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PD ATTACCA IL GOVERNO: “STANNO STACCANDO LA SPINA ALLA SANITA’ PUBBLICA”

Ottobre 2nd, 2023 Riccardo Fucile

SCHLEIN: “MELONI TAGLIA, MA UN ITALIANO SU CINQUE RINUNCIA A CURARSI”… DA PRIMA GLI ITALIANI A PRIMA I RICCHI

Il Pd va all’attacco del governo sui tagli alla sanità pubblica. Nella Nadef tra il 2023 e il 2024 si perdono due miliardi, anche se il ministro il ministro della Salute Orazio Schillaci ne aveva chiesti almeno 4. «Il governo di Giorgia Meloni continua a tagliare il servizio sanitario nazionale mentre un italiano su cinque rinuncia a curarsi a causa della crisi – afferma la segretaria del Pd Elly Schlein -. La situazione della sanità pubblica costringe sempre più italiani a non curarsi e la risposta del governo è tagliare ancora fondi: un atteggiamento gravissimo e incomprensibile che non faremo passare sotto silenzio. Tutte le persone devono sapere che Meloni mentre cerca un nemico al giorno sta smontando pezzo per pezzo il nostro diritto alla salute».
E poi via, con il fuoco di fila dei dem. «Stanno cancellando quel poco che la pandemia ci aveva obbligato a fare e cioè a sostenere la sanità pubblica. Questo governo prima si dimette, meglio è. Mancano medici, mancano infermieri, i tempi per le visite si allungano e soprattutto le previsioni di spesa, secondo il governo, che ora è al 6 per cento del Pil, scenderanno ancora di più. Il diritto alla salute è un bene universale che non può essere svenduto – scrive in una nota Sandro Ruotolo, segreteria nazionale del Pd -. Abbiamo visto tutti che cosa ha significato il modello lombardo nei giorni dell’emergenza sanitaria. Bisogna investire nella sanità pubblica. Se i fondi vanno altrove, è una sconfitta per il servizio sanitario nazionale. E non ce lo possiamo permettere».
«Meloni e Salvini hanno passato l’ultima settimana concentrati su pubblicità, pesche, supermercati, congiure internazionali paranoiche. Mentre quatti quatti distruggono la sanità pubblica e sempre più persone rinunciano a curarsi. È il disegno della destra: colpire i più deboli» scrive su X il deputato dem Alessandro Zan, responsabile Diritti del Partito Democratico, mostrando il titolo di un articolo di oggi pubblicato nella versione online sul quotidiano La Repubblica dal titolo “Sempre meno soldi sulla sanità, prestazioni in calo anche al Nord”.
Furfaro: “Da prima gli italiani a prima i ricchi”. Serracchiani: “Si sta consumando un dramma sulla testa degli italiani”
«Mancano infermieri e medici, i pronti soccorso sono ingolfati e c’è un’evidente mancanza di risorse – come chiedono le regioni di destra e di sinistra – per garantire il diritto alla salute. Si curerà solo chi potrà permetterselo. Da prima gli italiani a prima i ricchi»
Così in una nota Marco Furfaro, capogruppo in commissione Affari Sociali e componente della segreteria nazionale del Partito Democratico. E il senatore Antonio Misiani, responsabile economico del Pd, ricorda i numeri della Nadef con «la spesa sanitaria prevista in diminuzione: da 134,7 miliardi nel 2023 a 132,9 nel 2024». «Per riportare la spesa sanitaria pubblica in rapporto al Pil al livello del 2022 (6,7%) servirebbero nel 2024 oltre 10 miliardi in più. Il ministro Schillaci ne ha chiesti 4. Ma nemmeno su questo obiettivo minimale il governo Meloni ha preso impegni concreti» continua su X. «Si sta consumando un dramma sulla testa degli italiani, sempre più in difficoltà ad accedere ai servizi della sanità pubblica, ma il Governo li ignora. La destra smetta di far fumo con spot video e post social, ponti inesistenti o complotti internazionali, piuttosto mantenga la parola e si occupi degli italiani» scrive la deputata dem Debora Serracchiani sugli stanziamenti da destinare al Sistema sanitario nazionale nella Legge di Bilancio 2024.
Pronto alla battaglia sulla sanità anche il Movimento 5 Stelle, che propone di rivedere il titolo V della Costituzione, togliendo la competenza alle regioni per “centralizzare” il sistema.
(da agenzie)

