Agosto 17th, 2016 Riccardo Fucile
LA COMPAGNIA PREVEDE L’ANNO PROSSIMO DI ARRIVARE A 117 MILIONI DI PASSEGGERI
Ryanair farà nel 2017 il suo più grande investimento di sempre in Italia.
Lo ha annunciato il ceo della compagnia, Michael O’Leary, in una conferenza stampa con il ministro dei trasporti, Graziano Delrio.
Il piano prevede l’allocazione di 10 nuovi aeromobili sul mercato italiano, pari ad un investimento di 1 miliardo di dollari, ha spiegato O’Leary, precisando che si tratta di un investimento totalmente nuovo: quel miliardo di dollari era precedentemente destinato a Spagna, Polonia e Grecia ed è stato ora spostato sull’Italia.
C’è poi l’apertura di 44 nuove rotte, di cui 21 presso gli aeroporti di Roma e Milano e 23 presso gli scali regionali.
«Inoltre cresceremo di 3 milioni di passeggeri, passando dai 32 milioni del 2016 a 35 milioni nel 2017», ha detto O’Leary: «Questi numeri – ha aggiunto – genereranno 2.250 posti di lavoro presso gli aeroporti italiani».
«Oggi annunciamo buone notizie, un grosso Piano di sviluppo per l’Italia per il 2017, in risposta alla decisione del Governo Renzi di annullare l’incremento della tassa municipale e all’eccellente lavoro del ministro Delrio» con le linee guida aeroportuali ora allineate alla normativa europea.
«Il ministro Delrio ha sfidato le compagnie aeree a presentare dei Piani di sviluppo e noi abbiamo raccolto la sfida», ha aggiunto O’Leary.
Ryanair inoltre prevede l’anno prossimo di arrivare a 117 milioni di passeggeri su tutto il proprio network, ha annunciato O’Leary.
Il numero uno di Ryanair, interpellato sugli effetti della Brexit, ha detto che «è ancora troppo presto per fare delle considerazioni sugli impatti sul business dalla Brexit». «Non investiamo in Italia per colpa della Brexit – ha puntualizzato – ma perchè crediamo nel mercato italiano, che è un mercato che ci dà la possibilità di operare in maniera più efficiente e più efficace».
(da agenzie)
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Agosto 17th, 2016 Riccardo Fucile
I RISCHI TRUFFA AL RISTORANTE: DALLE FINTE CERNIE DEL MEKONG AL POLPO VIETNAMITA SPACCIATO PER NOSTRANO
Da Trieste a Bari, pesca chiusa in quasi tutto l’Adriatico. Almeno fino al 5 settembre, quando il fermo biologico per le flotte italiane cesserà nel tratto tra il Friuli e Pesaro. Mentre proseguirà fino al 26 settembre tra le Marche e il capoluogo pugliese. Sovrapponendosi, dal 17 del mese prossimo, allo stop dei pescherecci da Brindisi in giù, che interesserà , fino al 16 ottobre, anche lo Ionio e il Tirreno.
Sicilia e Sardegna, invece, decideranno autonomamente quando accendere il semaforo rosso per le imbarcazioni che resteranno ancorate in porto per 30 giorni.
Uno stop periodico e sacrosanto che dal 1985 interessa tutti i Paesi membri dell’Unione europea. Per consentire il ripopolamento delle specie ittiche.
Un sacrificio di un mese per consentire agli europei di mettere in tavola pesce di alta qualità per gli anni a venire.
E che, a ben vedere, neppure Coldiretti, che ieri ha dato la notizia del blocco, mette in discussione.
Obiettando, semmai, sulle modalità del fermo. «Il problema è che questa misura ha funzionato solo per quelle specie che hanno il loro picco riproduttivo nel periodo estivo come la triglia, la gallinella e la sogliola – spiega Tonino Giardini, presidente di Impresa Pesca -. Scampi e pesce azzurro, invece, si riproducono in altri periodi dell’anno, per questo sarebbe più utile chiudere le aree a macchia di leopardo, un po’ come si fa per la caccia».
La controindicazione del fermo biologico sta nel rischio che, con i pescherecci italiani ancorati nei porti, aumenti l’import dall’estero di prodotti ittici.
