Agosto 26th, 2016 Riccardo Fucile
ERRORI ED ORRORI DAL BELICE ALL’EMILIA, SOLO IL FRIULI E’ STATO UN MODELLO VIRTUOSO
All’inizio la ricostruzione non fu facile nemmeno in Friuli. «Fasin di bessà’i», avevano detto gli abitanti dopo la tragedia del 6 maggio 1976. Facciamo da soli.
E avevano cominciato a riparare le case distrutte, a rinforzare quelle pericolanti. Poi venne la scossa del 15 settembre e tutto crollò di nuovo.
Ci sono voluti dieci anni e quasi 20 miliardi di euro per far rientrare a casa gli ottantamila sfollati e far tornare come prima i 137 Comuni colpiti dall’Orcolat, l’orco sotterraneo della Carnia.
«Dopo un sisma non ci sono ricostruzioni felici», commenta Andrea Barocci, mentre si prepara a partire per le zone terremotate. Ingegnere delle strutture, coordinatore della sezione norme, certificazioni e controlli in cantiere dell’associazione Ingegneria sismica italiana, Barocci è autore di un manuale, «Rischio sismico» (edizioni Grafill), in cui spiega che il terremoto, in Italia, è una certezza con cui dobbiamo convivere.
In meno di cinquant’anni sette sismi ci sono costati cinquemila morti, oltre 500 mila sfollati e 121 miliardi di euro di soldi pubblici spesi per ricostruire.
Come una manovra aggiuntiva di due miliardi e mezzo ogni anno.
LA VERGOGNA DEL BELICE
Primo venne il Belice, la valle siciliana dove l’Italia diede il peggio di sè negli aiuti e nella ricostruzione. Gibellina, Salaparuta, Montevago erano polvere, ma lo Stato lasciò per quasi due anni i cittadini nelle tende, assieme ai loro sindaci esautorati, per ricostruire malamente i paesi in una distesa di case a schiera tutte uguali.
A poco servì la protesta di Danilo Dolci, il Gandhi della Sicilia, che gridava «La burocrazia uccide più del terremoto». Quarant’anni fa c’erano ancora 47 mila sfollati, le ultime baracche di eternit sono state smantellate nel 2006.
Agli antipodi dell’Italia, il Friuli è un’altra storia.
Siamo ancora in guerra fredda, il premier Aldo Moro non può lasciare solo il territorio militarmente più esposto a eventuali attacchi da Est. Già il 7 maggio, il giorno dopo la scossa da quasi mille morti, Giuseppe Zamberletti viene nominato commissario straordinario ad hoc.
Tre le linee guida: decentrare le decisioni, reinsediare al più presto la popolazione, ricostruire tutto com’era e dov’era. Prima le fabbriche, per garantire il lavoro, poi le case e infine le chiese. Sono anni da stato d’assedio: roulotte sequestrate in tutta Italia, case espropriate, interi Comuni come Venzone che diventano «opera pubblica», edifici privati compresi.
Cossiga, ministro dell’Interno, scrive di suo pugno: «Il commissario agisce in deroga a tutte le leggi ivi comprese quelle sulla contabilità generale dello Stato». Fioccano le denunce e le proteste di chi aveva un appartamento e si vede restituire una stanza. Ma intanto i paesi rinascono.
Con la tecnica certosina dell’«anastilosi» si ricostruiscono palazzi e chiese numerando le pietre e rimettendole al loro posto esatto. Diecimila quelle del Duomo di Venzone, finito quasi vent’anni dopo. Alla metà degli anni ’80 gli ultimi sfollati lasciano i prefabbricati e tornano a casa. Ed è questo il modello Friuli, forse l’unico esempio positivo di ricostruzione in Italia, che non ha purtroppo fatto scuola.
Solo quattro anni dopo viene l’Irpinia, quasi tremila morti, la madre di tutte le sconfitte dello Stato e delle cosiddette autorità locali. La prima stima dei danni, nel 1981, parla di 8.000 miliardi di lire, ma alla fine il conto totale supererà i 50 miliardi di euro.
