LE PEN E IL GOLLISMO SPIEGATO A GIORGIA MELONI
IL PARTITO DI MARINE E’ UNA IMPRESA FAMILIARE CHE NON POTRA’ MAI VINCERE…SOLO LA MELONI PUO’ SCAMBIARLA PER UNA “VERA GOLLISTA”: MEGLIO CHE RIPASSI LA STORIA
Papà Le Pen, quel vecchio satrapo di Jean-Marie, 93 anni, invita la figlia Marine a riaccendere la “virilità” del partito, o sarà la disfatta.
Giorgia Meloni, sul Corriere della sera la difende, lodandola come una “vera gollista”. Lettera appassionata, dove la leader di Fratelli d’Italia parla della francese per difendersi dalla spietata diagnosi di Ernesto Galli della Loggia che lega i due partiti in un giudizio simile: classe dirigente scarsa e conti mai compiuti fino in fondo con la storia del fascismo.
Per Galli il Rassemblement National è certo più amico del maresciallo Pétain, eroe della prima guerra mondiale, poi primo ministro collaborazionista col nazismo, che del generale De Gaulle, eroe della Francia libera.
E le elezioni regionali francesi dei giorni scorsi hanno dimostrato che il cordone sanitario che avvolge da sempre il partito di Le Pen è ancora attivo. Fratelli d’Italia rischia lo stesso destino?
Giorgia, nella sua lettera al Corriere, può dire di non avere scheletri nell’armadio e di considerare la vittoria alleata del 1945 un “evento fortunato e positivo per l’Italia”. Anche se nel suo fortunatissimo libro non dà mai un vero giudizio sul fascismo, ma dichiara di non coltivarne il culto e in visita anche lei allo Yard Vascem si domanda con vera o finta ingenuità e senza darsi una risposta “com’è stato possibile” lo sterminio degli ebrei.
Marine Le Pen è nata nel 1968, a Parigi. Nel 1976 la casa di famiglia nel XV arrodissement della capitale viene distrutta da una bomba diretta contro il padre. Si trasferiscono a Montretout, sulla collina di Saint-Cloud, lo skyline grigio-azzurro di Parigi sullo sfondo. È un castelletto con 4 mila metri quadri di giardino che l’erede di un anziano industriale amico dei nazisti Hubert Lambert regala al leader dell’estrema destra francese. Nel salone c’è un grande ritratto del padre Jean-Marie abbigliato da pirata dell’Ottocento che scruta l’orizzonte nel cannocchiale, aggrappato sulla spalle un ermellino bianco. Marine cresce tra questa e l’altra casa di famiglia in Bretagna, molto più amata come racconta nell’autobiografia “À contre flot”.
Però è qui, nella discreta magione di Saint-Cloud che cresce la génération Marine, lei diventa la leader del partito per diretta investitura paterna, qui matura la rottura fra i due, fino alla scomunica senza appello del padre e la cacciata dal partito.
E qui comincia il percorso da “vera gollista” come la chiama Giorgia Meloni. L’esercizio risulta assai difficile: raccogliere l’eredità paterna e costruire un partito più largo senza negarla. Ma il Front National era nato antigollista, all’inizio degli anni Sessanta, contro la la concessione dell’indipendenza all’Algeria decisa da De Gaulle. Le Pen aveva servito come “lieutenant” in quella guerra che segnò la svolta nel colonialismo francese e non solo. Riconobbe di aver partecipato alle torture contro i “ribelli” (Le “meno violente possibili”, precisa nelle memorie) che sono state negli anni un marchio di infamia per l’esercito francese, riconosciute come tali da Emmanuel Macron.
E nelle memorie racconta addirittura di aver organizzato l’evasione dal carcere di Jean-Bastien Thiry, il colonnello dell’aeronautica condannato nel 1963 per l’attentato fallito a De Gaulle e compiuto dall’Oas (organisation de l’armée secrète) organizzazione vicina al Front National. L’evasione fallirà e il colonnello sarà giustiziato.
Questo è lo sfondo del partito di Marine Le Pen che dice quanto possa essere acrobatico per lei definirsi “gollista”.
Sempre nella sue memorie il padre racconta anche di aver aver incontrato giovanissimo il generale: “Charles de Gaulle rimane per me un’orribile fonte di sofferenza per la Francia… Nel 1945 nel Morbihan: ho stretto quella mano indifferente. Mi parve brutto, non aveva il volto di un eroe. Un eroe dev’essere bello. Come Saint Michel o il maresciallo Pétain. Rimasi deluso”.
Giorgia Meloni scrive che Marine non si è mai dichiarata simpatizzante di Pétain e del regime di Vichy, però nel 2017 è inciampata in una brutta gaffe quando ha detto che non fu “responsabilità di francesi” la famosa retata del Vélodrome d’hiver di Parigi nel 1942 quando oltre 12 mila ebrei rifugiati in Francia dall’est Europa furono indirizzati nei campi di sterminio. D’altra parte le responsabilità della polizia francesi e del regime di Vichy sono state più che provate.
Sulle elezioni regionali di domenica scorsa, così deludenti per la Le Pen e il suo corso normalizzatore, Giorgia Meloni fa una sintesi a proprio uso e consumo sommando i voti presi dalla destra repubblicana gollista (circa 40 per cento) a quelli per le liste della Le Pen (circa il 20) e dice: in Francia c’è una maggioranza di forze patriottiche del 60 per cento.
Il che è vero solo dal punto di vista aritmetico, perché i due mondi in realtà non sono politicamente sommabili: i gollisti hanno fatto – come sempre – campagna contro la Le Pen, in nessuna parte della Francia, salvo qualche minuscolo accordo locale, il Rassemblement è mai entrato in gioco. In Italia il sistema si costruisce nelle alleanze, e si può andare al governo anche perdendo voti; in Francia funziona sulla competizione, o si vince o si perde.
Se Fratelli d’Italia viene vissuto come un partito del sistema da trent’anni, la Meloni ha fatto il ministro e se il centro destra vince le prossime elezioni è sicuro che lei stessa tornerà al governo.
Nel sistema francese è impossibile, il partito di Marine è e resta un’ “entreprise familiale” che non può sottrarsi alla sua storia e al suo paradossale destino: senza Le Pen non esiste, con Le Pen non potrà mai davvero vincere.
Ma non è tutto, le ricadute delle fallimentari elezioni di domenica stanno manifestando retroscena ai limiti del grottesco.
Al Nord il candidato sconfitto lepenista ha denunciato per appropriazione indebita il direttore di finanziamento della sua campagna, si è scoperto che per essere candidati nel Rassemblement si doveva pagare. Queste le tariffe: 20 mila euro per essere testa di lista nei dipartimenti, 10 mila per una posizione eleggibile (con la clausola che si doveva pagare anche in caso di non elezione) e 3 mila per essere in lista senza speranza di elezione. E dietro le quinte si muoveva Génération identitaire, un’organizzazione messa fuori legge per odio razziale.
Se il moderato vincitore gollista Xavier Bertrand alla prima dichiarazione dopo la vittoria ha detto “Abbiamo spaccato la mascella del Rassemblement” qualche ragione ci dev’essere.
(da Huffingtonpost)
Leave a Reply