SOLDI, DROGA, MIGRANTI: L’OCCIDENTE LASCIA A SECCO L’AFGHANISTAN MA NE TEME IL COLLASSO
GLI USA CONGELANO IL 70% DELLE RISERVE AFGHANE
Ora che i talebani si sono ripresi l’Afghanistan, per gli Stati Uniti e i paesi europei si pone il dilemma di come rapportarsi a questa nuova realtà.
Dopo i disastri fatti, mentre si moltiplicano le promesse di piani umanitari, uno dei nodi centrali è come l’Occidente sceglierà di agire sul piano diplomatico ed economico con i nuovi padroni di questo crocevia dell’Asia Centrale, su cui convergono gli interessi e le preoccupazioni di molti attori globali e regionali, dalla Cina alla Russia, dal Pakistan all’Iran.
Nell’immediato, una qualche forma di dialogo con i talebani è necessaria per l’evacuazione dei cittadini occidentali e degli afghani che hanno collaborato con le forze occidentali, come ha sottolineato l’alto rappresentante dell’Unione europea Josep Borrell: “come possiamo aprire un passaggio sicuro per l’aeroporto se non parliamo con coloro che hanno preso il controllo di Kabul?”, ha osservato, respingendo le critiche per le sue dichiarazioni di ieri (“i talebani hanno vinto la guerra, è necessario parlare con loro”).
Ma al di là dell’evacuazione e dei prossimi sviluppi, il grande tema che già si pone all’orizzonte riguarda il nodo degli aiuti finanziari all’Afghanistan, un flusso di denaro che nel 2020 – secondo i dati della Banca Mondiale – ha rappresentato quasi il 43% del Pil del paese, che lo scorso anno si è attestato a 19,81 miliardi di dollari.
Le risorse dei talebani, com’è noto, derivano in buona parte da attività criminali, a cominciare dalla coltivazione del papavero da cui si ricava l’oppio e poi l’eroina, e quindi dal traffico di droga.
Un’altra parte di reddito arriva dall’estorsione ai danni di imprese locali e dai riscatti ottenuti dopo i rapimenti; poi ci sono le tasse, che i talebani impongono praticamente su tutto ciò che toccano. A questo bisogna aggiungere i fondi che il gruppo ottiene da sostenitori con sede in Pakistan e nei paesi del Golfo.
Secondo un rapporto del Comitato per le sanzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, pubblicato nel maggio 2020, il reddito dei talebani è stimato tra i 300 milioni di dollari e 1,5 miliardi all’anno; la Nato propende per stime leggermente maggiori, attorno a 1,6 miliardi di dollari. Nella prima conferenza stampa dopo la conquista dei poteri, i talebani hanno dichiarato che l’Afghanistan non sarà più un centro per la coltivazione del papavero da oppio o per il business della droga, il che – a volerli prendere sul serio – apre ulteriori incognite sulle condizioni di vita della popolazione afghana. Per ora, infatti, nonostante i miliardi di dollari spesi negli anni dalla comunità internazionale per (fingere di) debellare il papavero, l’Afghanistan produce oltre l′80% dell’oppio mondiale.
Da esso dipendono centinaia di migliaia di posti di lavoro in un paese devastato dalla disoccupazione dopo quarant’anni di conflitto. Mentre la situazione economica si è ulteriormente deteriorata con la pandemia di Covid-19, gli stessi talebani hanno riconosciuto che il miglioramento dell’economia non potrà realizzarsi senza l’aiuto dall’estero. “Abbiamo avuto scambi con molti paesi. Vogliamo che ci aiutino”, ha detto il portavoce Zabihullah Mujahid.
Il nodo, ora, è chi e come sarà disposto ad aiutare. Alcuni paesi, come la Germania, hanno già annunciato un congelamento del loro sostegno. Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale rimangono in silenzio, ma il congelamento dell’assistenza finanziaria al paese appare un passaggio obbligato. L’amministrazione Biden ha già congelato le riserve del governo afghano depositate in banche americane, impedendo ai talebani l’accesso a 9,5 miliardi di dollari.
Secondo il Washington Post, la decisione è stata presa domenica, mentre i talebani prendevano il controllo di Kabul, dalla segretaria al Tesoro Janet L. Yellen e dai funzionari del Foreign Assets Control. Questa del congelamento dei beni è la prima di una serie di decisioni economiche che Washington dovrà prendere nei confronti dell’Afghanistan di nuovo in mano ai talebani, che fanno parte della lista di entità oggetto di sanzioni stilata dal Tesoro Usa.
“Per i paesi occidentali è inevitabile la sospensione degli aiuti allo sviluppo all’Afghanistan. Quando c’è un cambio di regime, si sospendono sempre le politiche precedenti, anche solo come forma di interlocuzione per capire con chi si ha a che fare”, spiega ad HuffPost Dario Fabbri, consigliere scientifico e coordinatore America di Limes, esperto di America e Medio Oriente. “Non so dire se e come in futuro potranno riprendere le vie dello sviluppo di matrice occidentale. Qualche forma di sostegno potrebbe ritornare, mascherata con una narrazione tutta da immaginare, nel momento in cui si creasse il famoso esodo di profughi che dall’Afghanistan potrebbe interessare il nostro continente: allora in quel caso, per tenerli dentro i confini, qualche soldo ai talebani, detto molto crudamente, si potrebbe dare, anche se mi sfugge con quale narrazione possibile. In caso di esodo, credo che sarebbe più probabile che gli Stati più ricchi dell’Ue, tipicamente anti-migranti, acconsentano a dare soldi alla Turchia e in seconda battuta a greci e italiani per gestire l’accoglienza”.