Import che nel primo quadrimestre del 2016 ha fatto segnare un incremento del 3% rispetto allo stesso periodo del 2015.
Quando, complessivamente, l’Italia ha importato 769 milioni di chili, dei quali il 40% proveniente da Paesi extracomunitari.
Senza contare che, nel Mediterraneo, mentre le flotte italiane si fermano, quelle egiziane, libiche, turche e tunisine continuano a lavorare a pieno regime, erodendo quote di mercato
Specie taroccate
La domanda è: da dove arriva il pesce che finisce sulle nostre tavole e su quelle dei nostri ristoranti?
La truffa, specie nel periodo di blocco, è dietro l’angolo.
Dal pangasio del Mekong venduto come cernia al filetto di brosme spacciato per baccalà .
Dall’halibut e la lenguata senegalese commercializzati come sogliola al polpo del Vietnam prezzato come nostrano.
Dallo squalo smeriglio venduto come pesce spada, al pesce ghiaccio spacciato per bianchetto.
Dal pagro servito come dentice rosa alle vongole turche e i gamberetti cinesi e argentini.
O, peggio, del Vietnam, dove è permesso il trattamento antibiotico rigorosamente vietato in Europa. E se mercati e pescherie hanno l’obbligo di rendere conoscibile la provenienza dei prodotti, lo stesso vincolo non vale per i ristoranti.
Quest’anno arriveranno dal fondo Feamp 14 milioni di euro (uno in meno del 2015) da ripartire, a titolo compensativo, tra le imprese ittiche interessate dal blocco.
Risorse che dal 2017, per i prossimi sei anni, si ridurranno a 6 milioni l’anno.
Meno della metà . Una bella grana per i pescatori.
(da “La Stampa”)
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Agosto 17th, 2016 Riccardo Fucile
DA GIUGNO 30 VITTIME… GLI ESPERTI: “MANCA LA PERCEZIONE DEL RISCHIO”… E POI BISOGNA PURE ANDARLI A SALVARE
Duemila metri. Altitudine che nelle Alpi è limite di percezione: di lì alle vette la natura apre dimensioni inattese.
È sensazione di orizzonte improvviso in cui si mescolano visioni di un ambiente selvaggio, fatto di boschi che cedono a pascoli, morene e ghiacci, di vette che modellano il cielo.
L’avventura – si direbbe – è in agguato. E con i numeri di appassionati in aumento, la legge statistica trascina con sè un incremento di incidenti, a volte mortali.
L’estate 2016, con una serie ripetitiva di cieli blu, e con giorni d’afa nelle città , ha richiamato sull’arco alpino dal 5 al 10 per cento in più di «cercatori di vette».
Da salire o soltanto da vedere dai sentieri.
Alpinisti o escursionisti che hanno in comune, sovente, «una errata percezione di dove sono», dice Nives Meroi, hymalaista (13 Ottomila su 14 saliti).
«Capita sulle nostre Alpi – ricorda – di vedere scene sorprendenti, al pari di quelle cui ho assistito in Himalaya. Nei campi base le guide delle spedizioni commerciali insegnano ai loro clienti come si usano i ramponi, poi vanno sull’Everest. E nelle nostre valli molti affrontano sentieri, morene o ghiacciai con attrezzature inadatte». Un episodio le viene in mente: «Eravamo al Manaslu e stavamo scendendo quando siamo capitati in una incredibile coda. Gli alpinisti aspettavano di poter assicurarsi alla corda fissa perchè uno di loro non sapeva come farlo e la guida glielo stava insegnando. Siamo passati a lato e via. Fermarsi è sempre un grave rischio».
Dal 15 luglio a ieri sono venti le vittime della montagna, salgono a 30 (16 in Piemonte) se si considera anche giugno.
Fra loro molti escursionisti.
«C’è da meravigliarsi – dicono all’Aiut Alpin di Bolzano – che non siano di più visto l’incremento di frequentatori. Sulle ferrate, come al Saas Rigais o alla Tridentina ci sono le code».
Così come i numeri delle scalate al Cervino fanno sensazione, cento persone in parete ogni giorno. Lo sorso anno in pochissimi hanno raggiunto la vetta.
