Agosto 20th, 2016 Riccardo Fucile
LA CREAZIONE DI UN COMPUTER COLLEGATO A SENSORI IN GRADO DI ANALIZZARE LE COSCIENZE PR INDIRIZZARE FATTI E OPINIONI
Capire cosa pensano gli elettori e quali sono i loro desideri è molto importante per tutti i governi che, infatti, ricorrono sistematicamente a specialisti dei sondaggi d’opinione.
In Russia sembra però che ci si stia spingendo oltre: conoscere quello che sentono nel profondo delle loro coscienze i cittadini per poi condizionarli. In sostanza: non adeguare l’azione di governo alla volontà del popolo, ma fare il contrario, convincendo la gente che ciò che viene deciso in alto è esattamente quello che loro vogliono.
Finora questo risultato è stato ricercato con strumenti tradizionali, come il controllo dei mezzi d’informazione classici (tv, giornali, radio) e delle organizzazioni sociali. Ora, con la nomina del nuovo capo dell’Amministrazione del Cremlino, sorge il dubbio che si stiano percorrendo strade inesplorate.
Il quasi sconosciuto Anton Vayno avrebbe infatti teorizzato la creazione di uno strumento particolare chiamato Nooskop per conoscere fin nel loro profondo le coscienze.
E, forse, per indirizzarle come si vuole.
Persone che hanno lavorato in passato con Vayno parlano addirittura di un «meccanismo», di una specie di computer collegato a sensori di diverso tipo che registrano tutto quello che è successo nel tempo e nello spazio, fino alle transazioni delle carte di credito e agli scambi di ogni genere tra persone.
Il professor Viktor Sarayev, che ha scritto testi scientifici assieme a Vayno, ha detto alla Bbc che il Nooskop è un’invenzione di portata addirittura simile a quella del telescopio.
Ricerche per riuscire a conoscere tutto il conoscibile sull’attività umana in un dato paese o sull’intero pianeta esistono già , come ad esempio il Living Earth Simulator. Ma da tempo Vladimir Putin e i suoi vogliono non solo conoscere ma anche indirizzare.
Dopo aver subìto moti di piazza dei contestatori negli anni passati, l’Amministrazione russa è corsa ai ripari.
Gli oppositori sono stati messi in condizione di non nuocere, con arresti, denunce e altri sistemi meno ortodossi.
Le leggi sulle dimostrazioni di piazza hanno subito modifiche. Poi c’è stata l’azione sui mezzi d’informazione, quasi tutti messi sotto controllo con il ricorso a personaggi come Dmitrij Kiselyov capo del sistema di informazione del Cremlino il quale sostiene, secondo la Bbc, che l’epoca del «giornalismo neutrale» sia tramontata.
La tv satellitare di regime RT forma le coscienze degli ascoltatori di lingua inglese sparsi per l’intero pianeta.
Le Tv nazionali si occupano degli elettori russi.
Gli Spin Doctors del Cremlino monitorano in ogni momento l’opinione pubblica. Le tv poi iniziano a “martellare” i telespettatori a seconda delle necessità .
Certo il Nooskop di Vayno potrebbe fare ancora di più se esistesse veramente (e molti specialisti ne dubitano). In fin dei conti non sarebbe altro che un ulteriore tassello di quella «guerra asimmetrica» che la Russia teorizza da tempo.
Fabrizio Dragosei
(da “il Corriere della Sera”)
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Agosto 20th, 2016 Riccardo Fucile
QUANDO SUL PODIO VINCE LO SPONSOR
C’è chi ha ironizzato, chi ha polemizzato e chi si è chiesto semplicemente perchè. Il 7 sulla maglia della nazionale olimpica ha aperto il dibattito.
Claudia Mori che si unisce alla polemica: “Sul Podio vinceva lo sponsor. Non l’Italia e il suo atleta. A danno di quella che avrebbe dovuto essere la nostra identità . Questo Coni e questa compagnia non cambieranno mai. Ridicoli e incapaci di avere la schiena dritta almeno quando ci rappresentano alle Olimpiadi”.
Su Twitter invece c’è chi loda la divisa. E sopratutto, c’è chi scrive su “Ma han copiato la maglia dalle Seven Fighters di Mila e Shiro?”
Nonostante la somiglianza fra le due divise sia abbastanza evidente, si tratta come c’era da immaginarsi di una pura coincidenza.
Ma allora la domanda che qualcuno si pone resta: “Perchè 7?”.
La risposta è semplice.
Il numero 7 che vediamo sulla tuta dei nostri atleti rappresenta il numero della linea di abbigliamento di Armani, l’EA7.
Così come esiste l’Armani Jeans, Armani Casa, esiste anche l’EA7, nata nel 2004 da una collaborazione tra Armani e Shevchenko, ex numero 7 del Milan ed è la linea dello stilista italiano che ha creato tutto il kit per gli azzurri attualmente in Brasile.
