LA STRATEGIA DI TRIA E CONTE PER EVITARE PROCEDURA INFRAZIONE: RINUNCIA AI RISPARMI SUL REDDITO DI CITTADINANZA E SU QUOTA 100
ENNESIMA CAPRIOLA DEL GOVERNO: PER ABBASSARE IL DEFICIT AL 2,1% ANCHE TAGLI AL WELFARE (COME DICEVA LA BOZZA DI TRIA FATTA POI PASSARE PER FARLOCCA)
Scrive Giovanni Tria, diffonde Giuseppe Conte. Sono le 16.39 quando da palazzo Chigi il premier fa partire una lunghissima nota piena di numeri, puntellati da termini, sigle e acronimi da economisti puri.
All’affondo di Bruxelles, che ha aperto la strada alla procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per debito eccessivo, il governo decide di rispondere con i numeri. Non c’è spazio per considerazioni politiche apocalittiche.
Matteo Salvini e Luigi Di Maio, riferisce una fonte di primo livello dell’esecutivo, hanno detto sì alla linea della responsabilità che unisce Conte, Tria e il Quirinale. Questi numeri dicono due cose.
La prima: per evitare la manovra correttiva estiva da 3-4 miliardi bisogna fare una capriola e sconfessare, ancora una volta, la già ondivaga strategia sui conti pubblici messa in campo dal governo nel suo primo anno di vita.
La seconda: va pagato un pegno. E questo pegno va a colpire le misure bandiera del Contratto di governo, cioè il reddito di cittadinanza e la quota 100.
Messa giù in forma diversa, ma in sostanza no ed è questa la cosa che conta, quel “taglio al welfare” che aveva fatto sollevare i 5 stelle contro Tria e la prima versione della lettera (poi modificata) da inviare a Bruxelles, c’è.
La prova del nove del fatto che Di Maio e Salvini hanno detto sì alla linea di Conte e Tria è qui. Palazzo Chigi e il Tesoro hanno lavorato gomito a gomito per mettere a punto una nota che è la base di partenza della lunga e delicata trattativa che Conte e Tria porteranno avanti a Bruxelles.
I tempi sono strettissimi: nel giro di un mese, tra una riunione degli sherpa economici e una dell’Ecofin, si deciderà se la procedura d’infrazione partirà .
Una volta partita, i giochi sono fatti. Ecco che bisogna giocare coi tempi giusti e nasce così il comunicato stampa.
Capriola e pegno si diceva.
La capriola, che letta in chiave governativa è un impegno, è quello di portare il deficit dal 2,4%, come scritto nel Def meno di due mesi fa, al 2,1 per cento. Memo: il 27 settembre scorso Di Maio si affacciò dal balcone di palazzo Chigi e annunciò che il deficit era stato portato al 2,4%. Sfondamento in direzione Bruxelles. Manovra di dicembre: per evitare la procedura d’infrazione il deficit fu collocato al 2,04% dopo una lunga ed estenuante trattativa con la Commissione europea. Frenata. Def dello scorso aprile: di nuovo acceleratore e quindi deficit al 2,4 per cento. Oggi inversione: deficit al 2,1 per cento.
I numeri dicono, più di ogni altra considerazione, quanto la strategia del governo sia risultata indecisa. Debole.
E poi c’è la parte del pegno. Per portare il deficit dal 2,4% al 2,1% bisogna principalmente rinunciare ai risparmi previsti dal reddito e dalla quota 100: andranno ad alleviare i conti in malora, non saranno spendibili per il decreto famiglia, caro ai 5 stelle, o per altre misure di governo. Andranno a Bruxelles di fatto.
Qualcosa come circa 1,3 miliardi. Altra sfaccettatura che mette in crisi il già fragile disegno economico del governo. Si dice che si vuole spingere la crescita, ma di soldi ce ne sono sempre meno. Come finanziare i sogni di gloria che corrispondo, ad esempio, al nome di flat tax?
E così, nei primi due passaggi che daranno via alla trattativa economico-politica con Bruxelles, cioè la riunione degli sherpa e poi quella dell’Ecofin, il direttore generale del tesoro Alessandro Rivera e Tria porteranno avanti questa linea.
L’impegno è quello di arrivare a fine 2019 con un deposito di 3,5 miliardi tale da impattare positivamente sul deficit per lo 0,2 del Pil. E questo impegno viene anche preso per il 2020, proprio dove si sono concentrate alcune delle critiche più feroci di Bruxelles in merito alla strategia portata avanti da Lega e 5 stelle.
Anche per il prossimo anno è previsto quindi di mettere da parte 3,5 miliardi. Il pegno del 2019 sale così a 5,5 miliardi: 2 miliardi, infatti, erano stati già congelati e non saranno rimessi in campo.
Significa, quindi, che questi soldi non andranno all’uso per cui erano stati pensati e cioè incentivi alle imprese, sostegno alle Forze armate, sviluppo della mobilità locale, diritto allo studio. Non vanno. Quindi tagli.
Ma è nel nuovo pegno, quello appunto dei 3,5 miliardi che si promette di raccogliere entro la fine dell’anno, che puntano Tria e Conte.
Il punto di partenza, come si diceva, è portare il deficit dal 2,4% (per la Commissione è al 2,5%) al 2,1 per cento. Come? Parte l’elenco.
Oltre al miliardo sottratto a reddito e quota 100 per arrivare all’importo indicato nella nota e “assicurare la conformità al Patto di stabilità e crescita”, ci sono maggiori entrate tributarie e contributive, più entrate non tributarie, cioè utili e dividendi. Aggiungendo previsioni economiche più rosee e considerando anche le stime di output gap della Commissione, ecco che il deficit, arrivato nel frattempo al 2,2%, riesce a scendere al 2,1 per cento.
Di conseguenza migliora anche il saldo strutturale, quello a cui Bruxelles guarda con più attenzione quando deve giudicare sullo stato di salute dei conti pubblici dei Paesi membri dell’Unione europea. Questo dicono i numeri.
Questo dice il tentativo del governo di evitare di imboccare un percorso severo, fatto di una multa ma soprattutto del taglio ai fondi strutturali e di pegni da pagare per parecchi anni.
Ci si prova così.
(da “Huffingtonpost”)
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