Colpa delle nevicate e del gelo che non hanno lasciato la roccia della montagna. E, come paradosso, in quest’estate di beltempo, una bufera di neve quasi invernale, ha assiderato due alpinisti inglesi, non equipaggiati per la notte in parete.
«Le regole disattese – dice Adriano Favre, capo del soccorso alpino valdostano – sono la maggior causa di incidenti e morti. Alpinisti che procedono non in cordata sui ghiacciai, calzature inadatte, orari sballati. Non è pensabile continuare a salire quando si è affaticati o in ritardo di ore rispetto alla normale progressione. Manca la cultura della rinuncia, forse perchè non si comprende quanto possa essere pericoloso trovarsi a trascorrere una notte all’addiaccio o affrontare un’ondata di maltempo ad alta quota».
La tecnologia salva molte vite. L’uso del telefonino e la possibilità di essere localizzati grazie alla centrale del soccorso di Torino che mette in contatto con un sms tutta Italia.
«Ma bisogna affrontare la montagna come se non ci fossero queste possibilità – dice ancora Favre -. Bisogna essere preparati. In questo ultimo mese siamo intervenuti per recuperare con l’elicottero persone illese, ma sfinite sulle grandi vie, dal Bianco al Cervino. Errori di valutazione, mancanza di adeguata preparazione. Il pericolo è altissimo, se in quel caso ci fosse un rapido cambiamento delle condizioni meteo le possibilità di sopravvivere sarebbero ridotte di parecchio. E il nostro intervento sarebbe molto complicato».
È quanto accaduto al Cervino con i due alpinisti inglesi.
Il buon senso, avere l’intelligenza di rivolgersi ai professionisti della montagna offre, oltre i fatidici 2000 metri, consapevolezza.
«La montagna è natura, non ragiona per noi», dice Favre.
(da “La Stampa”)
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Agosto 17th, 2016 Riccardo Fucile
GLI SPAGNOLI ACCUSANO: “NON SIAMO UNA VOSTRA COLONIA, BASTA ITALIANI UBRIACHI TUTTE LE SERE”
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è in realtà un razzo.
Lo ha sparato un italiano da uno yacht in rada davanti all’isolotto di Espalmador, forse l’angolo più suggestivo di Formentera, provocando un incendio che ha sconvolto tutti e riacceso un’antipatia antica verso i nostri connazionali.
Questo lembo di terra è andato a fuoco in un attimo e ci sono volute molte ore per spegnerlo.
Il responsabile del rogo si chiama Roberto P., italiano, 43 anni, che è stato arrestato e rilasciato su cauzione dopo un giorno e mezzo di detenzione.
Sulla dinamica c’è ancora molto incertezza, la linea della difesa la spiega il suo avvocato, Daniele Mundula: «Stavano facendo un corso sulle misure di sicurezza a bordo con il comandante e accidentalmente è partito uno dei razzi di segnalazione». Gli inquirenti spagnoli non ci credono: «Esercitazioni alle dieci di sera, alla fine del secondo giorno di navigazione?».
I danni andranno quantificati, nel frattempo lo yacht con bandiera slovena è stato sequestrato.
L’incendio di Espalmador è stato spento, il risentimento verso gli italiani arde. Formentera in poco tempo è diventata una vera e propria colonia.
I nostri connazionali rappresentano circa il 70% dei turisti che ogni estate occupa l’isola delle Baleari, stessa percentuale tra i proprietari delle attività economiche più redditizie, ristoranti e bar.
Le masse italiche sono composite, ci sono i vip, i calciatori, anonimi ricchi che affittano ville.
Fauna storica, alla quale ultimamente si sono aggiunte carovane di giovani stipati in condomini della brutta località di Es Pujols.
Affari per tutti, ovviamente, ma anche preoccupazione per gli effetti di queste ondate. «Questa non è Ibiza»
Il rifugio hippy di un tempo sta diventando un’altra cosa. «L’hanno deformata, questa non è Ibiza», dice Alessandro Mancini, romano, uno dei massimi conoscitori dell’isola.