Ogni volta che facciamo benzina, paghiamo 4 centesimi al litro per la ricostruzione dell’Irpinia, una piaga che nel frattempo si è allargata dai 99 Comuni dichiarati all’indomani del sisma ai 643 riconosciuti dal governo di Arnaldo Forlani e ai 687 finali: miracolo al contrario di un’Italia che promette consensi elettorali in cambio di contributi non dovuti. Ancora oggi i quartieri di Penniniello e Quadrilatero delle carceri a Torre Annunziata, feudi di camorra, aspettano la ricostruzione. I fondi dello Stato sono finiti altrove.
LA RISATA E LE NEW TOWN
Della ricostruzione in Umbria e Marche si può parlare bene o male, ma il lavoro di restauro della basilica di Assisi e la riparazione dei paesini storici feriti hanno del miracoloso.
Nulla di sacro c’è, invece, nella gestione del dopo-sisma in Abruzzo, marchiato dalla risata oscena fra Francesco Maria De Vito Piscicelli e suo cognato al pensiero dei lucrosi appalti in arrivo. «Ricostruiremo in sei mesi tenendo fuori speculazione e mafia», aveva promesso Silvio Berlusconi. Ma la sua idea della «new town», i paesi di plastica dove ricollocare gli sfollati, è stata un autogol.
Sette anni dopo la tragedia, migliaia di persone vivono nelle Case (Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili) o nei Map (Moduli abitativi provvisori). L’Aquila non è risorta, l’emergenza non è mai finita.
Nemmeno il terremoto nella pianura padana emiliana è un esempio di rapida ricostruzione: in quattro anni sono poche le attività ripartite.
Per il Centro Italia nuovamente colpito non ci sono modelli vincenti.
L’unica strada è una vera prevenzione strutturale, con la revisione di tutti gli edifici a rischio.
Ma questa sarebbe un’altra Italia.
Alessandro Cassinis
(da “La Stampa”)
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Agosto 26th, 2016 Riccardo Fucile
“CI SEMBRAVA GIUSTO AIUTARE CHI E’ IN DIFFICOLTA'”
Continua la gara di solidarietà per aiutare i terremotati dopo il sisma di questi giorni.
In tutta la Liguria oggi si sono presentate oltre 1500 persone per donare il sangue, rispondendo all’appello in favore dei feriti del terremoto.
E a donare il sangue oggi, all’ospedale San Paolo di Savona, si sono presentati anche una decina di migranti ospiti di una cooperativa locale.
“Abbiamo saputo di questa emergenza umanitaria e siccome l’Italia ci ha aiutati quando siamo scappati dalla guerra e dalla miseria – ha raccontato un profugo – ci sembrava giusto rispondere all’appello e aiutare coloro che ora soffrono e sono in difficoltà “.
Anche nei prossimi giorni altri migranti andranno in ospedale o presso altre associazione che raccolgono il sangue per effettuare le loro donazioni.
A dimostrazione che il senso di solidarietà e di umanità non ha confini o barriere.
(da agenzie)
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Agosto 26th, 2016 Riccardo Fucile
UN ESEMPIO DA SEGUIRE: UN MIX DI PREVENZIONE E CONTENIMENTO DEI DANNI
Il Giappone, uno dei Paesi più esposti al rischio sismico, è davvero un esempio da seguire.
Grazie a un mix di misure di prevenzione e di contenimento dei danni, riesce a limitare in modo notevole perdite umane e distruzioni.
Anche in occasione di terremoti gravissimi, come quelli di Kobe del 1995 o quello del Tohoku del 2011.
Imitarle non è facilissimo però. In Italia si cerca di preservare gli edifici storici e le città antiche; in Giappone – dove da sempre gli edifici residenziali sono basati su materiali leggeri come il legno, che periodicamente per terremoti e guerre vengono distrutti – si preferisce buttar giù e ricostruire.
Utilizzando, ovviamente, tutte le più moderne e aggiornate tecnologie antisismiche. Secondo, i governi laggiù spendono per ricostruzione, prevenzione e retrofitting antisismico risorse ingentissime, da noi impensabili.
Infine, la popolazione giapponese è preparata agli eventi sismici, e disposta a rispettare le regole mirate a ridurre i rischi e i danni.