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STRAGE DI LAMPEDUSA, COMMEMORAZIONE SENZA GOVERNO, L’ENNESIMA VERGOGNA

Ottobre 2nd, 2023 Riccardo Fucile

DECENNALE SOTTO SILENZIO

L’hanno chiamata, non a caso, “Dieci anni di indifferenza”: la commemorazione del decennale della strage di Lampedusa, avvenuta il 3 ottobre 2013, rischia infatti di passare sotto silenzio: né la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, né i presidenti di Camera e Senato, Fontana e La Russa, hanno pensato di partecipare alle giornate in ricordo di una delle più grandi tragedie del Mediterraneo. L’unico rappresentante annunciato è la vicepresidente del Senato, la cinquestelle Maria Grazia Castellone.
“Ce lo aspettavamo, anche se siamo stupiti che ancora oggi manchi il coraggio politico di esprimere solidarietà ai parenti delle vittime di quel naufragio e ai sopravvissuti” sottolinea Tareke Brhane presidente del Comitato 3 ottobre, che organizza ogni anno le iniziative per ricordare la tragedia in cui morirono 368 persone. Brhane ricorda che dal 2016 una legge dello Stato ha istituito il 3 ottobre Giornata della Memoria e dell’Accoglienza “per questo, per primo il governo dovrebbe essere presente a fianco degli oltre duecento studenti venuti da tutta Italia, delle famiglie delle vittime e dei sopravvissuti. Sarebbe un atto simbolico importante, invece registriamo un’assenza totale di attenzione”.
(da agenzie)

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L’ITALIA RISCHIA DI DIVENTARE “SPAZZATURA”: IL CALENDARIO DEI GIUDIZI DELLE AGENZIE DI RATING TURBA I SONNI DI MELONI E GIORGETTI

Ottobre 2nd, 2023 Riccardo Fucile

LA DATA CERCHIATA IN ROSSO È IL 17 NOVEMBRE. QUEL GIORNO, “MOODY’S” POTREBBE DECLASSARE I TITOLI DI STATO ITALIANI A “JUNK”. SE ANCHE “S&P”, “FITCH” E “DBRS” FACESSERO LO STESSO, LE EMISSIONI DEL TESORO VERREBBERO ESCLUSE DALLE PIATTAFORME DEGLI ACQUISTI, E PER LO STATO FINANZIARSI DIVENTEREBBE COMPLESSO E MOLTO COSTOSO … TRADOTTO: LO SPREAD ESPLODEREBBE

