RIFUGIATI, MIGLIAIA GLI INVISIBILI: NEL RESTO D’EUROPA IN POCHI MESI SI DECIDE CHI HA DIRITTO ALLA TUTELA E CHI VA ESPLUSO
IN ITALIA UN SISTEMA DI ACCOGLIENZA INEFFICIENTE CHE NEGA OGNI FORMA DI INSERIMENTO E DI CURE
Prima di iniziare la sua alba da omicida, Adam Kabobo, il 31enne ghanese che ha ucciso a picconate Alessandro Carolè, Daniele Carella ed Ermanno Masini, aveva dormito nei ruderi di villa Trotti, nel quartiere Niguarda di Milano.
Come lui, decine di migliaia di richiedenti asilo si incontrano ogni notte nei tunnel ferroviari, nei palazzi abbandonati, nei meandri delle stazioni, nelle baraccopoli ai margini della campagna pugliese o calabrese.
Sono i reietti di un sistema d’accoglienza per pochi, e di una burocrazia inefficiente e costosa che trascina per anni le loro pratiche fra uffici e tribunali con il risultato di lasciarli in un limbo: non respinti, non accolti, dimenticati.
Sono tutte persone che nel loro Paese potrebbero essere perseguitate o maltrattate per motivi di razza, religione, per le loro idee politiche.
Per questo si appellano alla legge per avere protezione.
Nel 2012 le domande presentate in Italia sono state poco più di 15 mila.
Poche, in confronto alla Germania (77.500), alla Francia (60.600) o alla Svezia (43.900). Anche in Belgio i richiedenti asilo sono stati quasi il doppio che da noi.
Con la differenza che lì le risposte arrivano normalmente in tre mesi, mentre qui si possono aspettare anche un anno e mezzo.
«Il rispetto di queste richieste è un diritto che abbiamo il dovere di garantire», ricorda Luca Pacini, responsabile welfare, scuola e immigrazione dell’Associazione nazionale dei comuni italiani: «Ce lo chiedono tutti gli organismi internazionali. E in attesa della sentenza è necessario che queste persone stiano in Italia, è una questione di sicurezza».
In attesa di avere un documento però le loro esistenze restano ai bordi della società , e diventano spesso dei drammi dell’emarginazione, soprattutto in un periodo di crisi economica come questo: non c’è lavoro nei cantieri, nei campi, nei magazzini. Non c’è speranza.
Non ne aveva Dek, il ragazzo somalo di 28 anni morto lo scorso 27 gennaio in un incendio nel sottopassaggio di Corso Italia a Roma, a due passi dalla centralissima via Veneto.
La lista d’attesa per i dormitori, nella capitale, è di sei mesi, e Dek, scappato dalle guerre somale, non aveva altra scelta che quella galleria in cui è morto.
Era convinto di non avere un futuro anche l’uomo eritreo di 32 anni che si è tolto la vita a marzo, a Crotone.
Scappato dalla dittatura, in Italia è finito nel campo profughi di Sant’Anna, uno dei centri di accoglienza più contestati dalle organizzazioni umanitarie, dove sono numerose le rivolte e gli episodi di autolesionismo.
E’ rimasto lì per mesi, senza corsi di formazione o contatti con l’esterno.
Poi, finalmente, la sua domanda di protezione è stata accolta, e con lo status di rifugiato è potuto uscire dal campo profughi, per iniziare la sua vita nel nostro Paese.
Ma una volta fuori non sapeva dove andare, senza soldi, amicizie, lavoro. L’unico rifugio che ha trovato è stata una baraccopoli ad Isola Capo Rizzuto, poco lontano dal centro di Sant’Anna.
Dove si è impiccato.
Anche se sono rifugiati, protetti da leggi internazionali che danno loro diritto ad una vita degna nel nostro Paese, in migliaia finiscono così a vivere fra le rovine.