Si tratta, quindi, di una scelta pubblicitaria di Armani che ha voluto rendere omaggio al giocatore mettendo il suo numero 7 nel nome della linea.
EA7 quindi è il marchio Emporio Armani sotto cui vengono prodotti i capi sportivi; una la linea è specializzata in abbigliamento tecnico di qualità per fitness, jogging, snowboard, tennis e nuoto, avvalendosi della collaborazione di aziende specializzate come Carrera, Safilo, Skullcandy e Burton.
Oltre ad avere come testimonial il campione di nuoto Filippo Magnini, la EA7 sponsorizza dal 2007 un meeting di nuoto, la “EA7 Swimming Cup” e dal 2011 la squadra di pallacanestro meneghina Olimpia Milano, posseduta all’80% dal gruppo Armani, inoltre collabora con tre dei più noti centri sportivi di Milano: i club DownTown Diaz, DownTown Cavour e Skorpion.
Dal 2012 EA7 è sponsor tecnico del CONI, e ha fornito le divise azzurre alle Olimpiadi estive di Londra 2012, a Sochi 2014 e a Rio de Janeiro 2016.
(da “Huffingtonpost”)
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Agosto 20th, 2016 Riccardo Fucile
LA FOTO DI OMRAN COPERTO DI POLVERE E SANGUE E’ L’IMMAGINE DELLA RASSEGNAZIONE A CINQUE ANNI DI ECCIDI
Omran, 5 anni, siede in un’ambulanza, coperto di polvere e sangue. È stato appena estratto dalle macerie di una casa bombardata ad Aleppo.
I bambini, parliamone prima che la cosa diventi inutile, dato che in un luogo come la Siria anche gli innocenti sono una preda troppo preziosa per non suscitare la gelosia del destino.
Viviamo in un mondo in cui tutto è perpetuamente minacciato da qualcosa. Penso che sia sempre stato così, ma mai come ad Aleppo, città di tribolati, lo è stato in modo così tangibile.
Sulla soglia, appena, del nuovo millennio e nella confusione che spesso accompagna i secoli che debuttano, la vita dei più piccoli diviene ciò che si vuole: un’arma, uno strumento di propaganda, un particolare inutile, un bersaglio perfetto, una provocazione, un dettaglio, un peso.
Che volete che siano i bambini quando, come avviene in Siria, i morti si contano a centinaia di migliaia? Eppure ogni bambino è unico.
Ognuno di loro che scompare nei quartieri accartocciati di questa città non di pietre e cemento ma di carne e di sangue.
Una città di cui, in cinque anni, ho ascoltato, quasi fisicamente, il respiro farsi più flebile, spegnersi, quartiere dopo quartiere, come se la vita a poco a poco cedesse parti del corpo al silenzio della morte.
Ognuno di loro si porta via con sè un mondo che non era mai stato visto come l’aveva visto lui in quel suo breve tempo e che come l’aveva visto lui non si ritroverà mai.
La foto del bambino di Aleppo ci può aiutare a capire quello che non abbiamo compreso in cinque interminabili anni di guerra? Non lo so.
Nell’immagine è lì, solo, che sogna forse una madre o un fratello che l’accarezzi per fugare in lui il timore dell’universo, che gli dia una casa dove nascondersi e dormire. In una città dove non ci sono più case ma solo rovine!
Tu, voi siete i bambini di Aleppo, i bambini siriani. Avevano mani piccole come quelle di tutti i bimbi del mondo che cominciavano ad acciuffare le cose, voci che scalfivano simili a schegge di vetro i rumori della casa.
Le loro mamme piangevano per un taglio che si erano fatti sulla punta di un dito e i padri li sgridavano fino ad adirarsi.
Poi… poi nel 2012 li ho visti in una casa ad Hadariya, quartiere di Aleppo, con una grigia, sporca, torbida luce incominciava l’alba quando le bombe arrivarono. Avevano le gole e il petto squarciati.
Non dico i nomi: ho pudore. Ecco: la Siria della guerra. Scompigliata, torbida, strisciante, spietata, miserabile. Dove era il demonio, non dio. Dio era da calpestare.
E la Rivoluzione, sogni di gioventù e il cervello disseccato nei sogni!
Credevano che fosse un gioco quando per la prima volta li hanno presi nei lettini per fuggire, per metterli in salvo; se non avessero sentito le madri urlare più del giorno in cui li hanno partoriti.
Allora si sono messi a piangere ma solo perchè lei piangeva e loro erano soliti imitarla spontaneamente in tutto quello che la vedevano fare.
Poi hanno capito che si trattava di questo, di morire.
