NETANYAHU E’ SOLO: STA COLLASSANDO LUI CON LA SUA IDEA DI STATO
NON SI E’ ASSUNTO LA RESPONSABILITA’ DELLE FALLE CHE HANNO CONSENTITO L’ATTACCO DI HAMAS… LE INCOMPRENSIONI CON L’ESERCITO, LO SCETTICISMO AMERICANO, LA SFIDUCIA POPOLARE, I PROBLEMI CON LA GIUSTIZIA
Bisogna riavvolgere il nastro di qualche ora, quando la Radio dell’esercito israeliano ha ufficializzato il rinvio dell’operazione di terra nella Striscia di Gaza. Qualche ora dopo il primo ministro Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa Yoav Gallant e il capo di stato maggiore Herzi Halevi avevano diffuso una dichiarazione congiunta.
Un fatto insolito nella storia di Israele, un paese in cui le forze armate sono legate in modo inossidabile allo Stato, l’unità di intenti è data per scontata. Nella dichiarazione i tre assicuravano di lavorare “in stretta e piena collaborazione, 24 ore su 24, per condurre lo Stato di Israele verso una vittoria decisiva”. Professavano “totale e reciproca fiducia tra loro”.
Non è una dichiarazione di poco conto. Perché il popolo israeliano è in preda al terrore, alla paralisi. Non sa spiegarsi perché l’operazione di terra, che è considerata dagli israeliani l’unico modo di sradicare definitivamente Hamas, venga continuamente annunciata come imminente e puntualmente rimandata. L’opinione pubblica converge su un punto: la responsabilità è di Netanyahu, colpevole di non essere riuscito a prevenire l’attacco del 7 ottobre e a gestire la reazione, convinto dagli Usa a rimandare l’offensiva di terra.
Con una certa insistenza le forze di difesa israeliane rimarcava che l’esercito è “pronto per l’operazione e non può starsene seduto sui pollici per sempre”. Netanyahu si è trovato così costretto a mettere una toppa.
Con un buco da coprire enorme, la pezza non basta. Perché è evidente che Netanyahu si trova davanti alle incomprensioni, quando non una sostanziale ostilità ,dell’esercito, ma anche alla crisi di fiducia dell’opinione pubblica.
Le avvisaglie della profonda difficoltà del primo ministro ci sono tutte e sono tanto grandi da poter mettere a serio rischio la sua leadership. Basta riascoltare le parole del contrammiraglio Daniel Hagari: il principale portavoce militare israeliano ha dichiarato domenica scorsa in un briefing televisivo che l’esercito era “in attesa del via libera dal livello politico per invadere Gaza”. Un messaggio chiaro: noi siamo pronti ad intervenire anche subito, ma è la politica che sa che strada intraprendere.
Subito dopo il messaggio di Hagari è partita un’interessante campagna sui social, da parte dei sostenitori di Netanyahu, con l’intento di spiegare le ragioni del rinvio dell’operazione. È stato diffuso un video brillante, prodotto in forma anonima e pubblicato su tutte le piattaforme, in cui si spiega che “la vita dei soldati viene prima di tutto e che per questo è stato concesso tempo extra”. Si aggiunge anche che “c’è la necessità che l’aviazione distrugga l’insidioso sistema di tunnel di Hamas, prima che le truppe entrino a Gaza”.
Le parole di Hagari hanno innescato un cortocircuito. Gli Usa, tramite il portavoce del Consiglio di Sicurezza nazionale della Casa Bianca John Kirby, hanno sottolineato che il rinvio dell’operazione non è loro responsabilità, “è l’Idf e non sono certo gli Usa a stabilire cosa fare a Gaza e quando farlo”.
Ma poi oggi, come riportano Times of Israel e New York Times, alcuni funzionari americani hanno fatto trapelare che l’amministrazione Biden è preoccupata che Israele non abbia idee chiare né obiettivi militari realizzabili a Gaza, e che l’Idf non è ancora pronto per una incursione di terra. E soprattutto gli americani hanno detto di voler inviare alcuni generali dei marines, esperti di operazioni di guerriglia urbana, come James Glynn, che la sua esperienza se l’è costruita a Fallujah e a Mosul, nella guerra in Iraq contro lo Stato Islamico.