Gli italiani, è analisi condivisa, sono i responsabili di questa mutazione e l’antipatia diffusa tra i locali è sempre meno nascosta.
«Girano ubriachi dalle nove di sera in poi con i motorini – racconta un commerciante di Formentera -, distruggono le dune con i loro aperitivi e ora questa storia del bengala: so che non siete tutti così, ma in giro c’è parecchia irritazione».
L’altra faccia della medaglia la racconta Bruno Bortot, torinese d’adozione, che a Formentera ha aperto locali leggendari, come il Big Sur e il Banana’s ( «ma li ho dovuti chiudere, hanno vinto loro»).
Bortot racconta di pressioni continue, «frutto di invidia per il successo». Un errore, però, «noi italiani l’abbiamo commesso: trattiamo quest’isola come se fosse nostra».
Francesco Olivo
(da “La Stampa”)
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Agosto 17th, 2016 Riccardo Fucile
I GENI DELLA POLITICA INTOLLERANTE NON A CASO SONO MASCHI COMPLESSATI CHE NON SI SCANDALIZZANO PER I CULI DI FUORI DELLA “CIVILTA’ OCCIDENTALE”
Su Google alla voce “burkini” vengono fuori una serie infinita di belle modelle vestite con indumenti coloratissimi o neri, a mezza gamba o coperti, con o senza velo, insomma la stessa varietà che con bikini o costumi interi.
Altre foto mostrano ragazze e donne in burkini in simpatica chiacchiera con donne in bikini.
Personalmente, sono contraria a questa specie di crociata e di proibizione per le donne (attenzione qui non si parla delle pelandrane degli uomini) di andare in spiaggia con il burkini in alcune località francesi e che alcuni geni della politica nostrani hanno subito ripreso.
Non mi pare una battaglia di laicità e tantomeno di libertà e non è un caso che “l’assalto” sia portato da uomini.
L’effetto è ovviamente quello di concentrare l’attenzione e la disapprovazione pubblica in quello che potrebbe anche semplicemente essere una volontà di rispettare i propri canoni di decenza e di starsene tranquillamente in spiaggia o fare il bagno.
Come dice giustamente un intellettuale francese, questo tipo di interdizioni non favoriscono il dialogo e l’evoluzione dentro le comunità ma irrigidiscono le posizioni in modo inutile.
E tra l’altro, molte persone più anziane di noi e italianissime erano assolutamente scandalizzate alla vista dei bikini non molto tempo fa.
Da donna e femminista, così come sono assolutamente convinta che le norme che impediscono di girare con un casco in testa o a volto coperto siano più che sufficienti a impedire a chicchessia di girare con il velo integrale e che questo divieto debba essere applicato con molta più convinzione e senza compromessi; cosi come penso che siano da impedire tutti i tentativi di organizzare corsi separati per le ragazze e i ragazzi nelle scuole o orari separati nelle piscine; cosi come credo che ci debba essere molta più attenzione ai fenomeni di isolamento e repressione delle ragazze e donne musulmane nelle nostre città , cosi credo che intervenire vietando il burkini nelle spiagge sia un inutile atto di intolleranza.
Nella quale sono gli uomini a distinguersi, tanto per cambiare.
Monica Frassoni
(da “Huffingtonpost”)
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Agosto 17th, 2016 Riccardo Fucile
IL DOCENTE DI ESTETICA: “E’ COSA BEN DIVERSA DAL BURKA, IN NOME DELLA LAICITA’ SI RISCHIA DI ESSERE TUTT’ALTRO CHE LAICI”… “E’ UNA MODA E UNA LIBERA SCELTA INDIVIDUALE, NON VEDO PERCHE’ VIETARLO”
Non ostentano il proprio corpo, anzi. Esibiscono il pudore: coprono tutto tranne il viso, le mani e i piedi. Ostentano però “la religione, minacciano l’ordine pubblico e non sono conformi ai principi di laicità “.
Con questa motivazione, alcuni sindaci francesi a cominciare da quello di Cannes (30 chilometri da Nizza, luogo dell’attentato di un mese fa) hanno vietato alle donne in spiaggia il “burkini”, il costume integrale che indossano alcune musulmane.