Ridurre, non eliminare: il 14 e il 16 aprile scorsi due sismi hanno colpito Kumamoto, nel Sud del Giappone, con 80 morti e danni diretti e indiretti stimati in molti miliardi di euro.
La prima misura è quella che riguarda le procedure di costruzione degli edifici.
I codici delle costruzioni sono periodicamente rivisti e aggiornati per tenere conto delle più innovative tecniche antisismiche.
Tra queste, sistemi di molle o di cuscinetti che permettono alle strutture di assecondare i movimenti del terreno, e strutture molto elastiche che consentono ai grattacieli grandi ondeggiamenti senza arrivare a rotture strutturali.
Ancora, appositi sistemi impediscono che rotture dei cavi elettrici o delle tubazioni del gas generino incendi o altri disastri: treni e metropolitane si arrestano subito.
Poi, come detto c’è una popolazione assolutamente preparata al rischio sismico. Sin da piccoli gli scolaretti giapponesi sanno che appena la terra comincia a tremare forte bisogna coprirsi la testa con un tatami e mettersi sotto un tavolo.
In tutti gli uffici, pubblici o privati, si svolgono periodiche esercitazioni. In casa tutti tengono un kit di sicurezza con documenti, acqua, medicine e cibo per un paio di giorni.
Terzo, in Giappone esiste un sofisticato sistema di pre-allarme in grado di avvertire la popolazione dell’arrivo di un sisma importante, o di uno tsunami, basato su una rete di sensori situati in tutto il Paese.
Non appena si avverte l’imminenza di un sisma, immediatamente l’allarme viene lanciato sovrapponendosi ai programmi televisivi in diretta, indicando forza e localizzazione presunta del sisma o dell’onda in arrivo.
Sono quasi sempre soltanto pochi secondi di anticipo: forse quelli che fanno la differenza tra la vita e la morte.
Da poco ha avuto un gran successo una app per gli onnipresenti smartphone, Yurekuru, che in caso di sisma individuato dalle autorità squilla fortissimo.
Il primo agosto, però, per un errore tecnico dell’Agenzia pubblica, un (falso) allarme terremoto ha gettato nel panico milioni di giapponesi.
Roberto Giovannini
(da “La Stampa)
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Agosto 26th, 2016 Riccardo Fucile
SIAMO ALL’AVANGUARDIA NEL SETTORE… IL COSTO? SOLO IL 10% DI QUELLO CHE PAGHIAMO PER LA RICOSTRUZIONE
Si chiama «seismic retrofit», ovvero adeguamento sismico: un complesso di tecniche per intervenire sui vecchi edifici esistenti e renderli più sicuri contro i terremoti.
Un campo in cui gli ingegneri italiani sono all’avanguardia a livello mondiale.
Eppure poi solo in rarissimi casi queste misure sono applicate nel nostro Paese.
«È certamente un problema di risorse – dice il professor Paolo Bazzurro, docente di tecnica delle costruzioni allo Iuss di Pavia, uno dei massimi esperti italiani – ma anche di volontà politica, ovvero di scelte su come spendere i soldi. Purtroppo scontiamo decenni di scarse azioni. Spesso anche le comunità locali fanno resistenza, temono effetti negativi sul turismo».
Per l’adeguamento degli edifici privati non ci sono obblighi di legge, solo gli incentivi fiscali del 65% per i Comuni inseriti nelle zone 1 e 2.
Per gli edifici definiti strategici gli obblighi invece ci sarebbero, «eppure – osserva il professor Bazzurro mentre nel pomeriggio torna dalla riunione della commissione Grandi rischi a Roma – in tutto l’epicentro non è rimasto più un edificio pubblico agibile.
L’ospedale è andato giù, le scuole pure, la caserma dei carabinieri è lesionata.
Ci sono programmi per intervenire, ma poi per attuarli di solito si aspetta la catastrofe. Dove è stato fatto, come a Norcia dopo il sisma del 1997, ha dimostrato la sua efficacia.
La forza del terremoto che l’altra notte ha colpito la cittadina umbra è stata solo di poco inferiore a quella di Arquata del Tronto. Quest’ultima è distrutta, mentre a Norcia non c’è stato un solo morto e credo neanche un ferito».
Cosa possiamo fare dunque per proteggere i vecchi edifici di cui l’Italia è piena?