La data simbolo di questo autunno sui mercati è il 17 novembre. La conoscono al ministero dell’Economia. E la attendono con nervosismo anche a Palazzo Chigi. In piena legge di stabilità, Moody’s deciderà sull’affidabilità dell’Italia. Se dovesse scegliere la strada del downgrading, cioè del declassamento dell’affidabilità del Paese, si passerebbe dal livello di “investment grade” a quello dello “speculative grade”.
Significherebbe proiettare Roma nel club poco ambito di chi è “junk”, anche se al livello più alto di quella categoria (ci sono altri dieci step, fino al default). Il problema è che l’eventuale passaggio da Baa3 a Ba1 avrebbe un effetto negativo sugli investitori. Alcuni grandi fondi non possono mantenere titoli di Stato del genere nei portafogli convenzionali.
Se poi il declassamento venisse accompagnato da scelte analoghe di due delle tre altre grandi agenzie S&P, Fitch e Dbrs […] allora l’effetto sarebbe grave: le emissioni del Tesoro verrebbero escluse da tutte le principali piattaforme europee ed internazionali degli acquisti, finanziarsi diventerebbe una faccenda più complessa e, soprattutto, assai più costosa
Già oggi, ad esempio, il Tesoro avvia un’importante emissione di titoli. Uno snodo utile a capire il clima tra gli azionisti. A chi gli chiede un commento, il titolare del Tesoro risponde: «Il dialogo con le agenzie è costante. E se hanno letto la Nadef senza pregiudizi, al contrario di qualcuno, allora siamo tranquilli».
Tranquilli perché al ministero ritengono di aver scritto una Nadef solida che mette al riparo l’Italia da eventuali giudizi negativi. Attenzione: la risposta di Giorgetti non deve essere tradotta però come un invito a considerare semplice il compito che il governo si trova ad affrontare. Semmai, sembra consigliare tutti – anche i suoi colleghi dell’esecutivo – a gestire con un approccio rigoroso le prossime settimane.
E d’altra parte, era stato proprio Giorgetti a mettere tutti in guardia dieci giorni fa:«Ogni mattina, quando mi sveglio, ho un problema: devo vendere il debito pubblico. Per convincere la gente ad avere fiducia, devo essere accattivante. Non mi fanno paura le valutazioni dell’Ue, ma quelle dei mercati che comprano debito pubblico ».
Quelle del ministro non sono parole spese a caso. A via XX settembre si muovono e intervengono nel dibatitto pubblico avendo chiaro questo calendario: il 29 settembre – dunque tre giorni fa – la valutazione di Kbra (Bbb con outlook rivisto verso il positivo), il 20 ottobre quella di Standard & Poor’s, il 27 ottobre Dbrs, il 10 novembre Fitch, il 17 novembre Moody’s, il primo dicembre Scope Rating. Sei giudizi, sei snodi in poco più di quaranta giorni
Come detto, conta soprattutto la valutazione di Moody’s. Nel maggio scorso, l’agenzia aveva confermato la classificazione di Baa3, senza aggiornarla. E sancendo un outlook negativo, dunque una previsione tendente al peggioramento. Se c’è un dettaglio a preoccupare, è quello racchiuso nella credit opinion pubblicata proprio da Moody’s il 23 maggio scorso.
C’è scritto che tra i fattori che potrebbero provocare un declassamento c’è un «significativo indebolimento della forza economica e fiscale dell’Italia», a partire dalle misure di sostegno alla crescita del Pnrr. E ancora, si indicano come eventuali segnali negativi quelli legati a una «significativa tendenza al rialzo del debito», frutto di una «crescita più debole», di un’impennata dei costi per i tassi d’interesse e di un «sostanziale allentamento fiscale ». Condizioni negative, frutto anche della congiuntura, condivise però con il resto dei big Ue, ad eccezione dell’alto debito pubblico.
A tutto questo bisogna aggiungere lo spread, inchiodato un centimetro sotto quota 200. Tutti indizi che allarmano Giorgia Meloni. E che hanno alimentato anche nelle ultime ore i sospetti di Palazzo Chigi su presunte manovre della grande finanza per colpire il governo.
(da La Repubblica)

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CUBA AL BUIO: L’ISOLA È SENZA ELETTRICITÀ E SENZA CIBO. L’ECONOMIA ARRANCA, QUASI LA METÀ DELLA POPOLAZIONE HA RINUNCIATO ANCHE A COMPRARE DA MANGIARE

Ottobre 2nd, 2023 Riccardo Fucile

IL GOVERNO ANNUNCIA MISURE DRASTICHE DI RAZIONAMENTO. PER LA MANCANZA CRONICA DI CARBURANTE SI FERMANO TRASPORTI PUBBLICI E PRIVATI…. GLI ERRORI DEL GOVERNO E I RAPPORTI GELIDI CON RUSSIA E VENEZUELA

