L’ITALIA REGALA ALTRE TRE MOTOVEDETTE NUOVE AI CRIMINALI DELLA GUARDIA COSTIERA LIBICA
ERANO PREVISTE PER LA GUARDIA COSTIERA ITALIANA… INVECE CHE PER SALVARE I MIGRANTI LI UTILIZZERANNO O TRAFFICANTI
Sergio Scandura ci ha abituati ad anticipazioni e scoop sul fronte migranti, Mediterraneo, Libia. Il giornalista Sergio ha il vizio virtuoso di monitorare praticamente h24 ciò che avviene nelle perigliose acque del Mediterraneo. L’inviato di Radio Radicale è un testimone scomodo per coloro che di testimoni non ne vorrebbero per poter continuare con i loro intrallazzi e le “verità” di palazzo amplificato dal coro di quella comunicazione mainstream che Sergio ha sempre schifato.
L’ultimo scoop in ordine di tempo è sintetizzato in questo tweet: “Altre tre vedette made in Italy- pure nuove di zecca – arrivate in questi giorni a Tripoli: erano previste per la Guarda Costiera italiana sono finite alla c.d. guardia costiera Libica”
Così stanno le cose. Una vergogna che si perpetua. E che è resa ancora più insopportabile, per chi si sente ancora umano, dalle testimonianze dei sopravvissuti all’inferno libico e alle traversate – in mare o nel deserto – della morte.
Racconti dall’inferno
Per sei volte ha provato ad attraversare il Mediterraneo “ma sono sempre stato respinto e riportato in Libia”. Questa volta, la settima, il giovane naufrago 17enne siriano tratto in salvo insieme ad altre 75 persone lo scorso 11 agosto dall’equipaggio della Life Support c’è l’ha fatta. “Le milizie libiche fanno accordi con i trafficanti per riportarci a terra una volta partiti, quindi sanno quando una barca sta partendo e dove si trova”, ha raccontato ai soccorritori di Emergency.
Lui in Libia è rimasto per cinque mesi. “Quattro li ho passati nei centri di detenzione – dice -. La mia famiglia voleva che tornassi in Siria, sapevano che la Libia è un Paese molto pericoloso e non volevano che mi facessero del male”.
L’orrore dei centri di detenzione lo ricorda bene. “Ci picchiavano, a volte con dei bastoni o dei fili di ferro, per poter chiedere più soldi alle nostre famiglie”, racconta adesso che è in salvo in Italia. Dal suo Paese è partito da solo. “È stato molto difficile resistere alla tentazione di tornare, mi mancava tantissimo la mia casa, ma sapevo che non c’era futuro per me in Siria. Adesso non sanno nemmeno che sono vivo, mi hanno preso il telefono in Libia e non ho potuto contattare mia madre per dirle che questa volta, la settima che provavo ad attraversare il Mediterraneo, ce l’ho fatta”.§
La barca su cui viaggiava il diciassettenne era stata segnalat ada Seabird 2 di Sea Watch, poi da Mrcc (Maritime Rescue Coordination Centre) italiano e infine è stata individuata. A bordo anche 7 donne e 24 minori, di cui 12 non accompagnati. C’era anche una neonata di solo 7 mesi.
“Abbiamo iniziato le operazioni dopo aver comunicato con l’Mrcc italiano, che ha coordinato il salvataggio – afferma Carlo Maisano, capo missione della Life Support di Emergency -. Quando abbiamo effettuato il soccorso, la barca di legno era ferma e sovraccarica, e abbiamo scoperto che la stiva era vuota e questo rischiava di sbilanciarla. A operazioni concluse abbiamo ricevuto un’altra segnalazione da Alarm Phone di un’imbarcazione in difficoltà con caratteristiche analoghe, ma dopo un’ora e mezzo di pattugliamento non siamo riusciti a individuarla e ci siamo confrontati con l’Mrcc che riteneva la segnalazione corrispondesse con l’imbarcazione già soccorsa”.
I racconti: “Nei centri in Libia violenze di ogni tipo”
“I naufraghi, partiti dalle coste libiche il 10 sera ci hanno raccontato di gravi violazioni dei diritti umani che avvengono quotidianamente nei centri di detenzione libici – racconta Mohamed Hamdi, mediatore culturale a bordo della Life Support -. Queste sono storie che, seppur nella loro individualità, contengono degli elementi comuni alle testimonianze raccolte durante altri soccorsi di naufraghi partiti dalla Libia. Da quello che ci viene raccontato, violenze di ogni tipo, estorsioni, rapimenti ed esecuzioni sommarie sono all’ordine del giorno in Libia e restano impunite”.
“Ci trattavano come animali”
“Sono partito dall’Egitto perché la vita lì è diventata insostenibile, non si trova lavoro, è tutto troppo costoso, diventa complicato anche permettersi da mangiare – racconta un ragazzo egiziano di 26 anni -. A volte non riuscivo nemmeno a comprare del pane. È vivere questo? Sono il primogenito e i miei fratelli e sorelle più piccoli non hanno modo di procurarsi da vivere in Egitto, quindi ho deciso di partire per cercare lavoro e poter mandare dei soldi a casa. Era la mia responsabilità verso la mia famiglia. Sono stato in Libia per soli tre mesi prima di riuscire a partire, ma sono bastati a farmi vedere cose orribili. Sono stato imprigionato insieme ad altre persone egiziane, ci tenevano in una casa piccolissima tutti insieme e ci trattavano come animali. Ci picchiavano quotidianamente, senza motivo, a volte per il gusto di farlo oppure per farsi mandare più soldi dai nostri familiari. È stato terribile. Quando ho visto la vostra nave, pensavo che foste libici e stavo per buttarmi in mare. Avrei preferito morire annegato che tornare in carcere in Libia. Ancora non riesco a credere di essere stato portato in salvo”.
(da Globalist)
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