’epicentro di uno degli atti terroristici più feroci nell’Europa del dopoguerra.
Anders Behring Breivik, all’epoca 32 anni, si preparava a mettere a segno il suo duplice attacco: prima un’autobomba nel centro di Oslo, fatta esplodere davanti all’ufficio del primo ministro norvegese, otto i morti; poi la carneficina dell’isola di Utøya, dove era in corso un campo estivo dei giovani socialisti.
Qui i morti furono 69, per lo più ragazzi e ragazze tra i 16 e i 17 anni. Le nuove leve di quella sinistra multiculturalista che Breivik aveva scelto come bersaglio per sfogare un odio antico, radicato nelle pieghe di una storia che continua a interrogarci ancora oggi. Trucidati con un fucile a pompa, una mitragliatrice e una pistola automatica.
Abbiamo chiesto ad Aage Borchgrevink, giornalista, scrittore e autore di “A Norwegian Tragedy: Anders Behring Breivik and the Massacre at Utøya”, di guidarci attraverso questa ferita aperta, come dimostrano le controversie che hanno impedito le realizzazione del memoriale.
La commemorazione avrebbe dovuto svolgersi dalle 15.25 di oggi, momento in cui il sole avrebbe illuminato la prima di 77 colonne di bronzo davanti all’isola, fuori dalla capitale. Per tre ore e otto minuti, l’esatta durata dell’attacco, il sole avrebbe raggiunto ciascuna delle colonne progettate dagli architetti dello studio Manthey Kula, commemorando ogni persona uccisa. Invece, il memoriale resta incompiuto a causa di piani modificati, rinvii, interventi dei tribunali, scontro fra le famiglie dei ragazzi uccisi e i residenti ancora traumatizzati, che temono l’arrivo dei visitatori sulla loro tranquilla isola.
“Nella società norvegese c’è meno consenso di quanto ci si potrebbe aspettare sul significato di quegli attacchi”, ci spiega Borchgrevink. “Studiosi del Centro di ricerca sull’estremismo dell’Università di Oslo hanno distinto tra tre principali narrative o modi di leggere gli attacchi: 1) come un attentato alla democrazia norvegese in quanto tale; 2) come un attacco alla sinistra politica, con relative critiche alla Norvegia per non essere riuscita a contrastare l’estremismo di destra pur di mantenere la pace politica; 3) come un atto per niente politico, ma il gesto di un pazzo spinto all’estremo da politiche di immigrazione lassiste. Tra queste narrazioni sembra esserci una tensione crescente, soprattutto perché quelle ai fianchi (la 2 e la 3) portano una forte carica emotiva. La tensione riflette in una certa misura i profondi disaccordi che continuano ad attraversare la nostra società, dove una minoranza non trascurabile è ancora d’accordo con le idee xenofobe che hanno ispirato Breivik, mentre una generazione più giovane di progressisti vuole un approccio più duro all’estremismo”.
Borchgrevink da anni è membro del Norwegian Helsinki Committee, un’organizzazione che lavora per il rispetto dei diritti umani
La sua attenzione alle dinamiche psicologiche e sociali lo ha spinto a porsi delle domande su come un ragazzo della classe media del West End di Oslo sia potuto diventare un terrorista seminatore di morte nel sentiero dell’amore di Utøya.
“Il 22 luglio 2011, mentre la mia città bruciava e arrivava la notizia del massacro di Utøya, mi sono chiesto da dove venisse tutto quell’odio. Nel mio libro ripercorro la radicalizzazione di Breivik, utilizzando come chiave di lettura il suo ‘manifesto’ di 1500 pagine. Sulla base di interviste con testimoni chiave e ricerche su vari documenti, compresi i rapporti di valutazione psichiatrica della famiglia di Breivik quando era un bambino, ho scoperto che il suo odio aveva radici profonde. L’intuizione principale che ho acquisito è stata come la ricca Norvegia produca ancora outsider, vulnerabili alla radicalizzazione. Quindi non sono rimasto sorpreso quando, due anni fa, il terrorista razzista Filip Manshaus ha attaccato una moschea dopo aver sparato e ucciso la sua sorellastra, adottata dalla Cina. Fortunatamente Manshaus è stato sopraffatto prima che potesse uccidere qualcun altro”.
Quella di Breivik, infatti, è anche la storia di un “outsider radicale”, un uomo affetto da un “elevato disturbo narcisistico della personalità” ma “capace di intendere e di volere”, come stabilito dalla seconda perizia psichiatrica. Una persona disposta a fare di tutto pur di essere vista da chiunque: dal padre che se n’era andato quando era ancora piccolo, dalla madre che pure detestava (affetta da turbe mentali), dalle ragazze con cui aveva un rapporto complessato.
Il 24 agosto 2012 è stato condannato a ventuno anni di carcere, pena massima prevista dalla legge norvegese. Secondo la stampa locale, ha intenzione di chiedere la libertà condizionata allo scoccare del periodo minimo di detenzione, che nel suo caso è di dieci anni. La pena a 21 anni è prorogabile, nel caso in cui sarà ritenuto ancora pericoloso. Lui non si è mai pentito per la strage. Nel 2012, al termine della lettura delle motivazioni del verdetto, mostrò alla Corte il saluto nazista chiedendo “perdono ai militanti nazionalisti per non aver ucciso più persone”.