In tutto questo trambusto, Netanyahu ha parlato poco e niente. Ha fatto parlare un politico pressoché sconosciuto, il leader del partito “Shas” Aryeh Deri, che ieri ha sottolineato che “non ci sono differenze di vedute tra politica e militari quando si tratta di Hamas” e che “l’esercito deve prepararsi bene”. Le uniche affermazioni del premier israeliano sono contenute nella dichiarazione congiunta con Gallant e l’esercito.
I generali hanno fretta di cominciare l’operazione di terra dentro la Striscia di Gaza, perché sanno che non possono tenere mobilitati in eterno centinaia di migliaia di riservisti. Secondo Ronen Bergman, una delle firme di punta del giornale Yediot Ahronot, Netanyahu è consapevole che prima o poi ci sarà una commissione d’inchiesta sulle stragi del 7 ottobre che lo riguarderà in prima persona e vuole gettare ogni colpa addosso al ministro della Difesa, Yoav Gallant, membro del ridotto gabinetto di guerra, e ai generali.
“Netanyahu si sta preparando per la battaglia pubblica che scoppierà tra poco, una volta che la situazione sul terreno si sarà stabilizzata. Lui ha tutta l’opinione pubblica contro, che gli attribuisce le responsabilità dell’attacco di Hamas. E così comincia a dare le colpe del disastro all’establishment della Difesa, a Gallant e ai capi militari. Loro hanno capito gli intenti di Netanyahu e sono furiosi” scrive Bergman.
In effetti è chiaro che Netanyahu e Gallant abbiano opinioni del tutto diverse sull’operazione di terra a Gaza e in generale sull’evoluzione del conflitto. Ieri sera il ministro della Difesa ha visitato l’area nei pressi della costa di Gaza con la Marina israeliana, per sottolineare ancora una volta il suo sostegno all’operazione.
“L’offensiva di terra nella Striscia ci sarà a e sarà letale” ha detto. Gallant, secondo quanto scrive Yediot Ahronot, una settimana fa avrebbe redatto un rapporto nel quale esprimeva la volontà di attaccare in modo preventivo Hezbollah in Libano, per liberarsi di un nemico che potrebbe aggredire Israele da nord durante la guerra per Gaza, ma Netanyahu avrebbe fermato l’operazione – sempre su consiglio di Biden – che in cambio ha mandato un pacchetto generoso di aiuti militari e due portaerei, con la promessa di far alzare i bombardieri se Hezbollah avesse cominciato una guerra contro Israele. Durante la visita lampo di Biden, Netanyahu ha fatto in modo che Gallant non potesse presentare i suoi piani al presidente Usa.
Come scrive il New York Times, ma anche Haaretz, “Netanyahu è nel momento di maggior crisi politica della sua carriera”. Quell’unità interna contro il nemico esterno Hamas che il primo ministro aveva tanto ricercato nei giorni scorsi, arrivando ad accettare un governo d’emergenza che includesse anche membri dell’opposizione, si è totalmente disgregata. L’opinione pubblica israeliana, secondo diversi sondaggi recenti, ha molta più fiducia nel suo esercito, che nel governo. Dopo le atrocità compiute da Hamas il 7 ottobre scorso, tra gli israeliani c’è un forte consenso sul fatto che non si sentiranno al sicuro finché la minaccia di Hamas non sarà del tutto rimossa. Ma c’è di più. Perché un sondaggio del sito israeliano di notizie Ynet dice che il 75% degli israeliani addossa a Netanyahu la responsabilità della totale sorpresa del Paese di fronte all’attacco della milizia armata.
E in questo risiede una delle principali motivazioni, secondo Haaretz, per cui il popolo è contro Netanyahu: il premier non ha mai chiesto scusa per i suoi errori. Lo ha fatto l’ex consigliere per la Sicurezza di Netanyahu, lo ha fatto il portavoce dell’Idf e anche il capo dell’Intelligence.
