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L’AFFARE DELLA FORMAZIONE: UN MILIARDO L’ANNO AI DISOCCUPATI, MA SENZA CONTROLLI

OGNI ANNO NASCONO 40.000 CORSI CON LO SCOPO DI RIEMPIRE LE AULE E ACCEDERE AI FONDI PUBBLICI, MA NESSUNO NE VERIFICA L’EFFICACIA

Di cosa vorremmo accertarci prima di iscriverci a un corso di formazione finanziato da soldi pubblici ed europei con l’obiettivo di trovare lavoro? Che l’ente formatore sia serio, ovviamente. Che sia accreditato dalla nostra Regione.
Ma c’è una cosa ancora più importante: se in passato corsi simili si siano tradotti in nuovi posti di lavoro, e in che misura.
Conoscenza fondamentale per non perdere tempo e risorse, per evitare di arricchire gratuitamente i nostri formatori con soldi pubblici.
Conoscenza fondamentale ma inaccessibile perchè le Regioni, con qualche scarsissima eccezione, non fanno valutazioni per vedere se i disoccupati iscritti, pagati con fondi dell’Europa e dello Stato italiano, trovino poi lavoro grazie a quei corsi.
Ma c’è di più: quelle valutazioni le Regioni non sono tenute a farle.
La conferma arriva dall’accordo con il quale l’Italia fissa gli obiettivi per accedere alle risorse del Fondo sociale europeo per il periodo 2014-2020.
Quell’accordo avrebbe dovuto rimediare ai disastri della precedente programmazione, denunciati da un meticoloso lavoro di due economisti della voce.info, Roberto Perotti e Filippo Teoldi: 7 miliardi e mezzo polverizzati in 500 mila progetti di formazione privi di qualsiasi seria valutazione.
Ma così non è.
Nel nuovo documento, tra gli “indicatori di risultato” che dovrebbero dirci se un corso di formazione è utile o no, troviamo ad esempio: “Popolazione 25-64 anni che frequenta un corso di studio o di formazione professionale”, oppure “quota di giovani qualificati presso i percorsi di istruzione tecnica professionale sul totale degli iscritti”. O ancora: “Rapporto tra allievi e nuove tecnologie come Pc e tablet”. In altre parole, un corso sarà  tanto più apprezzabile e quindi finanziabile quanto più alto sarà  il numero dei suoi iscritti, o quanti più tablet saranno messi a disposizione dei suoi studenti
RIEMPIRE LE AULE
Dunque, basta riempire le aule e il gioco è fatto. Gli enti di formazione accreditati (in maggioranza privati) conoscono bene questo gioco: raccolgono un certo numero di disoccupati, contattano i docenti e infine propongono un progetto formativo alla Regione, che fa il bando e decide.
A quel punto scatta il finanziamento pubblico. E ciò senza che siano rispettate due fondamentali condizioni: quella di aver dato prova in passato di aumentare i posti di lavoro con corsi simili, o quanto meno quella di conoscere ciò che serve alle imprese di quel territorio.
POCHE VERIFICHE
Certo, stabilire l’efficacia del corso non è impresa facile e tuttavia ci sono valutazioni sicuramente più accurate che vengono puntualmente ignorate dalle Regioni, come quella che mette a confronto due gruppi di disoccupati simili, uno sottoposto a formazione e l’altro no, e va a vedere dopo uno o due anni quanti di loro hanno trovato lavoro.
Qualcosa del genere lo ha fatto tempo fa, in assoluta solitudine, la provincia autonoma di Trento grazie a un istituto di valutazione, l’Irvapp, per verificare l’efficacia di 64 corsi di formazione di lunga durata.
Ma tutto è affidato al caso, e dopo la bocciatura del referendum costituzionale, che avrebbe trasferito allo Stato la competenza esclusiva nel definire le “disposizioni generali e comuni” della formazione, le Regioni restano padrone assolute, con venti legislazioni diverse.
“Il vero problema – spiega Maurizio Del Conte – responsabile dell’Anpal, la nuova Agenzia nazionale per il lavoro – è che nella maggior parte delle nostre Regioni il finanziamento dei corsi è del tutto slegato dai risultati di inserimento lavorativo”. “Non solo – aggiunge Maurizio Sacconi, presidente della commissione Lavoro del Senato – la formazione è slegata anche e soprattutto dai bisogni delle imprese che potrebbero assumere e da quelli degli stessi potenziali lavoratori. L’unica strada per farla funzionare è il sistema duale applicato dalla provincia di Bolzano: il che significa ancorare i corsi ai contratti di apprendistato, progettarli insieme alle imprese interessate. Casi positivi li troviamo anche in Lombardia, Veneto, Friuli e a Trento. Lì dove invece non si dà  ascolto alla domanda, ecco che la formazione diventa, come è diventata quasi dappertutto in Italia, un grande business autoreferenziale”.
IL BUSINESS DELLA FORMAZIONE