Fioccano le prime multe e la Francia si spacca.
Una guerra di simboli di cui parliamo con un esteta: il professore parigino Bruno-Nassim Aboudrar, autore di Come il velo è diventato musulmano (Cortina ed.).
Il burkini “incita all’estremismo e viola la laicità ” o il vero gesto estremo è vietarlo?
“In nome della laicità , si rischia di essere tutt’altro che laici. Nel timore dell’estremismo, si rischia di fomentare l’islamofobia”.
In Corsica, a Sisco, il divieto è arrivato dopo violente tensioni. Il clima è surriscaldato? La scelta è giusta?
“Dopo gli attentati il rischio di tensioni è forte e proprio per questo bisogna affrontare la situazione in modo previdente. Non fomentando l’islamofobia, ma al contrario dialogando. Vietare il burkini in modo sistematico, severo e intollerante: questa sì, che è una strada certa per provocare l’estremismo. Non condivido la scelta del divieto e trovo anche grottesco che la Francia si divida così ferocemente su un capo d’abbigliamento “.
La ministra socialista Laurence Rossignol, che ha la delega ai diritti delle donne, dice che il burkini è come il burqa: “Va combattuto, è arcaico”, nasconde il corpo delle donne per esprimere il dominio maschile. È così?
“Il riferimento al burqa non è casuale, in questa faccenda: nel 2010 la Francia lo ha vietato, con il benestare della Corte di Strasburgo. Ma burqa e burkini non sono affatto assimilabili. Non possiamo paragonare gli obblighi di coprirsi alla scelta di farlo. Il burkini è una moda, si è diffuso di recente e lascia il volto scoperto. Inoltre, senza negare le pressioni sociali, sono convinto che le donne che lo indossano lo facciano per moda e per libera scelta individuale e penso che debbano poterlo portare se vogliono”.
Niente bando, quindi? Burkini libero
“Le associazioni per la laicità e le comunità musulmane che si stanno opponendo al divieto hanno le loro buone ragioni. Ma come studioso di estetica, un appunto devo farlo. Penso che scegliere di indossare quel costume sia un atto aggressivo: di questo, dovremmo discutere”.
Una violenza simbolica? Cosa intende?
“Noi francesi, dopo aver colonizzato paesi come l’Algeria, abbiamo operato per decenni una sorta di rimozione storica verso i musulmani francesi. Eppure rappresentano la seconda religione di Francia. Una donna che indossa il burkini sta dicendo: “Questa è la mia identità , questa è la mia religione”. Un modo forte e socialmente aggressivo di costringerci a prenderne atto”.
Se un’atea decidesse di coprirsi in spiaggia per affermare una qualche identità , compirebbe allo stesso modo un atto socialmente aggressivo?
“Non avrebbe lo stesso impatto sociale”.
L’atleta egiziana di beach volley che alle Olimpiadi ha indossato una tuta simile al burkini, fronteggiando la sua avversaria in bikini succinto, stava compiendo un gesto “di impatto sociale”?
“Sì, ma allo stesso modo della atleta in bikini. In quel contesto, ogni nazione usa i propri costumi. Il valore di quel gesto è più che altro folkloristico”.
Insomma nell’era dello “hijab day”, dell’orgoglio del velo, coprirsi non esprime più l’oppressione sulla donna?
“Non sempre. Nelle società patriarcali e negli Stati in cui il velo viene imposto, sì. Ma sulle spiagge francesi, ad esempio, può essere l’affermazione di una libera scelta”.
(da “La Repubblica”)
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Agosto 17th, 2016 Riccardo Fucile
A VALENZANO INVECE DELL’INCHINO SIAMO ARRIVATI ALLO SPONSOR “AEREO”
Una mongolfiera colorata durante i festeggiamenti per san Rocco. Con un messaggio particolare.
Sul pallone aerostatico lanciato in cielo c’è la firma della famiglia Buscemi. Un cognome legato alla criminalità organizzata.
A Valenzano, 18mila abitanti alle porte di Bari, il nome Buscemi, originario della Sicilia, è collegato al clan Stramaglia-Parisi. A denunciare l’accaduto è il deputato pd Dario Ginefra attraverso il proprio profilo Facebook.