La morte è stata per voi come un cuneo di verità nel soffice non sapere dell’infanzia, vi ha strappato l’ingenuità come una benda dagli occhi e avete visto forse in un lampo tutti i dolci anni che la guerra vi toglieva: l’amore delle ragazze sulle colline di Aleppo dolci di ulivi, le feste alla moschea, le notti di luna nella città vecchia il profumo di dolci e di pane.
Vogliono trasformarvi in simboli, ora, delle nostre viltà , delle nostre rassegnazioni, delle minacce di naufragio della Storia, dei viandanti sperduti, di coloro che perdono sangue, dei figli senza più madre e delle madri senza più figli, degli uomini senza più casa nè pane nè dio. Forse ci riusciranno, purtroppo.
Ma in realtà il bambino di Aleppo è solo. E guai oggi a chi è solo.
I primi che ho incontrato cinque anni fa ad Aleppo erano già moribondi, trasportati in lenzuola e coperte, improvvisate barelle della disperazione, pochi stracci, carne sfortunata, occhi pieni di buio, in un ospedale dove spazzavano il rivolo di sangue dal pronto soccorso nella strada con una scopa: come se fosse acqua sporca.
Carni straziate da frammenti di mortaio, da shrapnel, da schegge di edifici crollati su di loro.
Dove è il limite? Mi ero chiesto allora davanti a quei corpi. Ora ho la risposta. Non c’è.
Da tempo il troppo in là è stato valicato.
Allora, come fare oggi per dare scandalo, per richiamare le coscienze alla decenza della pietà che si fa azione, rimedio, scelta? Domanda assurda.
La foto del bambino, come quella di Aylan, il piccolo naufrago di Kos, non basterà , non c’è più argomento che sia in grado di farlo ad Aleppo.
Quello che ci scandalizzava cinque anni fa è diventato silenziosamente un punto di partenza. Ed è dal punto di orrore in cui si è arrivati ieri che oggi si prende la rincorsa. Quel bambino è solo il termometro della nostra ipocrisia.
E poi gli altri, i bambini delle zone tenute dagli assassini di Dio, gli islamisti. Trasformati, diversi. La loro giovane età si era calcificata come un enorme guscio di testuggine e il loro cuore era bello e duro come un corallo.
Essi dicevano Allah e il profeta e la guerra santa come citassero articoli del codice penale, per loro Dio era un libro guerriero e l’uomo una cosa a cui non avevano tempo di pensare. Già mummie superstiziose.
Impugnavano armi affidate loro dai padri, mostravano scene di massacro del Nemico come fossero sequenze di un gioco, in uno sprizzare di parole dure e inesorabili contro di me, l’infedele, l’impuro, il Nemico.
Derubati della ebbrezza dell’infanzia, di quella prima saggezza innocente assassinata dalla bugiarda sapienza di poi.
Domenico Quirico
(da “La Stampa”)
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Agosto 20th, 2016 Riccardo Fucile
L’ENNESIMA VITTIMA DEI BOMBARDAMENTI SULLE ABITAZIONI CIVILI DI ASSAD E PUTIN… ALTRI 6 BAMBINI UCCISI AD ALEPPO
Alì, il fratellino di 10 anni del piccolo Omran ferito in un bombardamento su Aleppo e la cui foto ha fatto il giro del mondo, è morto per le ferite riportate nello stesso raid. Lo scrive su Twitter Caroline Anning di Save the Children.
Intanto fonti dei ribelli ad Aleppo hanno affermato che sette membri di una famiglia, di cui sei bambini, sono morti oggi in un bombardamento aereo in un’area della città in mano agli insorti.
Il comitato di coordinamento delle forze ribelli, citato dal sito Middle East Eye, ha detto che gli uccisi sono la moglie e i sei figli di un attivista locale dell’opposizione, Ali Abu al Jawd. La casa si trovava nel distretto di Al Jalum, nella parte vecchia della città . Al Jawd, aggiungono le fonti, non si trovava nella casa al momento del raid.
L’Osservatorio siriano per i diritti umani denuncia come almeno 333 civili siano rimasti uccisi ad Aleppo in bombardamenti e scontri per il controllo della città dallo scorso 31 luglio, dall’avvio dell’offensiva dei ribelli per rompere l’assedio ai quartieri orientali.
Secondo l’Osservatorio, ong con sede in Gran Bretagna, 168 persone sono rimaste uccise in raid aerei e bombardamenti russi e del regime contro le zone orientali.
(da “la Stampa”)
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Agosto 20th, 2016 Riccardo Fucile
LA RIVOLTA DEI RESIDENTI CONTRO I TURISTI… MA I VENEZIANI SPECULANO CON UN BOOM DI B&B. LA FINANZA: “TUTTO ABUSIVO”
Maiali, no grazie. Certo che era una provocazione, il manifestino affisso sui muri di Venezia da un gruppo venetista con un suino in mutande che buttava pattume per terra sotto la scritta «No welcome!»