Ogni anno, per la triplice formazione a studenti, disoccupati e lavoratori, partono quarantamila corsi finanziati con fondi pubblici, oltre 9 milioni di ore, 670 mila allievi, centinaia di enti formativi.
E un miliardo circa di risorse pubbliche o istituzionali, tra Fondo sociale europeo cofinanziato dallo Stato italiano e Fondi interprofessionali gestiti da imprese e sindacati. Al quale si aggiunge il contributo individuale degli utenti.
Non si creda che siano tutti corsi inutili o quasi. Molte sono le iniziative lodevoli di enti formativi seri.
Il problema è che, sganciati dai fabbisogni delle imprese, la loro efficacia è affidata al caso. E così fioriscono pacchetti preconfezionati di inglese e informatica, questi ultimi proposti, dice l’Isfol, dal 37,4% delle strutture.
E su Internet si vendono addirittura kit per aprire corsi standard di formazione con l’indicazione degli uffici pubblici a cui rivolgersi per avere le sovvenzioni.
“Già  – commentano all’Atdal, l’associazione dei disoccupati over 40 – non ha alcun senso proporre a un operaio cinquantenne disoccupato un corso di alfabetizzazione informatica quando è chiaro che un qualsiasi diciottenne sarà  in grado di fornire capacità  operative incomparabilmente superiori. Eppure conosciamo situazioni in cui questi tipi di corsi sono stati organizzati proprio per operai”.
Ma non ci sono solo i corsi standard, tutti più o meno generici. L’universo della formazione si popola anche di lezioni tra le più bizzarre, finanziate sempre con i fondi pubblici: dagli animatori teatrali agli assistenti di studi legali agli operatori sociali telefonici.
“E poi ci sono i giochetti più o meno sporchi come il gaming – spiega Francesco Giubileo, esperto in sociologia del lavoro per la voce.info -: un ente formativo, sapendo che un’impresa ha già  deciso di assumere, organizza artificiosamente un corso, dimostrando poi che quel corso è servito a creare posti di lavoro”.
Di qui alle truffe vere e proprie il passo è breve. Le più clamorose quelle organizzate in Sicilia: almeno 200 milioni di fatture fittizie e servizi mai forniti, sui 4 miliardi di corsi di formazione messi in campo dalla Regione negli ultimi dieci anni.
Dai disoccupati agli occupati: anche qui la formazione mostra limiti evidenti, come rileva lo stesso Isfol. Si tratta di corsi brevi che le aziende mettono a disposizione dei propri dipendenti con i soldi dei Fondi interprofessionali.
Nelle condizioni di scarsa produttività  in cui versa gran parte del nostro tessuto produttivo, ci si aspetterebbe un orientamento formativo finalizzato all’innovazione e alla riqualificazione del personale meno istruito. Invece più della metà  dei progetti è dedicata alla sicurezza del lavoro e al mantenimento delle competenze presenti, mentre a partecipare ai corsi sono soprattutto quadri e dirigenti.
L’ABUSO DEI TIROCINI
Ma il tema della formazione non finisce qui: oltre ai lavoratori che perdono il posto e agli occupati che tentano di riqualificarsi per conservarlo, ci sono gli oltre 2 milioni di giovani che non studiano, non lavorano e non si formano.
I pur apprezzabili contribuiti degli istituti formativi successivi alla scuola (ristorazione in testa) non bastano a scalfire il fenomeno.
Gran parte delle speranze di far perdere al nostro Paese il primato dei Neet è riposta nel progetto europeo “Garanzia Giovani”. I
n Italia, dopo una partenza fiacca, il progetto ha avuto una buona accelerazione: più di un milione di iscritti, oltre 800 mila presi in carico. Quanti hanno trovato lavoro? Non lo sappiamo in assoluto ma solo limitatamente ai 266 mila giovani che hanno completato il tirocinio: circa la metà  ha firmato un contratto, e solo 30 mila ragazzi sono stati assunti a tempo indeterminato, l’11% dei tirocinanti.
Se poi andiamo a vedere in che consistono questi tirocini, ci accorgiamo che sono per lo più slegati dalla formazione, tanto che si sta diffondendo un nuovo clamoroso abuso, dopo quello dei voucher: si spacciano per tirocini (500 euro al mese di compenso quasi sempre pagati in ritardo) rapporti di lavoro veri e propri, gratuiti e senza contributi
Scaduti i sei mesi, niente assunzioni: si cambia solo tirocinante. E via per un altro semestre. Insomma, una prassi al limite della truffa. Contro la quale la maggior parte delle Regioni, che continuano e continueranno a gestire l’intero percorso formativo, si guarda bene dall’intervenire.

(da “La Repubblica”)

This entry was posted on lunedì, Marzo 13th, 2017 at 23:03 and is filed under denuncia. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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