“A Valenzano c’è stata la festa patronale. La famiglia Buscemi ha fatto mettere un messaggio con dedica sulla mongolfiera che viene lanciata, tradizionalmente, in occasione della conclusione dei festeggiamenti del 16. Si tratta di una sponsorizzazione da parte del clan omonimo?”, si chiede il parlamentare dem.
Che aggiunge: “Ho rivolto un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno, ma mi auguro che i media locali e nazionali diano evidenza a un episodio che, se confermato, rappresenterebbe una grave manifestazione che spero trovi l’immediata, sia pur tardiva, presa di distanza delle autorità religiose e civili locali”.
I carabinieri della stazione di Valenzano, dopo aver acquisito la fotografia pubblicata sui social, si sono recati al Comune per capire i meccanismi di sponsorizzazione della mongolfiera e valutare quanto accaduto e denunciato dal deputato.
(da “La Repubblica”)
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Agosto 17th, 2016 Riccardo Fucile
IL GIOVANE DI 13 ANNI ARRIVATO DA SOLO DALL’EGITTO: IL FRATELLO DI 7 ANNI HA UNA GRAVE MALATTIA DEL SANGUE
Ahmed, 13 anni, è arrivato da solo in Italia, partendo dall’Egitto, per cercare un medico che curi il suo fratello piccolo da una grave malattia al sangue.
La traversata quasi eroica di questo bambino è raccontata in un articolo del Corriere della sera
Per approdare a Lampedusa è partito dal delta del Nilo, da Rashid Kafr El Sheikh, lasciando papà , mamma, la sorellina e due fratelli in una polverosa casbah a 130 chilometri dal Cairo. Da solo. Nascosto in un carro di animali. A tredici anni. Controllando in continuazione la gualcita fotocopia di un certificato medico protetto da un sacchetto di plastica. Come fosse un tesoro.
Ragione assoluta per un calvario con un unico obiettivo, come racconta Ahmed, questo piccolo, smilzo e spaventato eroe dagli occhi umidi di commozione: «I miei genitori, i miei zii, tutta la famiglia mi hanno fatto partire per trovare in Sicilia, in Italia, in Europa un ospedale, dei medici disposti a curare e operare il più piccolo dei miei fratelli, Farid, sette anni, da tre colpito da una malattia del sangue, da una…».
Ed estrae la fotocopia con la storia di una creatura affetta da una gravissima piastrinopenia, un malanno provocato da una riduzione nella produzione midollare di megacariociti, come scrivono i medici egiziani che hanno tentato una prima operazione e che per un altro necessario intervento – forse una splenectomia, l’asportazione della milza – chiedono cinquantamila lire egiziane a una famiglia di contadini senza risorse perchè, quando il raccolto va bene, ne guadagna tremila in un anno.
«Il mio sogno è vedere mio fratello giocare senza sentirsi male, giocare con me a calcio e correre insieme senza aver paura che svenga perchè non riesce a stare molto in piedi…», racconta Ahmed.
Sconvolto da quello che definisce «il dolore più grande che abbia mai provato». E ricorda: «È stato terribile vedere dimettere mio fratello dall’ospedale perchè mio padre non aveva i soldi per pagare le cure e per l’operazione».
Ecco la ragione del calvario di questo minore passato dalla posta del carro bestiame alla carretta del mare approdata a Lampedusa.
Una Via Crucis con sosta obbligata in un capannone della spiaggia di Baltim dove Ahmed, non lontano da Alessandria d’Egitto, ha continuato a nascondersi mentre trafficanti e scafisti picchiavano i suoi compagni di viaggio, come sussurra timoroso: «Alcuni derubavano gli uomini, altri afferravano giovani donne trascinate in un magazzino da dove tornavano in lacrime prima della partenza sul barcone… Pensavo di morire in mare. Nè cibo nè acqua. Soltanto un sorso di acqua a persona al giorno…».