Una sfida offensiva verso tutti turisti rispettosi del decoro delle calli.
E’ solo l’ennesimo segnale, però, che i veneziani non ne possono più dell’aggressione di un turismo di massa devastante. E il video su YouTube dei ragazzi decisi a tuffarsi nel Canal Grande come fossero a Torvajanica è l’ultima goccia che fa traboccare il vaso.
Sono passati trent’anni da quell’estate del 1986 in cui l’allora assessore al Turismo Augusto Salvadori scatenò l’iradiddio sui giornali internazionali e sulla Cbs («Tre minuti tutti per me. Mi hanno detto: assessore, questo è il microfono, parli. E mi go parlà . Asciutto, incisivo, brillante: tutti i mali di Venezia. Il tappeto umano di sacchi a pelo davanti alla stazione, i picnic a San Marco, la gente che orina sulle saracinesche, i turisti che attraversano la città in gommone senza neanche la canottiera, i gondolieri che ai clienti non cantano le canzoni nostre»).
Scene di ordinario caos
Tre decenni e molti sindaci dopo, i problemi non solo non sono stati risolti ma si sono aggravati. Gente che fa pipì sui muri senza nemmeno cercare più gli angoli nascosti. Giovanotti in bicicletta per le calli. Tende canadesi piantate qua e là nei giardini o nei campielli. Tovaglie stese sulle rive da famigliole che fanno il picnic manco se si trovassero in un’area di sosta sull’autostrada.
Avvinazzati stesi nei sotoporteghi sfatti dall’alcol e completamente nudi. Bottiglie ammucchiate all’ingresso della basilica di San Marco perchè con le nuove disposizioni antiterrorismo da qualche parte devono lasciarle e gli spazzini non ce la fanno a stare dietro ai cestini della zona dai quali, come ha scritto il Corriere del Veneto vengono rimossi 30 metri cubi al giorno di immondizie.
Borseggiatori a tempo pieno sui vaporetti, a dispetto dei controlli che in questo solo mese di agosto hanno visto il fermo di 120 ladri.
Sequestri quotidiani di paccottiglia «italian style» falsa sfornata da laboratori cinesi o napoletani. Per non dire, appunto, del quotidiano bagno nei canali di visitatori italiani e stranieri, giovani e meno giovani che mai oserebbero mettersi in slip o bikini in altre città del mondo.
Come i «foresti» di campo San Vio che, svergognati sul web da una veneziana, guardano la signora che dice loro in inglese e tedesco che «non è permesso tuffarsi nei canali» e che «Venezia non è Disneyland», con aria stupefatta. Come pensassero: che storia è questa, Venezia non è Disneyland? Non appartiene forse a chi paga sganciando euro e dollari, sterline e yen? È o non è un «divertimentificio»?
Il tweet del sindaco
Ha scritto in un tweet il sindaco Luigi Brugnaro dopo il tuffo dal ponte di Rialto di quell’ubriaco schiantatosi su una barca che passava di sotto: «Insisto: poteri speciali alla città per l’ordine pubblico. Borseggiatori, imbrattatori, ubriachi! Una notte in cella».
Minaccia ripetuta ieri: «Stiamo costruendo tutti i passaggi formali per iniziare a colpire duro. Mai fatto». Che dopo anni di lassismo occorra dare una stretta sulle regole per fermare il traumatico degrado di Venezia è vero.
Che si possano mettere in riga i turisti (soprattutto quelli che «sporcano di più e spendono di meno») senza mettere in riga anche i veneziani che sfruttano in modo indecente l’alluvione turistica di chi visita Venezia come Las Vegas, però, pare difficile.
Basti leggere il comunicato di ieri della Guardia di Finanza sui risultati della campagna contro i B&B abusivi: «Nel terzo trimestre del 2015, prima di dare avvio all’operazione “Venice journey”, erano state censite poco più di 200 comunicazioni di inizio attività quali “locazioni turistiche”, mentre alla data odierna ne risultano inserite circa 1.900, con un incremento di nuove attività emerse di oltre 1.600 in valore assoluto, e dell’800% in valore percentuale».
Le topaie trasformate in ostelli
Topaie vere e proprie trasformate in ostelli da 20 euro a notte ed edifici deluxe: «“Beautiful palazzo in quiet corner of Venice”: con questo annuncio un cittadino italiano, proprietario di una palazzina di pregio nel centro storico di Venezia, pubblicizzava la sua struttura ricettiva su diversi siti Internet», spiega la Finanza, «la locazione della magione, al prezzo variabile tra 13.000 e 25.000 euro a settimana, è dedicata soprattutto a una clientela straniera, interessata a servizi aggiuntivi di lusso quali vasca idromassaggio, bagno turco, terrazza panoramica e attracco privato per l’ingresso diretto dal canale.