«Se partiamo con l’idea di trasformare quelli in muratura raggiungendo livelli di sicurezza comparabili con gli edifici moderni costruiti con criteri antisismici, bisogna rassegnarci: non ci si arriverà mai. Ma sarebbe già un grande risultato renderli sicuri, fare cioè in modo che non collassino e che la gente non resti sotto».
E quanto costa?
«Si può fare con una spesa abbordabile, nell’ordine del 10 per cento di quello che costerebbe la ricostruzione».
«Gli antichi edifici in muratura – osserva ancora il professore pavese – stavano in piedi con catene, tiranti, morsature agli angoli, tetti in legno. Poi le catene sono state tolte, magari per ragioni estetiche, le finestre sono state ingrandite, sono state aggiunte porte, il tetto è stato rifatto in cemento armato che pesa di più. Risultato: l’edificio è diventato più vulnerabile».
Per migliorare la sicurezza può bastare poco, dalle semplici piastre per aggiungere vincoli, ad esempio tra pilastro e trave, alla posa di tendini d’acciaio all’aggiunta di elementi di rinforzo come archi o puntelli.
Per gli edifici in cemento armato si va dal rendere le colonne più resistenti con un «jacket», un cappotto di calcestruzzo o materiali compositi, all’isolamento alla base, cui si ricorre di solito per edifici più importanti come ospedali e che si può adottare anche per quelli esistenti, dopo averli «sollevati».
All’Aquila è stato impiegato diffusamente anche per i moduli abitativi del progetto Case. Soprattutto per gli edifici in acciaio si usano gli smorzatori o dissipatori sismici. Altre tecniche più complesse, come il cosiddetto «slosh tank», si utilizzano per edifici più alti come i grattacieli.
Gli strumenti a disposizione sono parecchi, per decidere quali adottare serve un’attenta analisi delle caratteristiche di ciascun edificio.
Certo, il problema è che sono centinaia di migliaia: «Ci vogliono tanti soldi – conclude il professor Bazzurro – ma sono comunque meno di quelli che spendiamo per ricostruire».
Claudio Bressani
(da “La Stampa”)
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Agosto 26th, 2016 Riccardo Fucile
“RICOSTRUIREMO LA CITTA’ CON LO STESSO VOLTO, LE CASE DISTRUTTE SONO 400, NON MIGLIAIA, MI FIDO DI ZINGARETTI”
Da quando ha pronunciato la frase “Amatrice non esiste più”, il sindaco Sergio Pirozzi, alla guida con una lista civica da sette anni di uno dei tanti piccoli comuni d’Italia, ex Alleanza Nazionale (“si, una volta, quando c’erano queste cose…”), di mestiere allenatore sportivo (“ragione per cui Renzi mi chiama Mister”) è diventato il volto globale della tragedia del suo paese, e dell’Italia.
Parla con tutti, fa conferenze stampa ogni volta che serve. Ma ha ancora molto molto da dire. L’aria è quella di chi per ora sta tranquillo. Ma basta prenderlo da solo, in un raro momento di pausa, per capire che, più che tranquillità , il suo è il controllo di chi sa che le energie non vanno sprecate, perchè la strada sarà molto lunga.
In sintonia con il resto dei suoi cittadini, il terzo giorno è anche per lui il momento in cui si contano i corpi, si tentano i primi bilanci, e si ammette l’inquietudine sul futuro. E il futuro è fatalmente la ricostruzione. “La città la voglio ricostruita qui, con la stessa estetica, lo stesso volto. La voglio proprio uguale, così come l’ha disegnata nel 1500 Cola Filotesio”.
Proprio così uguale, con lo stesso aspetto e stesse pietre? Decine di sindaci prima di Lei hanno giurato la stessa cosa e poi la promessa non è stata mantenuta dalle cose. L’Aquila è forse il caso più celebre, e certo il più vicino…
“Sarà che sono un sognatore” risponde, con una battuta, ma, tanto per essere sicuri, si infila in un pantheon politico “e come me la pensano Renzi, Delrio, Nicola (Zingaretti, il governatore del Lazio nda), Franceschini”.
