SICURI DI AVER LETTO BENE IL LIBRO DI GIORGIA MELONI?
COSA DICE, COSA IGNORA E COSA NON CAPISCE LA LEADER DI FDI… LA SUA OSTILITA’ A UNA VISIONE LIBERALE DELLA SOCIETA’ E DELL’INDIVIDUO, NEGANDO DIRITTI
I libri dei politici, specie se scritti quando ancora in attività e con ambizioni da realizzare, sono soprattutto dei prodotti di più generali strategie di marketing politico. Il racconto di sé, che solitamente contengono, attinge quasi sempre a schemi narrativi tipici, in particolare propri delle fiabe, e a luoghi comuni del tempo coevo, come oggi l’ossessione narcisistica dell’ “essere se stessi” e rivelare ciò che “davvero si è”. Io sono Giorgia, il libro da poco uscito della leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, non fa eccezione.
La dimensione intima e personale (raccontata con stile ed evocazioni adolescenziali, o forse da contemporanea influencer – che è un po’ lo stesso – come ha osservato Guia Soncini) occupa interi capitoli e poi si intreccia strada facendo con quella più specificamente politica e valoriale.
L’effetto? È quello della Politica Pop, dell’Intimate Politics: la simpatia che la messa in scena del personaggio suscita da un lato abbassa la guardia rispetto al significato dei suoi principi e valori, dall’altro può arrivare a trasformare la valutazione positiva prodottasi sul personaggio medesimo in una valutazione positiva della sua visione e delle sue opinioni. Storia nota.
Su quale visione, dunque, questo libro trasla quel sentimento di simpatia e ammirazione che il personaggio privato di Giorgia Meloni può suscitare?
Innanzitutto una visione che ricalca gli stilemi del populismo, con la contrapposizione manichea e moralistica tra popolo (bene) ed élite (male).
Il popolo corrisponde agli italiani comuni, l’élite è un multiforme universo di traditori del popolo. Da Mario Monti “esponente autorevole delle consorterie europee” a Mario Draghi, che potrebbe trasformarsi in “un novello cavallo di Troia dell’occupazione franco-tedesca dell’Italia”.
Dagli “oscuri burocrati” che hanno in mano l’Unione europea “e vorrebbero prescindere dalle identità nazionali, se non cancellarle”, ai “sacerdoti del politicamente corretto”, del “pensiero liberal e globalista”, “che nega il ruolo e il valore delle identità”.
La contrapposizione popolo-élite si sovrappone alla dicotomia destra (la sua sedicente destra) – sinistra (tutti gli altri). Dipinta come un corpo unico, votata al male del popolo, che poggia su un “delirio ideologico”, desiderosa di cancellare le identità, la fede, la storia e che da sempre considera la violenza “uno strumento legittimo da usare contro le organizzazioni di destra”.
In continuità con il totalitarismo sovietico e comunista, laddove le sue “politiche immigrazioniste” altro non sono che il nuovo volto “delle deportazioni di massa dell’epoca sovietica”, la sua “demonizzazione” del concetto di sacro il sostituto della “repressione violenta contro le religioni”, la sua lotta contro la “famiglia naturale” la nuova versione della lotta contro la borghesia. In poche parole, il male assoluto e una alterità concettualmente gridata.
Temi etici, immigrazione, Europa costituiscono gli ambiti ove la visione di Meloni si precisa. Che si tratti di aborto, eutanasia, identità di genere o adozione per le coppie omosessuali, l’opposizione poggia sempre su quel senso comune che fa derivare da diritti e libertà conseguenze estreme, mostruose, grottesche.
Dai “negozi di bambini” al diritto di accedere all’eutanasia in qualunque condizione. Come se esistessero solo libertà ‘assolute’. O tutto o niente: “O dispongo della mia vita o non ne dispongo, non ci sono parametri che possano regolare questo discrimine”.
Non esistono dialettica, confronto tra valori, soluzioni pragmatiche (sane dinamiche per una democrazia): o l’apocalisse o l’ordine sociale così com’è.
Anzi, come dovrebbe essere, perché tante degenerazioni sono in corso e bisogna reagire. L’evocazione del “caos” per chiudere ogni discorso.
Sull’immigrazione le posizioni di Meloni sono note. Nel libro sono anche l’occasione per cogliere la sua inclinazione verso uno schema tipico del discorso delle destre populiste e radicali: il complotto.
In più parti si fa riferimento, senza citarla letteralmente, alla teoria della ‘sostituzione’: “Chi ci guadagna ad abbassare salari e diritti? Le grandi concentrazioni economiche, ovviamente, gli speculatori finanziari: “l’immigrazione è uno strumento dei mondialisti per scardinare le appartenenze nazionali, per creare un miscuglio indistinto di culture, per avere un mondo tutto uguale e, possibilmente, tutto fatto di gente debole (…)
E poi c’è l’Europa. Qui le élite malvagie abbondano. Ma Giorgia Meloni si definisce anche europea.