Per Mark Weisbrot, co-direttore del Center for Economic and Policy Research, congelare le riserve di Kabul “è un grande errore per il governo americano: significa dire ai talebani che li si vuole distruggere insieme all’economia del paese”.
D’altra parte – sottolinea il Washington Post – non è la prima volta che Washington sceglie questa politica, già attuata con Venezuela e Libia. Secondo altri analisti, una mossa del genere potrebbe essere usata come leva per spingere i talebani a dare al nuovo regime un volto meno dispotico e oscurantista.
Rispetto al regime precedente (1996-2001), questa volta i talebani sembrano godere della possibilità di un riconoscimento internazionale più ampio. Se in quegli anni gli unici a riconoscere il governo taliban furono Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, adesso la lista dei paesi dialoganti appare più ampia. Russia, Cina e Turchia hanno già accolto con favore le prime dichiarazioni pubbliche dei talebani, e anche l’Iran del neo presidente Ebrahim Raisi ha definito il ritiro delle forze occidentali una occasione per “lavorare nuovamente a una pace duratura”.
“L’idea di riconoscere il regime talebano c’è senza dubbio anche da parte degli attori occidentali”, argomenta Fabbri. “I talebani sono stati investiti del ruolo che si sono presi: l’anno scorso gli americani hanno messo nero su bianco che il programma era di riconsegnare il paese ai talebani. Stesso discorso per pakistani, cinesi, russi, turchi, iraniani: tranne l’India, tutti sono stati d’accordo nell’assegnare ai talebani questo ruolo. Per questo non è da escludere che questo sia un regime che informalmente possa essere riconosciuto. Formalmente per Usa e Ue è molto difficile, c’è da vedere quale operazione cosmetica verrà messa in atto. Informalmente i rapporti dovranno essere stabiliti, anche perché il ricatto migratorio è enorme”.
I paesi occidentali per ora si muovono guardinghi, in cerca di un’unità che mostra già le solite crepe. Se il Canada ha escluso la possibilità di riconoscere il governo dei talebani, il Regno Unito si è impegnato a giudicarli “non dalle loro parole, ma dalle loro azioni”, in primis “sul rispetto dei diritti umani”.
Per Boris Johnson, un eventuale loro riconoscimento al governo di Kabul dovrà avvenire in modo “unitario e concertato” ad opera della comunità internazionale. La Germania è in queste ore impegnata in una maratona diplomatica tra Stati Uniti, Pakistan, Qatar, mentre fonti dei talebani e dell’ex presidente Hamid Karzai citate dalla televisione Tolo News hanno detto che le due parti stanno lavorando per la formazione di un “governo inclusivo” in Afghanistan.
“In queste ore sento narrazioni improbabili di talebani cambiati rispetto al passato”, prosegue Fabbri. “A meno di voler credere che si siano improvvisamente convertiti all’illuminismo di Voltaire, la questione degli aiuti allo sviluppo a un paese gestito da persone che sappiamo benissimo chi sono è quanto meno spinosa. Diverso è il caso della Cina, ad esempio, che ha notevoli interessi anche minerari in Afghanistan (dalle terre rare all’oro). P
echino non vorrebbe mai che l’Afghanistan come problema tralignasse in Pakistan, perché l’Afghanistan è nel corridoio delle Vie della seta che va dal Xinjiang fino al porto di Gwadar, voluto e costruito dai cinesi.
Se l’Afghanistan fosse in procinto di crollare, la Cina, che ha sempre difficoltà nell’erogare fondi ovunque, potrebbe rivedere i suoi piani, come anche la Russia. Non mi aspetto però grandi finanziamenti, più appoggio diplomatico e casomai pressioni militari, che non fondi allo sviluppo”.
Quel che è certo è che il futuro, per il popolo afghano, appare sempre più legato al traffico di droga. “Ciò che probabilmente faranno questi paesi – Pakistan, Cina, Russia, Turchia – è favorire il narcotraffico, lasciar transitare ancora più liberamente l’oppio e l’eroina. I ‘fondi allo sviluppo’ che possono garantire questi paesi hanno la forma di un ulteriore lassismo nel confronti del narcotraffico”, afferma Fabbri, che aggiunge una conclusione amara. “Il dramma vero dell’Afghanistan è che non conta quasi niente. Adesso ne discutiamo molto, ma tra un paio di mesi, fuori dalla pausa ferragostana, dubito che l’Afghanistan sarà ancora al centro delle cronache. Temo che il paese scivolerà lentamente nell’oblio, con un asterisco gigante che è quello dei profughi: se dall’Afghanistan iniziassero a partire centinaia di migliaia di profughi, per altre ragioni tornerebbe di moda”. Certi meccanismi, purtroppo, non cambiano mai.
(da Huffingtonpost)
Leave a Reply