Si è assunto le proprie responsabilità pure il ministro dell’Istruzione Yoav Kisch, che con la sicurezza nazionale ha ben poco a che fare. Non Netanyahu, che ha sempre solo incentrato i suoi discorsi pubblici sulla forza e sull’unità di Israele nell’intento di eliminare Hamas. L’unico riferimento alla propria responsabilità che Netanyahu ha fatto finora è stato durante l’apertura della sessione invernale della Knesset, il Parlamento d’Israele, il 16 ottobre scorso. “Ci sono molte domande su questa catastrofe avvenuta dieci giorni fa… Indagheremo fino in fondo, e in parte abbiamo già cominciato. Ma per ora siamo concentrati su un obiettivo: unire le forze e correre verso la vittoria” ha affermato Netanyahu.
Il popolo ora è arrabbiato con il premier ed è nel panico. Preoccupato per il morale dei soldati e dei riservisti, che sono tenuti da giorni nel limbo dalla politica. L’esercito non capisce neanche più quale sia l’obiettivo finale a Gaza, se la riconquista di tutta la Striscia, o di una sola parte.
La gente è terrorizzata dall’impatto che un conflitto lungo, senza l’eliminazione rapida della leadership di Hamas, potrebbe avere sull’economia del Paese, per cui si prospetta una forte recessione. Gli israeliani, poi, così attaccati al concetto di Stato, non possono sopportare che siano state evacuate decine di migliaia di persone dai confini con la Striscia per un’operazione che poi rischia di non essere neanche messa in pratica. Così come sono infuriati perché non sono stati garantiti i rifugi promessi da Netanyahu nel sud del Paese.
Temono poi che i tempi troppo prolungati dell’offensiva di terra possano erodere il sostegno internazionale alla causa israeliana. Per tali ragioni, in questi giorni, in Israele, si assiste a scene mai viste in precedenza. Come racconta il Wall Street Journal, centinaia di organizzazioni composte da cittadini hanno costruito delle reti per la sollecitazioni di migliaia di volontari che aiutino i militari a mobilitarsi e che sostengano le famiglie che hanno perso i loro cari nel conflitto. Scrive il Wsj: “La società civile interviene laddove il governo manca”.
Il problema grave, sottolinea Bergman, è che in questo momento “non c’è una leadership efficace, che sappia prendere decisioni dolorose, ma fondamentali per la sopravvivenza di Israele”.
“Nel 1973, durante la guerra del Kippur, Israele è stato colto di sorpresa dagli attacchi e inizialmente è stato gravemente ferito. Ma la leadership del Paese, almeno la maggior parte, ha continuato a funzionare bene, a progettare una risposta adeguata, a predere decisioni giuste. Le persone, pian piano, hanno aderito ai piani della leadership, li hanno riconosciuti e apprezzati. E c’è stata un’infusione di fiducia verso l’obiettivo finale di Israele, ovvero la vittoria. Oggi, tutto questo manca” osserva il giornalista.
Tutto ciò fa capire che Netanyahu è fortemente in difficoltà. Ieri è trapelata la notizia, tramite il sito Ynet, del quotidiano Yediot Ahronot, che almeno tre ministri israeliani – di cui non è stata rivelata l’identità – starebbero considerando la possibilità di rassegnare le dimissioni per obbligare il premier Netanyahu ad assumersi pubblicamente le proprie responsabilità in seguito all’attacco a sorpresa sferrato da Hamas il 7 ottobre. I rapporti tra Netanyahu e Gallant sono sempre più difficili, con il premier che lascia poca libertà di azione a Gallant. Allo stesso modo i ruoli, in questo conflitto, del leader di Unità nazionale, Benny Gantz, e dell’ex capo di Stato maggiore Gadi Eisenkot, sono finora del tutto irrilevanti.
Ora, la domanda più difficile a cui rispondere è: quanto può resistere, in queste condizioni, Netanyahu, alla guida del Paese?