Quando i militari del I Gruppo della Guardia di Finanza di Venezia con la collaborazione degli agenti della Polizia Municipale lagunare sono giunti presso la struttura, ad accoglierli hanno trovato un maggiordomo e personale di servizio in livrea: servizi aggiuntivi richiesti dal cliente di turno, evidentemente molto esigente. Peccato che l’attività di locazione fosse completamente sconosciuta al Fisco ed al Comune di Venezia».
«Tutto regolare, i soldi finivano sul nostro conto corrente, forse non abbiamo pagato la tassa di soggiorno…», dicono i proprietari Giorgio e Ilaria Miani. Ci torneremo domani.
Un futuro a tinte fosche
Fatto sta che in quell’estate della prima campagna dell’assessore «al decoro», i giornali stranieri si concentrarono soprattutto sulla più «pittoresca» delle iniziative, l’attacco ai gondolieri che intonavano «’O sole mio» invece che con «Nineta monta in gondola» e un quotidiano locale pubblicò la classifica delle canzoni più gettonate: 1° posto «’O sole mio», 2° «Torna a Surriento», 3° «Santa Lucia», 4° «Funiculì funiculà ».
Oggi leggiamo reportage allarmatissimi come quello sul National Geographic di Lisa Gerard-Sharp: «Noi turisti siamo così “tossici” che sarebbe meglio rimanere a casa e cenare da “Pizza Express” dove i proventi della pizza Veneziana sostengono i restauri di Venice in Peril».
Di più: «Chi come me ama Venezia con coscienza, ha il diritto di incoraggiare altri a visitarla?».
Domanda scomodissima. Ma giusta. Recentemente il sindaco di Barcellona Ada Colau è tornata a ribadire: «Non vogliamo fare la fine di Venezia».
E ha rilanciato la battaglia contro i B&B abusivi: «Noi vogliamo una città bella, ma anche sostenibile. Fra il 2008 e il 2013 il turismo è aumentato del 18% ed è troppo per noi. Barcellona non è Parigi».
Immaginatevi Venezia, che sta per scendere sotto i 55.000 abitanti. Meno di Carpi o Vigevano.
Paolo Costa, il presidente dell’autorità portuale che difende il business delle spropositate navi da crociera, sosteneva anni fa in un libro scritto con Jan van der Borg che la città di San Marco poteva accogliere al massimo 12 milioni di turisti l’anno. Nel 2015 sono stati trenta.
E ci vogliamo meravigliare se non sono tutti baronetti di buona educazione?
(da “il Corriere della Sera”)
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Agosto 20th, 2016 Riccardo Fucile
IL SINDACO DI LAMPEDUSA: “COMPORTAMENTO OFFENSIVO PER CHI COME NOI ACCOGLIE MIGLIAIA DI PROFUGHI”
«Tra muri e quote non rispettate, la gestione dei migranti in Europa va male. Ma come facciamo noi come Paese a chiedere aiuto all’Europa quando poi al nostro interno c’è chi scarica le responsabilità ?», si chiede Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa dal 2012, definita dal Papa tra «i grandi dimenticati» per il suo impegno sui migranti.
Ha sentito sindaco, a Capalbio sono addirittura partiti due esposti al Tar contro l’arrivo di 50 migranti…
«E’ un comportamento offensivo per italiani come noi che prendiamo i migranti dal mare e diamo loro accoglienza, e demoralizzante per sindaci come me. Visto da qui è un no incomprensibile».
La fa arrabbiare?
«Mi procura un misto di imbarazzo e ilarità . E mi fa anche arrabbiare: Lampedusa, così piccola e lontana, accoglie 140 persone, e questo numero solo perchè ieri l’altro ne sono partiti altri 140. Ed è niente rispetto a quel che abbiamo avuto».
Voi li accogliete ma poi se ne vanno: nei comuni in cui vengono assegnati invece restano a lungo…
«Ma per noi si tratta di un flusso continuo: in un anno circa ventimila persone passano di qui».
A Lampedusa avete dovuto affrontare tragedie e naufragi. Continuano gli sbarchi?
«Sì, ma la più parte dei migranti ora viene dirottata verso Sicilia e Sardegna. Qui abbiamo affrontato tragedie che mi viene persino difficile raccontare, e mi tocca sentire chi dal lettino blu della sua spiaggia vip fa la lezioncina? Dai miei colleghi mi aspetto collaborazione, solidarietà e responsabilità . Nel 2015 sono sbarcate circa 150 mila persone: se li si dividesse per gli ottomila comuni sarebbero circa 18 a comune, con grandi città e grandi centri in grado di sopportare anche numeri ben più alti».
