LA TRAPPOLA: IL PD SI E’ ACCORTO CHE DI MAIO VUOL FARE CADERE IL GOVERNO
IL GOVERNO E’ BLOCCATO PERCHE’ IL CAPO POLITICO DEL M5S PENSA SOLO A FARE IL GUASTATORE… L’ERRORE DI FONDO: NON AVERLO CACCIATO A PEDATE DOPO AVER FATTO DIMEZZARE I VOTI ALLE EUROPEE… SE FAI UN ACCORDO CON IL PD NON PUOI FARLO GUIDARE DALLA STESSA PERSONA CHE HA GARANTITO L’IMMUNITA’ A UN SEQUESTRATORE DI PERSONE
Ormai si può parlare di “trappola”. È così che viene percepito il governo nel lungo autunno dello scontento democratico. Trappola, perchè è la classica situazione in cui avanti non si riesce ad andare e indietro non puoi tornare.
Questo è il quadro che emerge, senza tante reticenze, da una serie di colloqui con alti dirigenti del Nazareno e qualche ministro del Pd: “Come si fa ad andare avanti in queste condizioni?” è la domanda che, al momento, resta senza risposta.
E questo dà l’idea della crisi politica in atto: “Il governo non sembra nelle condizioni di governare”.
È lungo l’elenco dello scontento. Qualche elemento: sulla manovra ha presentato più emendamenti la maggioranza (4500) che l’opposizione, caso unico nella storia di una coalizione che vuole cambiare una manovra appena varata e frutto di una complicata mediazione tra le istanze dei partiti; mai si era visto che, dopo tre mesi di governo, parecchie deleghe ministeriali, come quella alla Comunicazione per citarne un caso, non sono state ancora assegnate.
E poi l’Ilva, la prescrizione, l’Emilia Romagna, la distanza che si è manifestata al tavolo convocato da Conte questa mattina tra Gualtieri e Di Maio al vertice sulla riforma del fondo salva-Stati.
Tutti dossier dove la divisione politica è accompagnata da un crescente clima di sfiducia tra i partner di governo.
La fotografia è questa, accompagnata da un corollario non banale, che forse è la vera notizia. L’assenza di un “piano B”.
Solo qualche settimana fa anche il segretario del Pd coltivava l’idea che, in fondo, se il quadro fosse precipitato — per colpa di Renzi, per un incidente, per qualunque ragione — si sarebbe potuto andare “al voto con Conte”.
L’ipotesi adesso non sembra essere più in campo. Per tutta una serie di ragioni. La prima è che c’è pur sempre un paese, con le sue emergenze, la sua agenda di priorità : è immaginabile andare al voto, anche dopo l’approvazione della manovra, con due bombe sociali come Ilva e Alitalia che rischiano di esplodere?
È immaginabile che il capo dello Stato possa concedere a cuor leggero le urne, oppure è più sensato interpretare lo spiffero quirinalizio – “l’alternativa a questo governo è il voto” — come un modo per dare una mano a tenere su il fragile edificio del Conte due? La sensazione è questa.
Così come sensazione diffusa è che Salvini, proprio perchè consapevole della delicatezza del momento, dell’enormità dei problemi sul tavolo del governo e dell’impatto economico e sociale, non abbia tutta questa fretta di andare a palazzo Chigi.
Dice una fonte qualificata: “La spina la staccherà lui, ma sceglierà il momento propizio. In fondo gli basta portare con sè una quindicina di senatori dei Cinque Stelle che, se vuole, si prende in un minuto per poi aprire la crisi il minuto dopo”.
Dicevamo, il piano B, che non c’è. La seconda ragione è che è naufragato nella foto di Narni, invecchiata d’un colpo nella notte elettorale umbra. E naufragato soprattutto nella crisi che attanaglia in Cinque stelle.
Anche colui che più di tutti ha scommesso sull’operazione governo è apparso sfiduciato: “Sono stanco”, sono queste le parole che Dario Franceschini ha consegnato a più di un interlocutore. “Stanco” non significa “arreso”. Significa che percepisce che si è arrivati a un punto in cui è complicato riacchiappare il bandolo della matassa.
Non c’è solo un problema di “anima”, parola molto usata. C’è un problema di “guida”, di determinazione, di tenuta.
Il voto di Rousseau segna un salto di qualità . La vulgata, alimentata dalle dichiarazioni ufficiali, vuole che sia stato un vaffa della base contro i vertici, subito da Di Maio che avrebbe voluto non presentare la lista, secondo una logica di “desistenza”.
Il sospetto vero, dell’intero gruppo dirigente del Pd, è che Di Maio non lo abbia subito affatto, anzi ha usato il voto su Rousseau per smontare la svolta di Grillo: “Lì dentro — dicono le stesse fonti — Grillo e Conte vogliono stabilizzare l’alleanza con noi, Di Maio vuole farla saltare. È un caso che, a freddo e all’unisono con Salvini, ha aperto un fronte sul salva-stati, proprio nei giorni in cui si è pronunciata la piattaforma? È un caso che il voto su Rousseau sia stato organizzato in fretta e furia, senza la preparazione che fu dedicata ad esempio a quello sulla Diciotti, preparato e in qualche modo indirizzato dal dibattito pubblico quando gli stava a cuore salvaguardare il governo?”.
Ecco, è l’idea di un blitz l’analisi vera di quel che è successo. Confermata dalle reazioni del giorno dopo, col fondatore del Movimento che arriva a Roma e il leader che neanche si fa trovare.
Insomma, la crisi dei Cinque stelle sta facendo implodere il governo. Torniamo al punto: che fare, in una situazione in cui il destino non sembra essere nelle proprie mani?
Che fare, in una situazione in cui i partner internazionali comunque spingono affinchè si vada avanti con questo governo, perchè l’alternativa rappresenta la messa in discussione della tradizionale collocazione geopolitica del paese?
E chissà che anche il viaggio americano del Pd non abbia contribuito ad archiviare quell’ipotesi di ritorno al voto che qualche settimana fa era assai presente nei ragionamenti dello stato maggiore del Pd.
Che fare, oltre al portare la croce? Se, per un qualunque motivo, ci dovesse essere un incidente, la linea è di mettere su una coalizione pret a porter “da Calenda a Conte”: una gamba di centro e una con “quelli che ragionano dei Cinque Stelle” che, al dunque, saranno costretti a scegliere.
Senza Renzi, le cui basse percentuali elettorali consentono di sostituirlo col richiamo al voto utile. Nel frattempo aprire un confronto sulla legge elettorale con i partiti maggiori, perchè col Rosatellum non c’è storia: al centrodestra andrebbero tutti gli uninominali.
E aspettare che il “travaglio” dei Cinque stelle produca il parto di un chiarimento, anche sotto forma di una separazione tra le sue due anime: un pezzo di qua, uno di là . È poco, ma sono le condizioni date di una coalizione composta da un partito mai nato (Renzi), uno non pervenuto (Leu), uno in crisi identitaria (i Cinque stelle) e un unico partito comunque vivo, nonostante due scissioni subite (il Pd), ma autosufficiente col suo 20 per cento.
L’unico atto politico di tre mesi di governo è la manovra, col suo percorso a ostacoli. Oltre la manovra, da gennaio, c’è il buio.
(da “Huffingtonpost”)
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