È chiaro che il leader non è in grado, sotto diversi punti di vista, di gestire questa crisi. L’immagine e la reputazione del primo ministro sono dipese per lunghissimo tempo dalla sua lotta per il mantenimento della sicurezza degli israeliani e dalla promozione della crescita economica. Ora le sue dimissioni vengono chieste a gran voce da parlamentari della Knesset, ma anche dalle famiglie delle vittime dell’attacco di Hamas. Secondo diversi analisti dell’Atlantic Council, think tank americano con sede a Washington, i fallimenti di Netanyahu e il suo isolamento non sono minimamente paragonabili alle sconfitte che il premier ha registrato in passato e che comunque gli hanno garantito il consenso popolare. “È totalmente collassata l’idea di Stato che Netanyahu ha portato avanti per anni. Non è riuscito a dividere e governare i palestinesi, a indebolire l’Anp, a eliminare Hamas, a preparare l’esercito a un attacco del genere. Non è stato neanche in grado di mostrare calore nei confronti delle famiglie che hanno perso i loro cari in questo attacco. Al suo posto lo ha fatto Biden. Questo non può non avere ripercussioni importanti” scrive Ksenia Svetlova.
Ci sono però dei ma, dei grossi ma. Netanyahu ha dimostrato di essere un leader sui generis. Nella sua carriera politica è sempre riuscito a rialzarsi. Come ha ben spiegato in un’intervista ad Huffpost, nei primi giorni dopo la guerra, Meir Litvak, analista israeliano, “Netanyahu non è un leader che riesce ad avere successo nel popolo grazie alle azioni che compie. Per avere successo utilizza le tragedie”. Per rialzarsi da questa grave sconfitta, come spiega Amos Harel, analista di Haaretz, ha come unica possibilità l’operazione di Gaza, che il popolo vuole ancora e che lui sta cercando di preparare al meglio, perché non può fallire. “È la più grande scommessa della carriera di Netanyahu” spiega Harel.
Se Netanyahu è ancora in piedi è anche perché, al momento, non emergono leader forti alle sue spalle. Guardando al gabinetto di guerra, l’ipotesi Gantz è da scartare: ha perso le ultime elezioni nel novembre del 2022. Lo stesso Gallant, che al momento sembra essere l’unico con le qualità e l’esperienza di poter gestire una crisi del genere, è intrappolato, non riesce a far emergere le sue idee a sostegno dell’operazione militare rapida di terra. Non riesce neanche a colloquiare con i partner occidentali che sostengono Israele, in primis Biden, ma anche i leader europei. Mentre Bibi continua ad essere il punto di riferimento per la Casa Bianca e l’Ue. Lo testimoniano i colloqui sempre più fitti sugli ostaggi tra il premier israeliano e Washington. L’ultima telefonata stamane, quando il presidente degli Stati Uniti ha aggiornato il premier israeliano “sul sostegno americano a Israele e sugli sforzi in corso per la deterrenza nella regione, che include nuovi dispiegamenti militari degli Stati Uniti”, ha detto di aver accolto con favore il rilascio di altri due ostaggi da Gaza e ha riaffermato il suo impegno nei confronti degli sforzi in corso per assicurare il rilascio di tutti gli altri ostaggi presi da Hamas. In mattinata c’è stato anche l’incontro tra Netanyahu e il presidente francese Emmanuel Macron, che ha mostrato tutta la sua vicinanza al premier israeliano. “Questa lotta contro il terrorismo è una questione esistenziale per Israele, ma anche per tutti noi. Proprio per quello, e ne abbiamo parlato insieme, servirebbe una coalizione internazionale” ha detto Macron.
Tutto, anche la stabilità di Netanyahu alla guida del Paese, sembra dipendere ancora una volta da come si svolgerà l’operazione a Gaza, da quali frutti raccoglierà. Quel che invece già si può affermare, con discreta sicurezza, è che se anche Netanyahu rimarrà al potere, difficilmente riuscirà a riunire, un giorno, il Paese. Quel Paese che lui stesso ha contribuito a dividere, a polarizzare, per anni e in particolare negli ultimi mesi. Come scrive Bergman, “le case possono essere ricostruite. Ma ricostruire la fiducia del popolo nel futuro è molto più difficile”. È ancora più complesso se quel popolo è Israele, con tutta la storia che si porta dietro.
(da Huffingtonpost)
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