Come si sta oggi a Lampedusa?
«Il turismo ormai da tempo ha superato la pesca come prima attività dell’isola, e quest’anno abbiamo avuto un aumento straordinario: più 30 per cento a giugno. Abbiamo saputo affrontare con coraggio e responsabilità l’emergenza e oggi la macchina del soccorso e della prima accoglienza cammina da sola».
Come sta funzionando la gestione complessiva, nazionale, dei migranti?
«Male, proprio perchè c’è poca collaborazione dalle altre regioni: solo a Palermo ci sono più di mille minori. In Italia la gestione è molto verticale, affidata a ministero e prefetture, forse perchè i comuni non hanno voluto essere protagonisti. Ma io credo che sia il momento per i sindaci, che sono i più vicini ai cittadini, di decidere — assumendosi le responsabilità che questo comporta».
Il sindaco di Capalbio vede il rischio di una ghettizzazione dei migranti nel suo comune…
«E’ un ghetto se vengono accolti nelle villette, e se invece vengono messi in periferia no? E’ un argomento irritante. Un sindaco progressista che voglia caratterizzare la sua azione affermando dei valori non dovrebbe dire solo no: deve anche fare la propria proposta. Altrimenti significa solo sottrarsi alle responsabilità ».
La protesta di Capalbio svela anche l’ipocrisia di una parte della sinistra?
«L’ipocrisia e la debolezza di una cultura progressista che in questi anni non ha saputo contrastare il Salvini di turno nè avere un’idea nuova su come gestire l’accoglienza. E che sia quel target intellettuale e sociale a lanciare questo tipo di messaggio è disarmante».
Francesca Schianchi
(da “La Stampa”)
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Agosto 20th, 2016 Riccardo Fucile
“puliAMO SAN CASCIANO”: I PROFUGHI DIVENTANO GLI ANGELI DEL DECORO URBANO
C’è da arrossire, e non per il sole, e anche provare un po’ di vergogna di fronte a un dibattito “salottiero” che trasforma il dramma vissuto da migliaia, milioni, di esseri umani in fuga dall’inferno di guerre, sfruttamento, disastri ambientali, in una sorta di gossip che ha il suo epicentro nell’agorà spiaggiata di Capalbio.
Le interviste a politici, intellettuali, presenzialisti mediatici che affollano “l’ultima spiaggia” sono espressione di un provincialismo ammantato di cultura.
Capalbio fa notizia, purtroppo.
Mentre non hanno lo stesso eco mediatico esperienze di segno opposto che pure vivono a pochi chilometri dal centro vacanziero capalbiese.
Ma per chi, come noi di Oxfam, crede che occorra una narrazione alternativa, un nuovo vocabolario politico e culturale dell’inclusione, capace di smontare il vocabolario della paura, quello dell’ “invasione dei migranti”, del “ci rubano il lavoro e insidiano le donne”, per chi crede che è importante far emergere storie di accoglienza concreta, di un fruttuoso rapporto tra volontariato ed enti locali, allora c’è da parlare dell’altra Toscana, quella che include e vede nelle diversità una ricchezza e non una minaccia.
È la storia di trenta migranti ospitati da Oxfam, che hanno raccolto 150 chilogrammi di spazzatura in una trentina di sacchi, avviando un percorso di integrazione con San Casciano in Val di Pesa.
Trenta migranti che hanno dato vita ad una task force per il decoro urbano, e che hanno trasformato l’ex Hotel Mary, dove soggiornano, nel centro propulsivo del loro impegno civico. Un impegno che li ha visti lavorare fianco a fianco con alcune associazioni locali e il gruppo scout, ripulendo ogni angolo del piazzone e dell’area sottostante la terrazza dei giardini di piazza della Repubblica.
Imballaggi e confezioni di plastica, bottiglie di vetro, cartacce e una sedia impagliata: gli angeli del decoro urbano – come racconta un bel reportage del “Redattore sociale” – impegnati nell’ambito di “PuliAmo San Casciano”, la campagna promossa dal Comune inserita nel progetto internazionale Let’s Clean Europe – hanno trovato di tutto nei luoghi circostanti i giardini pubblici.
Ma, oltre ai rifiuti, tra le vie, le piazze e le aree verdi che si estendono tra le mura medievali e il campo sportivo di San Casciano, tra il Piazzone e viale Garibaldi, gli angeli spazzini, volontari di ogni età e provenienza culturale, hanno trovato anche l’occasione di conoscersi e avviare un percorso di integrazione.
“PuliAmo San Casciano” è di fatto una delle tante iniziative pubbliche che vede coinvolti i migranti come volontari, impegnati in lavori e attività socialmente utili.
Ecco: “PuliAmo San Casciano” non ha conquistato le prime pagine dei quotidiani.