La sua Europa è quella che respinge arabi e turchi a Poitiers e a Lepanto, dei monasteri e delle cattedrali. L’Europa della cristianità medioevale. D’altro canto Meloni sembra ammirare l’organicismo medioevale, i “cerchi concentrici” dove le identità, a partire dalla famiglia verso via via le comunità più ampie, stanno una dentro l’altra, armoniosamente, come non è nella società contemporanea.
”È la famiglia il nucleo di socialità fondamentale dove ciascuno sviluppa la propria formazione, condivide il proprio destino [sic!] e lega se stesso a un continuum che rappresenta il più determinante tonico della società, fin dalla notte dei tempi”. Dalla notte dei tempi, nessun percorso individuale, solo l’appartenenza a comunità ai quali si è predestinati.
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, non esiste nella narrazione meloniana; si passa dalla Vienna assediata ai carri armati sovietici in Ungheria. Le radici cristiane dell’Europa (lette in modo semplicistico e a-problematico), insieme alla classicità, in una lettura della Storia tagliata a fette, sembrano esaurire l’essere europei.
Ma Meloni va oltre ed esplicita gli elementi che ci identificano. La fede; dunque l’appartenenza cristiana. E poi la cultura, ma anche le origini.
Cosa intende con origini? Non lo spiega, ma possiamo forse immaginare.
E ancora, “le caratteristiche con le quali nasciamo e cresciamo”. Quali caratteristiche? Se con esse siamo nati, caratteristiche ascrittive? E da tutto questo deriverebbe, inevitabilmente, una visione del mondo. Destinati a pensare in un certo modo dalla nascita.
Se così è, è naturale che ogni innovazione nei costumi e nei comportamenti sia vista come sovvertitrice dell’armonia di questo popolo ‘organico’. Che chi arriva da altrove non possa che essere percepito come un elemento di disturbo. Non ci sono principi e regole per integrare, ci sono origini per identificare.
In Europa sono i governi ungheresi e polacco – che come è noto stanno significativamente restringendo l’esercizio delle libertà e volontariamente inceppando i meccanismi dello Stato liberale – a difendere “la propria identità nazionale e cristiana”, vittime però dei globalisti che userebbero la clava di un ‘nobile principio’ [sic!], lo Stato di diritto, come “una spranga di metallo da calare brutalmente sulle popolazioni ungheresi e polacche”.
Chissà, magari tra quelle popolazioni vi sono coloro che scendono in piazza contro i suoi amici Orbàn e Morawiecki. Ma Giorgia non lo sa.
Lei è erede della grandiosa concezione del passato, mentre la sinistra è figlia di quell’illuminismo che merita una citazione solo per richiamare il suo rapporto con il razzismo. Ma anche per spiegarci che mica l’avevano inventato i nazisti, il razzismo. Indubbiamente. Dunque? Dunque, poiché il razzismo connotò la cultura occidentale ben prima dell’avvento del nazional-socialismo, “tutto si può dire – avverte Meloni –, tranne che queste nazioni abbiano fatto la guerra alla Germania per combattere il razzismo. È stato un incidente della storia che da quella vicenda l’umanità ne sia uscita più consapevole, e abbia cominciato a riflettere sul tema, spinta dallo shock provocato dalle conseguenze più tragiche del razzismo”.
Lo scontro di civiltà evocato da figure come Roosevelt e Churchill, in gioco nella lotta al totalitarismo nazista, sarebbe dunque una mera impostura, perché avendo il razzismo albergato anche nelle società occidentali, in fondo queste non sarebbero state migliori. A questo punto diventa lecito chiedersi se la distruzione degli ebrei d’Europa letta come il punto estremo del razzismo figlio dei Lumi (chissà se Meloni ha mai studiato la storia dell’antisemitismo), dovrebbe indurci a pensare che i campi di sterminio avrebbero potuto nascere in una qualunque delle democrazie dell’epoca, invece che all’interno della macchina totalitaria nazional-socialista.
D’altro canto, l’inconsapevolezza storica traspare dal suo racconto della visita allo Yad Vashem, il memoriale della Shoah di Gerusalemme. Una specie di Alice che si domanda come possa essere successo, che spiega ai suoi lettori che “un genocidio si consuma a piccoli passi, poco alla volta. Viltà dopo viltà: fino alla completa disumanizzazione delle vittime, attraverso vignette all’apparenza innocenti, canzoncine offensive intonate senza pensarci, pettegolezzi diffusi sempre più insistentemente”.
Banalità poco sopportabili di fronte all’enormità di un evento sul quale la leader di FdI farebbe bene a informarsi un po’ di più.
Così da poter indicare, magari, qualche responsabile e qualche fenomeno scatenante, lei sempre così pronta ad additare i colpevoli e le forze malvagie all’opera. Farebbe scoperte interessanti.
Una specie di Alice, ancora, che si domanda come sia stato possibile che la persecuzione degli ebrei abbia avuto luogo anche durante il fascismo, “malgrado fossero ebrei molti dei protagonisti dell’ascesa di Mussolini”.
La fine del comunismo nell’Europa orientale diventa, a sua volta, l’occasione per altre ‘riletture’: “No, la democrazia [in Europa] non è tornata nel 1945 con la sconfitta della Germania nazista e dell’Italia fascista, come ci piace raccontare, ma solo nel 1989, quando si è dissolto anche il blocco sovietico”.