Cuba è senza cibo ed elettricità. Ne ha sempre di meno, è costretta a razionare anche il poco che è rimasto. L’economia arranca, mancano i soldi, quasi la metà della popolazione (40 per cento) ha rinunciato anche a comprare da mangiare. Non sa come e dove farlo. Otto persone su dieci campano con 1,8 dollari al giorno. Si sopravvive, depressi e frustrati. Adesso si prevedono blackout a ottobre perché non c’è abbastanza gasolio e benzina per produrre energia. Si deve risparmiare. Anzi, raschiare il fondo del barile visto le tavole vuote e le giornate passate spesso al buio.
L’isola del Che e di Fidel si spegne lentamente e di questo sono consapevoli anche i massimi esponenti del regime. Per la prima volta dopo anni, i ministri dell’Economia Alejandro Gil e quello dell’Energia e delle Miniere Vicente de la O Levy sono apparsi in tv nella trasmissione di punta della sera, Mesa Redonda, quella dedicata di solito agli annunci ufficiali, quindi di interesse nazionale. Lo scrive El País nella sua edizione online. Entrambi i ministri hanno ammesso la gravità della situazione e annunciato delle misure drastiche di razionamento su cibo ed elettricità. Ma entrambi non nascondono più gli errori commessi dal governo negli ultimi anni. La svolta con l’apertura ai privati non ha mai decollato, pochi sono disposti a investire con tanta incertezza. Hanno mollato anche i partner storici, come Russia e Venezuela. Hanno i loro problemi, la guerra in Ucraina ha modificato l’assetto geopolitico e quindi anche le alleanze.
“Alcuni Paesi con cui abbiamo stabili rapporti sono spariti”, dicono i due ministri. “Non sono stati più in grado di conformarsi alla situazione internazionale e hanno violato i contratti. Siamo dovuti ricorrere ad altre fonti di approvvigionamento soprattutto per recuperare il carburante che ci occorre ogni giorno. Siamo in una situazione difficile, ma miglioreremo”, aggiungono.
Non sarà facile. Il futuro è fosco. Quello immediato, non tra qualche mese. Dall’isola ci arrivano testimonianze sulla difficoltà a reperire ogni giorno da mangiare. Per la mancanza ormai cronica di carburante dalla prossima settimana si dovranno fermare i trasporti pubblici, i taxi collettivi, le auto dei privati. Persino i funerali subiranno dei tagli. I feretri saranno accompagnati a piedi. L’errore, osservano gli economisti, è stato puntare tutto sul turismo. Ne sono arrivati pochissimi. Lontani da quei 3,5 milioni previsti.
Lo ha ammesso anche il presidente Miguel Díaz-Canel. Per evitare il crollo definitivo bisogna tornare a produrre in casa. “Bisogna consentire a chiunque abbia le risorse di avviare un’impresa”, aggiungono gli economisti.
(da agenzie)