Ma vale molto di più di qualche titolo ad effetto.
Gli angeli spazzini raccontano di un “Nuovo Inizio” positivo. Lasciando ad altri “l’ultima spiaggia”.
(da agenzie)
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Agosto 20th, 2016 Riccardo Fucile
“DIVIETI FRUTTO DELL’IGNORANZA, LA NOSTRA COMUNITA’ E’ INTEGRATA, DA NOI IL RADICALISMO NON ATTECCHISCE”
Intorno all’alta inferriata che circonda la Grande Moschea di Roma, già dalle prime ore del mattino, si anima un piccolo mercato all’aperto.
I profumi dei dolci arabi si mischiano ai fumi della carne halal che, poco prima dell’inizio della preghiera del venerdì, sfrigola sulle griglie.
Tre ragazze siedono dietro un lungo banco di vestiti tradizionali per donne musulmane. Occhi fissi sugli smartphone e capo coperto, sorridono ma dicono di non voler rispondere alle domande dei giornalisti.
Davanti a loro centinaia di veli colorati, tuniche lunghe e ricamate. «Burkini ne vendete?», chiede un giornalista arrivato con telecamera al seguito, alla ricerca del costume da bagno integrale salito agli onori della cronaca per essere stato messo recentemente al bando su alcune spiagge francesi. «No. Nè burqa, nè burkini. E ora basta domande, per favore».
«Qui a Roma di burqa integrale non ne ho mai visto uno», conferma Karim, marocchino da diciotto anni in Italia. «Capisco anche che la paura abbia giocato un ruolo importante in Germania e in Francia, dopo gli attentati, e sono d’accordo sul divieto di indossare il velo che copre il viso se è un problema per identificare le persone, ma mi sembra più che altro una mossa politica. Noi, i musulmani veri, con il terrorismo non c’entriamo nulla. La Jihad è ignoranza dell’Islam, e anche questi divieti sono frutto dell’ignoranza».
Le persone che si fermano a parlare vengono dalle parti più disparate del Medio Oriente e del Nord Africa.
La maggior parte di loro, però, vive qui da almeno quindici anni e qualcuno, come Meghoub, egiziano del Cairo ed ex venditore di lenzuola e tovaglie ora in pensione, spiega che sono stati soprattutto i primi immigrati ad aver assorbito la cultura italiana. «L’integrazione, con chi veniva qui dai paesi del Nord Africa negli anni Ottanta e Novanta, ha funzionato perchè non c’era un business così forte come quello di oggi», spiega aggiustandosi gli occhiali da sole.
«Ed è proprio perchè l’integrazione ha funzionato che il fondamentalismo islamico non è riuscito ad attecchire. Qui a Roma – ricorda Meghoub – qualche estremista era passato tanti anni fa, ma la comunità ha rifiutato le sue idee e non gli ha permesso di rimanere. Insomma, in Italia non hanno trovato terreno fertile anche grazie ai musulmani che vivevano qui e si erano integrati. Per questo sono stati tutti costretti ad andare via, in Francia o in Belgio».
Allo stesso modo di Meghoub, che parla poi con più serenità dei suoi quattro nipoti, tutti nati a Roma, c’è Jahmal, libanese, appena diventato nonno.
Si accende una sigaretta e scorre il dito sul suo cellulare fino a quando non trova la foto del nipotino appena nato, messo in posa nella sua tutina celeste davanti a una torta sulla quale è scritto ‘Buon battesimo, Jacopo’.
«Mio figlio ha sposato una donna italiana e hanno deciso di battezzarlo. Però è stato anche circonciso – aggiunge ridendo – come la mia tradizione vuole».
«Da nonno libanese spero diventi musulmano, è chiaro. La nonna italiana invece si augura che diventi cristiano. Allora abbiamo fatto un patto: nessuno gli farà pressioni di alcun genere. Poi quando sarà grande abbastanza deciderà da solo. Ogni musulmano, uomo o donna che sia, deve avere e dare libertà di scegliere».
Il discorso sulla libertà finisce presto per cadere sull’argomento del burkini, e sulle posizioni di chi accusa i musulmani di obbligare la donna a coprirsi anche quando va al mare.
«Quella del burkini è solo una questione di moda – ribatte secco Jahmal – ma non capisco il senso del divieto messo in Francia: se i terroristi volessero fare un attentato usando una loro donna, potrebbero travestirla da suora. Vogliamo proibire anche alle suore di andare in spiaggia con il velo e il vestito lungo?».
Le donne musulmane che camminano verso la Moschea o passeggiano tra i banchi del mercato non parlano volentieri dell’argomento.
Una battuta, e via con il passo più rapido. Nel caso migliore, prende la parola l’uomo che, quasi sempre, le accompagna. Ognuno assicura che la propria moglie o figlia, qui in Italia, è libera di fare come vuole.