A Milano decine di eritrei si nascondono ogni notte nello scalo ferroviario di Porta Romana, buttati in un tunnel. In Campania «dormono nei palazzi fatiscenti sul Litorale Domizio», racconta Maria Teresa Terreri, responsabile del servizio regionale di mediazione culturale: «E nelle baraccopoli della piana di Eboli.
Vivono alla giornata.
Come i ragazzi africani che si incontrano di mattina sulla “strada degli americani”, a Nord di Napoli, in attesa di un caporale che li faccia lavorare nei campi».
Ma nel sistema distorto dell’accoglienza italiana ciò che manca a chi richiede asilo non sono solo i posti letto.
Manca soprattutto il resto: l’assistenza legale, sanitaria, psicologica, i percorsi formativi dedicati anche a chi vive per strada, come Kabobo.
«Abbiamo un vuoto enorme di risorse», lamenta Pierfrancesco Majorino, assessore alle politiche sociali di Milano: «Non basta garantire un tetto. Queste persone sono spesso molto fragili. Hanno bisogno di servizi dedicati, di assistenza. Ma non ci sono soldi per garantirla».
Chi arriva in Italia e chiede asilo infatti ha subito spesso violenze e torture, che dovrebbero dar loro diritto a una cura, oltre che all’accoglienza: «Ne incontriamo a centinaia che non parlano», racconta Berardino Guarino, direttore del Centro Astalli di Roma: «Che non sanno dove sono. Fissano il vuoto. Eppure vengono abbandonati in balia di sè stessi».
Per paura di essere denunciati, non si rivolgono nemmeno ai servizi che esistono sul territorio. «Noi abbiamo aperto apposta uno sportello nei locali per le docce pubbliche», racconta Peppe Monetti della Casa della Carità di Milano: «Lì ogni anno passano 30 mila persone, e di richiedenti asilo ne incontriamo parecchi. Garantiamo assistenza medica e psicologica, grazie a dei volontari».
Un aiuto che Kabobo, che ha dichiarato di sentire le voci, non ha mai incontrato. Come non ha mai conosciuto nessuno che gli insegnasse la lingua, tanto che nonostante fosse qui da 12 anni ha avuto bisogno, in questura, di un interprete dal suo dialetto ghanese.
Come lui non parlano ancora italiano molti dei profughi scappati dalle rivolte del Nord Africa e sbarcati in Italia dal febbraio del 2011, per i quali la protezione civile ha speso un miliardo e trecento milioni di euro, finiti in un’accoglienza scandalosa, fra case vacanza in alta montagna e alberghi vuoti, come l’Espresso ha denunciato mesi fa. Quando l’emergenza è finita, il 28 febbraio scorso, in decine di migliaia si sono ritrovati per strada, con in tasca una buonuscita da 500 euro e alle spalle due anni di ozio, durante i quali in pochi hanno avuto l’occasione di inserirsi, imparare qualcosa, mentre i più sono rimasti parcheggiati senza nulla da fare.
Abbandonati dallo Stato, alcuni si sono organizzati a modo loro.
A Torino 450 migranti hanno occupato tre palazzi costruiti per le Olimpiadi del 2006 e poi abbandonati, dove vivono da mesi senza gas, ma con luce, acqua e l’aiuto dei volontari: «Pochi di loro hanno un lavoro», racconta Cristina Molfetta, presidente del coordinamento “Non solo asilo” di Torino: «Ma insieme si sentono protetti. Per questo non entrano in conflitto col Comune, che del resto fa finta di non vedere quello che succede».
Andrà tutto bene, però, fino alla fine del 2013, ovvero fino a quando sarà valido il permesso umanitario che l’ex ministro Anna Maria Cancellieri ha garantito a tutti i profughi dal Nord Africa.
Dopo, rischieranno di rimanere anche loro intrappolati nella burocrazia, respinti, accolti, o semplicemente dimenticati.
Michele Sasso e Francesca Sironi
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