Sarà . Ma il nome dell’Aquila, l’esempio di lunghi mesi di attesa per case mai arrivate, e di tante promesse disattese, è tuttavia l’ombra che si stende su ogni episodio di queste ore, su ogni scelta.
“Probabile, possibile. Ma io sono tranquillo”.
Ci sono condizioni qui molto diverse, argomenta. “All’Aquila c’erano sessantamila sfollati. Un campo infinito, una intera città . Qui invece nella disgrazia c’è una consolazione, ed è quella delle nostre piccole dimensioni: le case distrutte davvero sono soprattutto le 400 del centro. Amatrice è diffusa in ben 60 piccole frazioni, e il totale degli abitanti è di 2633, prima del terremoto, più i turisti dell’estate. I morti sono tanti per questa piccola cifra, ma le dimensioni si possono affrontare”.
Per questa ragione, è centrale per il sindaco che non si creino campi fuori dal paese, “ogni gruppo di sopravvissuti deve rimanere lì, vicino al proprio paese. Il rischio è che questa popolazione piuttosto anziana, una media di 49 anni, vada lentamente via”.
Ma anche così, in queste piccole dimensioni, il progetto di gestione ha bisogno di tempi certi, non le pare? E il calendario della ricostruzione è sicuramente il primo assillo nella mente di tutti coloro rimasti senza casa.
“Cinque mesi”, dice il sindaco.
Cinque mesi per cosa?
“Cinque mesi per la consegna delle case di legno con modello adatto alle temperature e alle condizioni di questa montagna alta”.
Cinque mesi significano che gli attuali sfollati saranno qui almeno fino a gennaio. In un clima molto rigido. Non una piacevole prospettiva.
“Infatti, ho già chiesto i sacchi a pelo”, dice con un filo di amarezza. “Ma mi hanno detto che questi sono i tempi minimi per realizzare l’opera”.
E i tempi per la ricostruzione delle case
“Io sognerei in un anno, ma sono un realista e mi accontento di due”, e stavolta il sorriso è proprio di sfida. “In ogni caso la ricostruzione sarà gestita da un commissario” che è molto probabilmente Zingaretti, “un uomo con cui dopo un epico scontro due anni fa sono in perfetto accordo”, precisa subito il Sindaco.
Pronto a requisire seconde case, visto che ce ne sono tante
“Molti di quelli che ne hanno le hanno già messe a disposizione. Ma se sarà necessario chiederne altre, non vedo problemi a farlo”.
Insomma, a voler riepilogare, a dispetto di tutta la sua energia, degli sforzi e delle poche ore di sonno, alla fine anche il Sindaco di Amatrice entra nella lunga fila di sindaci alle prese con grandi disgrazie, come tanti ne abbiamo conosciuti. Forti, seri, e gia’ un po’ disperati
Il ritratto non lo sconvolge. Gli provoca solo un abbassamento di tono di voce: “Io non ho perso nessuno di famiglia stretta, ma ho perso ogni singolo cittadino che è morto. Da giorni non trovo Gianni il panettiere, era il mio migliore amico, e l’unico che a quell’ora era già al lavoro”.
Come è possibile non trovarlo?
“Così. Semplicemente scaviamo e non si trova nulla, è li, lo sappiamo, ma è come svanito”.
O forse bisognerebbe dire una parola più forte, ma qui, quando la morte è così presente, le parole che si usano ridiventano rispettose, lievi.
Come lieve è l’accenno , che emerge dal flusso di parole, a quello che per ogni sindaco nei suoi panni deve essere il maggiore dei dubbi: poteva capire? Avrebbe dovuto sapere di più? fare di più
“Eppure io me ne sono occupato”, dice scuotendo la testa. “Abbiamo fatto tanto in questo paese: la scuola alberghiera che è qui davanti a noi era da riparare dal 2009, e vi abbiamo destinato I pochi fondi che sono arrivati”.
E gli errori sui fondi europei ?
“Si, c’è stato un errore di un nostro funzionario, che abbiamo sanzionato. Ma l’anno dopo la richiesta presentata da noi alla Protezione Civile non è comunque entrata nella lista dei progetti approvati e non per carenze di compilazione”.
Qualcosa però aveva capito il sindaco.