Abbiamo chiesto a Borchgrevink cosa si sa, oggi, di lui. “Mi ha scritto alcune lettere dopo la pubblicazione del libro. Principalmente sta cercando di sollevare l’interesse delle persone verso le sue visioni ideologiche, poiché vuole essere percepito come un interessante pensatore e leader di destra. Nell’ultima lettera è stato più personale, dicendo che è stato “sepolto vivo”, il che mi ha ricordato il suo autoritratto nel ‘manifesto’ come uno “zombie”, un morto vivente e senza identità. Ha anche detto che i miei libri avevano creato “problemi”, un passaggio che ho interpretato come una rimostranza per aver danneggiato, tramite un profilo psicologico, l’immagine che vuole dare di sé come una sorta di cavaliere oscuro, fascista e glaciale. Non gli ho mai risposto”.
Breivik è diventato una figura di ispirazione per i suprematisti bianchi di tutto il mondo. Tre settimane fa a Milano è stata smantellata un’organizzazione neofascista di ventenni, il cui nome in codice era Breivik. Secondo Borchgrevink, non dobbiamo sottovalutare il fascino perverso che il male e l’odio possono esercitare su personalità fragili e alienate.
“Molti giovani vorrebbero mandare al diavolo la società. So di averlo fatto anch’io. Per alcuni, però, l’incontro con l’estremismo online o in gruppi può svilupparsi in un percorso di radicalizzazione, arrivando persino a trasformarli in terroristi qui in Europa o in posti come la Siria, come è successo con molti giovani europei alcuni anni fa. I più vulnerabili sono i cosiddetti outsider, coloro che per motivi sociali, psicologici o di altro tipo sono o si sentono esclusi dalla società”.
La radicalizzazione, soprattutto online, continua a essere un nervo scoperto in molti Paesi occidentali, Norvegia inclusa. “Le reti digitali dell’estremismo di destra rappresentano una minaccia alla sicurezza per il futuro”: lo afferma il Servizio di sicurezza della polizia (Pst) della Norvegia, in un nuovo rapporto sulla minaccia degli estremisti di destra pubblicato in occasione del decennale della strage. “Il pensiero estremista di destra che ha ispirato l’attacco è ancora una forza trainante a livello nazionale e internazionale e ha ispirato diversi attentati terroristici negli ultimi dieci anni”, afferma il rapporto. Gli estremisti di destra di oggi, prosegue il documento, usano strategie diverse per ottenere un cambiamento politico. L’estremismo è diventato sempre più un fenomeno transnazionale che trae ispirazione oltre i confini del Paese, legandosi a una “identità occidentale”. “Si ritiene che le direzioni ideologiche dell’estremismo di destra che sostengono la necessità di un collasso immediato della società abbiano un effetto di radicalizzazione e mobilitazione, e quindi costituiscano una potente minaccia terroristica”, segnala il Pst nel rapporto.
Secondo Borchgrevink, “l’eredità di Breivik, purtroppo, sopravvive. Il ‘manifesto’ descrive come voleva trasformarsi da zombie consumatore a cavaliere di giustizia, come un don Chisciotte dell’era digitale. In Nuova Zelanda nel 2019 Brenton Tarrant ha fatto riferimento a Breivik e ha usato lo stesso schema per commettere omicidi di massa: manifesto xenofobo di destra in cui descrive il ‘momento della pillola rossa’, quando avviene la trasformazione da turista consumatore a soldato per la razza bianca”.
In Norvegia la differenza, rispetto al passato, è che i sopravvissuti si stanno facendo sentire con più forza, dopo anni di relativo silenzio. “C’è stata una raffica di nuovi libri e articoli. Il messaggio di fondo è che la Norvegia e il governo conservatore degli ultimi otto anni non sono riusciti ad affrontare la minaccia dell’ideologia di estrema destra e a tenere conto del dolore di chi è stato direttamente colpito da quella tragedia. A settembre si svolgeranno le elezioni parlamentari: ci si aspetta un cambio di governo che riporti al potere il partito socialdemocratico, un risultato che sarebbe una grande eredità per i sopravvissuti e le forze di sinistra”.
Ma la strada per evitare altri “casi Breivik” – avverte Borchgrevink – richiede un maggiore impegno da parte di tutti. “Quando si verificano atti di terrorismo, è consuetudine chiedere più polizia e punizioni dure. Ma penso che la Norvegia e l’Europa abbiano ancora molto da fare per affrontare le cause profonde che guidano la radicalizzazione, la disuguaglianza sociale, il trauma psicologico dei bambini in famiglie disfunzionali e la crescita della cultura della cospirazione alimentata dai social media”.
(da Huffingtonpost)

This entry was posted on giovedì, Luglio 22nd, 2021 at 16:40 and is filed under Politica. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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