(da “Huffingtonpost“)
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Agosto 17th, 2016 Riccardo Fucile
“CI HANNO CHIESTO DI PARTECIPARE A DIBATTITI CHE NULLA HANNO A CHE FARE CON IL REFERENDUM”
Dopo settimane di schermaglie, attacchi e tentativi di corteggiamento andati a vuoto, è sul terreno della Festa dell’Unità di Bologna che si consuma l’ultimo strappo tra il Pd e l’Anpi.
Con la rottura di una tradizione consolidata, mai messa in discussione: la presenza dei partigiani tra gli stand della festa provinciale.
Come ogni anno, infatti, l’associazione ha ricevuto l’invito per la partecipazione alla manifestazione democratica.
Questa volta però con delle regole ben precise: niente banchetti e volantini per il “no” al referendum sulla riforma costituzionale voluta da Renzi.
“Ma se non possiamo esprimerci, la nostra presenza è inutile, diserteremo l’iniziativa” è la risposta di Anna Cocchi, presidente dell’Anpi bolognese.
Un rifiuto che rischia di logorare i rapporti già tesi tra Anpi e Pd, dopo le parole della ministra Boschi sui “partigiani veri” e i paragoni con Casapound, e, più recentemente, la polemica sull’esclusione dell’Anpi dalle celebrazioni dell’11 agosto, anniversario della liberazione di Firenze dall’occupazione nazifascista
Di sicuro le premesse per uno scontro sulla Festa c’erano tutte.
Per mesi, infatti, l’Anpi bolognese ha ribadito la volontà di seguire la linea nazionale, senza tentennamenti, e quindi di portare avanti la battaglia per il no anche sotto il cielo della festa Pd. Costi quel che costi.
Dall’altra parte, il Pd ha comunque deciso di mandare l’invito, mettendo però dei paletti. “Ci hanno detto che non possiamo fare campagna nel nostro banchetto, e nemmeno distribuire volantini e materiale per il no — spiega Cocchi — ma così la nostra presenza è inutile. Non credo che parteciperemo. Del resto non siamo stati chiamati nemmeno alle altre feste in giro per il territorio”
La decisione definitiva sarà presa tra il 21 e il 22 agosto, quando Cocchi convocherà la presidenza. “Insieme all’invito, ci hanno chiesto di partecipare anche a eventuali dibattiti. Tutti incontri su temi che, seppur di grande importanza, non hanno nulla a che fare con il referendum. Mentre la difesa della Costituzione è proprio quello che ci sta a cuore in questa fase”.
All’apertura della festa bolognese, una delle più importanti, mancano meno di dieci giorni. E il Pd locale spera ancora di trovare un punto di incontro, una formula per permettere all’Anpi di parlare, senza che questo crei troppo imbarazzo al partito. Niente guerra con i partigiani è la linea scelta dai democratici.
“Se ci inviteranno a un dibattito, valuteremo la proposta — avverte Cocchi — Ma non ci può essere un tira e molla. Dobbiamo essere alla pari”
Da quando l’Anpi ha deciso di opporsi alla riforma, la frattura con il Pd si è fatta sempre più profonda.
Il caso di Bologna arriva a pochi giorni di distanza dalle polemiche nella vicina Firenze. Qui l’associazione partigiani ha diffuso un comunicato di fuoco, andando all’attacco del sindaco renziano Dario Nardella, reo di non aver invitato nessun partigiano al ricordo della Liberazione della città .
“Una scelta grave e incomprensibile”, ma “ci auguriamo sia solo uno sfortunato episodio”. E se si va più in là con il calendario si ritorna alla bufera scatenata dalle dichiarazioni della madrina della riforma, Maria Elena Boschi, che in un’intervista con Lucia Annunziata distingueva tra “partigiani venuti nelle generazioni successive” e “partigiani veri” che voteranno sì.
Insomma, la contrapposizione sul referendum rischia di segnare un punto di non ritorno.
“Fino adesso i rapporti con il Pd — assicura Cocchi — sono stati ottimi. E lavorerò per mantenerli tali. Allo stesso tempo è chiaro che la nostra posizione sul referendum non fa piacere al Pd, e questo rende tutto più difficile. Ma dobbiamo essere liberi di esprimerci. Questa è la prima condizione e quella più importante”.
Giulia Zaccariello
(da “il Fatto Quotidiano”)
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