“Mesi fa abbiamo messo in moto la richiesta, che è stata discussa ufficialmente, di far rafforzare i ponti. Amatrice è circondata a valle da una rete di acque, tre fiumi e un lago, che compongono come un un cerchio intorno alla base della montagna su cui si trova. Sono gli stessi ponti che in queste ore sono stati chiusi perchè in pericolo di crollo”.
Qualcosa temeva allora
“Si ma non tutto questo… Per me il simbolo di questa disgrazia è Porta Carbonara, la porta medievale del XIII secolo che segna l’accesso della città . È il simbolo di Amatrice, è li da secoli, robusta, larga, ed è sopravvissuta senza danni a tanti terremoti che abbiamo subito… e stavolta è la prima cosa che ho visto la notte della prima scossa, ma stavolta non ce l’ha fatta…”
Mi pare che in questa storia della torre lei ricavi la lezione che alla fine non è possibile mettere in sicurezza alla fine tutto di questa fragile Italia…
Scuote la testa. “Non è possibile infatti…Impossibile”.
(da “Huffingtonpost”)
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Agosto 26th, 2016 Riccardo Fucile
SOSPESO IL PROVVEDIMENTO DEMENZIALE
Il Consiglio di stato francese si è pronunciato oggi contro il provvedimento anti-burkini di Villeneuve-Loubet, sulla Costa Azzurra, uno dei circa 30 comuni francesi che avevano vietato di indossare sulle spiagge il costume integrale islamico.
La misura era stata contestata dalla Lega dei diritti dell’uomo e dal Collettivo contro l’islamofobia in Francia e al centro di un dibattito che ha superato i confini del Paese.
Il divieto, di cui per primi si sono fatti promotori alcuni sindaci di destra della Costa Azzura (a partire da quello di Cannes), era stato difeso anche dal primo ministro Manuel Valls, che il 17 agosto ha dichiarato questo tipo di abbigliamento «incompatibile con i valori della Francia e della Repubblica», perchè «è la traduzione di un progetto politico, di contro società , basata in particolare sull’asservimento della donna».
Ieri, invece, era stato l’ex Presidente Nicolas Sarkozy a difendere il divieto e dichiarare di essere intenzionato a estenderlo a tutta la Francia qualora dovesse tornare all’Eliseo dopo le elezioni del 2017.
Entrambi, oltre ai sindaci direttamente chiamati in causa, dovranno fare i conti con il Consiglio di Stato Valori, la cui decisione getta più di qualche ombra sulla legittimità del provvedimento da un punto di vista giuridico.
I difensori del divieto, infatti, si sono appellati alla norma che impone ai cittadini di non esporre simboli religiosi nei luoghi pubblici (divieto legato ai soli uffici pubblici) e di lasciare il volto sempre scoperto e riconoscibile (il burkini, nonostante il nome che può creare qualche confusione, non copre il volto di chi lo indossa).
Intanto, a Londra e in Germania si registrano le prime manifestazioni di fronte alle sedi diplomatiche francesi.
Nelle capitali inglese e tedesca la protesta ha preso la forma ironica di un «beach party» con decine di persone in costume da bagno, con maschera e boccaglio, teli da spiaggia e pistole ad acqua che hanno dimostrato contro quella che viene considerata una misura razzista.
Altri beach party di protesta sono stati organizzati in altre città tedesche come Amburgo, Francoforte e Dusseldorf.
Il governo tedesco, dal canto suo, ha assicurato che non sta valutando un eventuale divieto del burkini.
Lo ha confermato un portavoce del ministero dell’Interno, spiegando che il ministro Thomas de Maiziere sta valutando restrizioni all’uso del velo integrale (burka o nicab).
Francesco Zaffarano
(da “La Stampa”)
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Agosto 26th, 2016 Riccardo Fucile
A CITTAREALE IMPEGNATI DECINE DI MIGRANTI A SCAVARE NELLE MACERIE
Lavorano in silenzio.
Non hanno voglia di parlare, impegnati da ore nella macchina dei soccorsi messa su dai volontari del comune di Cittareale, in provincia di Rieti.
Qui si trova uno dei centri logistici, dove arrivano gli aiuti per le zone colpite duramente dal sisma del 24 agosto. Sono giovani rifugiati politici.