Avrebbe potuto scrivere che affinché tutta l’Europa fosse un continente di paesi liberi si sarebbe dovuto attendere l’89. E invece no, costruisce un discorso ingannevole che minimizza il significato della liberazione di decine di milioni di uomini e donne dal nazionalsocialismo.
D’altronde, per promuovere l’idea di una festa nazionale il 17 marzo (Unità d’Italia), lamenta che viviamo in uno Stato “che ha preferito celebrare momenti nei quali gli italiani erano divisi piuttosto che quelli che ne hanno sancito l’Unione”.
Eppure in quella data evocata, ma non detta, il 25 aprile, si festeggia l’Italia che tornava ad essere un Paese libero. Con i suoi drammi e le sue divisioni, ma libero dall’occupazione tedesca. Come si può camuffare una tale realtà?
E qui veniamo all’ultimo punto. Il suo rapporto con la destra post-fascista. Rispetto al fascismo scrive: “Non ho alcuna paura a ribadire per l’ennesima volta che non ho il culto del fascismo” (bontà sua!). E prosegue: “D’altra parte, conosco ogni nome e ogni storia dei giovani sacrificati negli anni Settanta sull’altare dell’antifascismo”. Ovviamente non vi è alcun nesso logico tra le due affermazioni, ma un nesso emotivo, sì. Un fenomeno storico prossimo alla parte politica della quale dice di voler “mettere in sicurezza la storia”, non è indagato, è eluso, ma su di esso il giudizio è ammorbidito preventivamente ricordando i giovani di destra ammazzati da avversari di sinistra decenni dopo.
In più momenti Giorgia Meloni rivendica di avere, con la creazione del suo partito, Fratelli d’Italia, raccolto un testimone, essersi posta in continuità con un “storia di settant’anni” (lei stessa spiega come tanti dirigenti, e non solo, provengano da lì).
Che significa il Movimento sociale italiano, sin dalle sue origini, e Alleanza Nazionale. Ma di quella lunga vicenda mette in rilievo essenzialmente la dimensione ‘esistenziale’, di ‘comunità di popolo’. Dei valori di quella storia, che dice di non volere tradire, non precisa granché.
A parte le pomposità della sua Storia à la carte. In un passaggio rivendica il carattere di avanguardia rispetto al MSI del movimento giovanile da lei guidato. Cosa questo significhi concretamente, però, rimane indefinito: in questo modo può mostrare il proprio lato modernizzatore senza rischiare di offendere i più nostalgici.
Giorgia Meloni non si misura mai né col fascismo né con l’estrema destra (lei non la chiama così, ma questo è il suo nome) alla quale si richiama. Si dipinge oltre navigando nell’ambiguità.
Quell’ambiguità può essere compresa come strategia politica: conquistare nuovi elettori più ‘moderati’ senza scontentare il nucleo originario ‘recuperato’ (o chi si riflette in quel nucleo originario).
Ma da quanto si è visto della lettura della storia occidentale di Meloni, comprendiamo che c’è qualcosa di più: una visione della politica, della società, dell’individuo che non ha nulla a che fare con quella liberale.
Una visione che recupera interpretazioni storiche o concezioni (come quella che sovrappone appartenenza politica, religione e origine, o quella che pone l’ordine sociale come un assoluto contro il quale la pretesa individuale può solo infrangersi), che mettono in discussione gli stessi principi della democrazia liberale (non a caso esalta le curvature illiberali di Polonia e Ungheria).
Nel suo mettere “in sicurezza” la destra di sempre, Meloni l’ha probabilmente traghettata, usando la terminologia di Cas Mudde, dalla sua natura “estrema” tradizionale, ostile alla democrazia liberale in quanto tale, a quella radicale (che è sovente anche populista), che si oppone a taluni aspetti della democrazia liberale, in particolare i diritti delle minoranze e la rule of law.
Il post-fascismo e la nouvelle vague populista hanno quindi un punto di incontro nell’ostilità alla visione liberale della società e dell’individuo. Lo spin populista, a sua volta, spiega l’avanzata elettorale di tanti partiti della destra radicale europea, Fratelli d’Italia compresi.
La tendenza a rappresentare la politica come lo scontro epocale tra bene e male, tra ordine e degenerazione, come la vittoria possibile solo degli ‘assoluti’, però, se potenzia l’efficacia della propaganda (messaggi ‘caldi’, semplici, diretti), una volta trasportata al governo può riservare brutte sorprese.
Il mondo mediatico si è invaghito del personaggio Pop e pare incapace di leggere oltre. A sinistra si concentra ogni avversione su Salvini per motivi di politique politicienne. Intanto Giorgia Meloni, che avanza inesorabile nei sondaggi, ha spiegato chi è. Ma forse in pochi hanno letto davvero il libro e in ancor meno lo hanno capito.
Capiranno forse qualcosa di più quando sarà arrivata a Palazzo Chigi.
(da Huffingtonpost)
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