«Le mie bambine quando vanno in spiaggia hanno un costumino e i capelli sciolti, come le loro amichette», racconta Ahmed.
«Mia moglie invece non vuole. Lei non è nata qui, è algerina come me ed è nella sua cultura indossare il velo. Ma io non le ho mai detto di metterlo. Ha sempre fatto di sua volontà ».
Nessuna donna musulmana è però disposta a rispondere. Poi, distante ormai qualche centinaio di metri dalla Moschea, i giovani Brahim e Fadila attraversano la strada mano nella mano.
Entrambi hanno tratti mediorientali ma l’accento inglese tradisce la provenienza. Vengono da Glasgow, in Scozia, e sono a Roma in vacanza. Delle polemiche sollevate intorno ai divieti di indossare burqa o burkini, però, non ne sanno nulla, ammette Brahim.
Quando gli si chiede cosa ne pensi del divieto che potrebbe coinvolgere sua moglie se decidessero di proseguire il viaggio sulla costa francese o in Germania, Brahim si volta verso Fadila e le dice: «A questo dovresti rispondere tu».
(da “La Stampa“)
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Agosto 20th, 2016 Riccardo Fucile
IL DOCENTE DI DIRITTO PUBBLICO ALLA SORBONA: “LE ORDINANZE CON SCADENZA AL 31 AGOSTO LA DICONO LUNGA”
Paul Cassia, docente di diritto pubblico alla Sorbona di Parigi, è in vacanza in Costa Azzurra da diversi giorni.
«E, a dire il vero, non ho mai visto in spiaggia una donna indossare il burkini». Eppure va al mare vicino a Cannes, una delle città che ha proibito con un’ordinanza il costume da bagno integrale, che copre anche il capo.
«Ho visto seni nudi e string — precisa il professore -, ma niente burkini. Mi è capitato invece di vedere per strada, almeno una volta, una donna con il burqa».
Su quello, però, la Francia ha già legiferato a livello nazionale, è vero?
«Sì, è stato proibito negli spazi pubblici con la legge 2010-1192 dell’11 ottobre 2010. Venne adottata quando era presidente Nicolas Sarkozy».
Ci sono riferimenti alla religione o alla laicità in quel testo?
«No, assolutamente. Già nel titolo la legge proibisce “la dissimulazione del viso nello spazio pubblico”. Fa riferimento alle regole del vivere insieme. Portare il burqa è considerata una violazione della dignità della persona umana».
Adesso anche la Germania vuole varare una legge anti-burqa, ma probabilmente con un divieto parziale rispetto a quello francese…
«Vedremo cosa faranno. Va detto che da noi la proibizione vale solo per gli spazi pubblici e non per quelli privati. Anche la moschea è considerata uno spazio privato: lì la donna, se lo vuole, può indossare il burqa».
Ha funzionato la legge francese del 2010?
«Diciamo che c’era un problema è che è stato risolto. Poi, è vero che ci sono nella realtà dei fatti poche verbalizzazioni. Le multe previste in caso di infrazione sono basse (ndr, fino a un massimo di 150 euro). Il provvedimento aveva soprattutto una valenza simbolica».
Ha raggiunto il suo scopo?
«Sì, è una buona legge. E il consenso è oggi molto ampio, soprattutto rispetto a quando è stata adottata e alle polemiche che scatenò».
Le legge anti-burqa può avere riflessi sulla querelle dei burkini?
«No, alcuna, perchè in questo caso il viso è scoperto. Quindi quella legge non ha alcun effetto sul ricorso a questo tipo di costume da bagno».
Cosa pensa delle ordinanze che alcune città francesi hanno emesso per proibire il burkini?
«Già il fatto che alcune di loro prevedano una scadenza fino alla quale il costume è proibito pone un problema per la legittimità dell’atto. A Cannes, ad esempio, fino al 31 agosto. Perchè, se il burkini rappresentasse un pericolo per l’ordine pubblico, non lo sarebbe più dal primo settembre? Qual è la logica? In ogni caso si tratta di un fenomeno limitatissimo, non capisco perchè si dovrebbe fare una legge, come alcuni chiedono. E se, alla fine, la Corte costituzionale francese si pronuncerà su queste ordinanze, non sarà facile dimostrare che il burkini viola la dignità umana o che disturba l’ordine pubblico».
Pensa che sia una polemica inutile?
«Si mette in evidenza solo un falso problema, con il rischio di accentuare le tensioni che già esistono con la comunità musulmana. Senza contare che si può provocare una reazione opposta di certe donne, che neanche sapevano cosa fosse. E che potrebbero iniziare a utilizzarlo».
Leonardo Martinelli
(da “La Stampa”)
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