Tra loro incontriamo Samiullah, 18 anni, afgano, in Italia da 10 mesi. Vive nella frazione di Marianitto e si è mobilitato da subito con gli operai del comune. Ramazan, invece, è turco. Non parla bene l’italiano, ma conosce la lingua della solidarietà .
I migranti fanno parte del progetto SPRAR, il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati attivo dal 2008 e – si legge sul sito ufficiale del comune – finanziato dal Fondo Nazionale per le politiche e i servizi dell’Asilo previsto dalla legge 189/2002.
Ezio D’Ippolito, operaio del Comune, coordina i lavori.
Volontari italiani e stranieri insieme per far ripartire Amatrice e i comuni distrutti dal terremoto.
Italiani e stranieri che lavorano fianco a fianco in nome della solidarietà , mentre i razzisti stanno in pantofole davanti alla Tv o su internet a seminare il loro odio da malati psichici.
(da agenzie)
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Agosto 26th, 2016 Riccardo Fucile
LA RABBIA DI UNA SOPRAVVISSUTA: “VERGOGNATEVI, HANNO SCAVATO NELLA NOTTE INSIEME A NOI E HANNO AVUTO I LORO MORTI, SONO PARTE DELLA NOSTRA COMUNITA'”
“Uno che scappa dalla guerra lo senti un po’ un tuo simile”….”non esistono i “noi” e “loro””.
Dopo le polemiche sulle assurde frasi rilanciate su Facebook che invitavano a cacciare i rifugiati dagli alberghi per metterci i terremotati una residente di Amatrice, Francesca Spada, scrive tutta la sua rabbia sul social contro quelle folli proposte.
Il suo post, condiviso più di 20mila volte, appare come una risposta chiara da parte degli amatriciani alla polemica nata su Facebook.
“La mia casa di Amatrice è inagibile. Non è la mia prima casa quindi un posto dove andare ce l’ho. Ma posso assicurare che a NESSUN amatriciano sentirete dire che bisogna cacciare gli immigrati dagli alberghi per metterci i terremotati.
Primo perchè per chi ha vissuto un dramma così la solidarietà è un sentimento molto forte – specie se sei vivo solo grazie a chi ti ha aiutato. E uno che scappa dalla guerra lo senti un po’ un tuo simile.
Secondo, perchè a Amatrice era ospitato un gruppo di richiedenti asilo, a cui tutti si erano affezionati – sì, si possono percepire gli immigrati come parte della comunità .
E perchè l’altra notte erano anche loro a scavare, e perchè anche qualcuno di loro sta sotto le macerie
Quindi grazie lo stesso, e accoglienza per TUTTI quelli che ne hanno bisogno, senza ‘noi’ e ‘loro’.
(da “Huffingtonpost”)
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Agosto 26th, 2016 Riccardo Fucile
LA LEGGE ESCLUDE DAI FINANZIAMENTI LE SECONDE CASE… E UNA DISTRAZIONE HA PENALIZZATO CHI AVEVA PRESENTATO LA DOMANDA
Un dirigente distratto, che si dimentica di inviare in tempo l’elenco dei (pochi) che hanno deciso di mettere in sicurezza la casa.
Una legge sbagliata che esclude dai finanziamenti le seconde abitazioni, e quindi il 70 per cento di Amatrice.
Gli edifici pubblici che si sbriciolano: la scuola elementare Capranica, il Municipio, un intero ospedale chiuso nel momento in cui più servirebbe, il ponte di Retrosi che si lesiona.
Potevano piovere un paio di milioni di euro per consolidare le case fragili, in questa terra. Invece negli ultimi sette anni sono arrivati gli spiccioli. Poco più di 200 mila euro.
Quando sarà terminata la conta e l’identificazione dei morti, l’inchiesta per disastro colposo aperta dal procuratore capo di Rieti Giuseppe Saieva, dovrà accertare le responsabilità .
Un responsabile, però, già si intravede. La burocrazia. La solita vischiosa burocrazia che in Italia impedisce di usufruire a pieno, e rapidamente, dei contributi che lo Stato eroga dopo ogni calamità . E così, a catastrofe segue catastrofe. In una prassi che non impara mai da sè stessa.
Subito dopo il terremoto dell’Aquila, i comuni di Amatrice e Accumoli furono classificati “categoria 1”, cioè massimo rischio sismico.
L’allora governo Berlusconi stanziò quasi un miliardo da utilizzare entro il 2016 per le zone rosse: i soldi sono gestiti dalla Protezione civile, l’assegnazione ai comuni passa attraverso una graduatoria regionale.
A cosa dovevano servire? Ad esempio a dare contributi ai privati cittadini per sistemare le loro case e renderle più sicure.
Lo Stato garantisce da 100 a 200 euro al metro quadrato, per piccoli interventi di consolidamento. Non sono la soluzione finale, ma sicuramente possono limitare i danni durante le scosse più forti e salvare vite.
Ora, Amatrice ha un centro storico con edifici e appartamenti che risalgono al Settecento. E se in estate la sua popolazione supera le 15mila persone, per l’ufficio anagrafe i residenti effettivi non sono più di 2.750.
Quasi tutte le abitazioni private sono seconde case, dunque. Si riempiono d’agosto, restano vuote il resto dell’anno.
A rigor di logica, Amatrice avrebbe dovuto beneficiare di una buona fetta dei 10 milioni destinati al Lazio per i suoi 61 comuni dell’Appennino a rischio sismico. Invece, nei primi due-tre anni, da queste parti non si è visto un euro. Anzi, i bandi non furono nemmeno resi pubblici.
L’ex capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, fece un tour nel reatino proprio per promuovere la misura, perchè nessuno pareva sensibilizzare i cittadini su questa opportunità .
In seguito ad Amatrice è accaduto anche che un dirigente poco solerte abbia spedito a Roma le richieste dei suoi cittadini quando ormai erano scaduti i tempi di consegna, facendo perdere così ogni diritto ai finanziamenti a chi (meno di dieci persone) che aveva fatto domanda.
Un caso emblematico di come fosse stata presa seriamente l’opportunità del consolidamento antisismico.
Ma c’è un altro motivo per cui fino ad oggi dei 10 milioni assegnati al Lazio ne sono stati spesi appena tre.
E ancora una volta, torna la manina della burocrazia più cieca.
La Regione Lazio, infatti, ha inserito tra i requisiti per accedere ai fondi, la “residenza”, e non la semplice proprietà della casa come invece prevede l’ordinanza della Protezione civile.
Risultato: su 1342 domande presentate per il 2013-2014 alla regione, ne sono state accolte soltanto 191. Undici ad Amatrice per un totale di 124.700 euro, e sette appena ad Accumoli per 86.400.
Diciotto piccoli interventi sull’ordine dei 10-15 mila euro per diciotto case. Pochissimo.
Non solo: da un primo accertamento sembrerebbe che parte di questi soldi non siano stati ancora liquidati, a causa problemi della Regione con la legge di stabilità .
E siccome gli intoppi non finiscono mai, negli ultimi due anni l’erogazione si è bloccata del tutto. Anci e Protezione civile nei mesi scorsi hanno per questo convocato un tavolo (che già si è riunito tre volte) per commissariare in qualche maniera le regioni e cercare di velocizzare le faticosissime procedure.
Ma il miliardo di euro del post sisma dell’Aquila era destinato anche ad opere strategiche (ponti, scuole, ospedali) dei comuni in zona rossa. Al primo bando in tal senso aveva risposto il comune di Accumoli. Un piano è stato anche realizzato ma, evidentemente, non è stato poi così efficace.
Il Lazio è riuscito a finanziare cinque ponti per adeguarli al rischio sismico. Uno si trova proprio in una frazione di Amatrice (gli altri sono a Cantalice, Castelnuovo di Farfa, Contigliano e Rieti). Al “ponte Rosa”, località Retrosi, vanno ad aprile del 2014 170mila euro. Teoricamente è viabilità di competenza della provincia, ma non si ricordano di interventi di consolidamento effettivamente fatti.
Il ponte, che si trova su un arteria di alto passaggio, ha tremato come il resto del paese martedì notte, e si è lesionato in alcune parti.
Dove sono finiti quei soldi?
(da “La Repubblica”)
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