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RITARDI E COSTI LIEVITATI: LE OLIMPIADI INFERNALI DI MILANO-CORTINA

Ottobre 2nd, 2023 Riccardo Fucile

RITARDI, AUMENTO DEI COSTI, DOSSIER SEGRETATI E SCONTRI CON LE COMUNITA’ LOCALI

La pista da bob di Cortina è solo l’ultima carta poggiata su un castello che sembra stia per crollare da un momento all’altro. È forse il simbolo di una spaccatura che si è creata tra chi la montagna la vive, e chi invece vorrebbe uno sviluppo che risulta difficile considerare sostenibile.
La manifestazione che si è tenuta lo scorso 24 settembre nella “perla delle Dolomiti” ne è l’emblema: non solo ambientalisti, ma intellettuali, scrittori, politici e liberi cittadini che hanno voluto mostrare il proprio dissenso verso un’opera che in pochi vogliono.
Ed è proprio il probabile fallimento del progetto che sta dietro alla pista da bob che toglie il velo a ciò che aleggiava da tempo, non solo tra gli ambientalisti: i grandi eventi come le Olimpiadi invernali non possono essere ospitati in territori tanto fragili, di elevato pregio naturalistico e paesaggistico, composti da piccole comunità che oggi hanno problemi molto più gravosi da affrontare, primo tra tutti lo spopolamento.
«Non abbiamo a oggi elementi, a poco più di tre anni dai Giochi olimpici 2026 e dopo un confronto avviato e voluto da fondazione Milano Cortina 2026 sin dal 2021, per potere attestare la sostenibilità ambientale delle opere e dei giochi olimpici invernali, dichiarata nel dossier di candidatura», si legge in una nota rilasciata congiuntamente dal Club alpino italiano, Federazione pro natura, Italia nostra, Legambiente, Lipu, Mountain wilderness, Tci e Wwf dello scorso 13 settembre.
Mancanza di trasparenza, costi e opere aumentati in modo esponenziale, alcuni dei quali considerati inutili dagli ambientalisti, hanno probabilmente alzato il velo sull’idea di montagna che aleggiava in quelle conche e valli già anni fa.
«Ci avevano promesso le Olimpiadi a costo zero e oggi siamo a 5 miliardi e mezzo di soldi stanziati o dal governo o dalle regioni», spiega Luigi Casanova, storico ambientalista e presidente onorario di Mountain wilderness. «C’erano state promesse le Olimpiadi sostenibili sorrette da una valutazione ambientale strategica che avrebbe garantito la condivisione e la partecipazione di tutta la cittadinanza, ma così non è stato. Doveva essere un’Olimpiade trasparente, ma tutte le opere sono state sono state commissariate».
PROMESSE NON MANTENUTE
Quella che traspare dunque è una visione bulimica, vorace, che mette a rischio un territorio come quello montano già fortemente colpito dalla crisi climatica ed ecologica.
Da anni si discute su come trovare un modello di sviluppo sostenibile per le valli e le comunità alpine, ma i grandi eventi non sembrano essere la chiave. Anzi la montagna «viene vista come un terreno di conquista», racconta Pietro Lacasella, tra i giovani promotori dell’ultima manifestazione e da sempre attento ai temi della montagna. «Questo è l’emblema di un modello di sviluppo ormai fuori dal tempo».
Forse, la nota positiva di tutta la discussione, sta proprio nel fatto che la sensibilità nei confronti dell’ambiente montano sta aumentando. Le comunità locali si rendono conto che si tratta di «qualcosa di prezioso e unico, che vale la pena tutelare perché può essere fonte di ricchezza», continua Lacasella. «Oltre alla sostenibilità ambientale c’è infatti molta attenzione verso quella economica. E ci si è resi conto che questo tipo di investimenti è iniquo, perché non porta benefici alla comunità».
Prendendo come spunto la pista da bob, conti alla mano, si parla di circa 3 milioni di investimenti ad atleta. Una cifra che Lacasella considera «sproposita per una comunità che chiedeva più trasporto pubblico, maggiore attenzione alla sanità, maggiori servizi».
In tutto questo la gara d’appalto per la realizzazione dell’opera è andata deserta per ben due volte, segno che nessuno vuole prendersi carico di un rischio d’impresa così elevato: poco tempo a disposizione, costi lievitati in maniera esponenziale e, non ultimo, l’opposizione di parte della cittadinanza e degli ambientalisti.
Ed ecco che l’idea di spostare le gare a Innsbruk, avallata dal Comitato olimpico internazionale (Cio) a marzo di quest’anno, non è solamente più intelligente ed economica, ma in realtà «sarebbe un’ottima occasione per l’Italia di farsi portavoce di uno sguardo rinnovato sul futuro, farsi portabandiera di una rinnovata modernità, e mostrarsi aperti ad un dialogo con gli altri paesi che vivono a cavallo delle Alpi», spiega Lacasella. «Queste montagne non sono una barriera geografica o culturale, quanto una cerniera culturale». La distanza poi non è nemmeno abissale: Lacasella e lo scrittore Marco Albino Ferrari quest’estate hanno raggiunto la cittadina austriaca in bici, proprio per porre l’attenzione su questa possibile soluzione.
LA SCOMPARSA DELLA NEVE
La questione non è legata solo alla costruzione delle infrastrutture o di nuove piste o di nuovi bacini artificiali. Ma è di più ampio respiro. Si tratta di scenari ai quali stiamo andando incontro oggi, non tra 20 o 30 anni.
Nature climate change ha recentemente pubblicato uno studio frutto della collaborazione di un team di ricercatori dell’università di Padova e dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima (Isac) del Consiglio nazionale delle ricerche di Bologna e coordinato dal professore Marco Carrer del Dipartimento territorio e sistemi agroforestali di Padova.
Lo studio mostra come, negli ultimi 50 anni, le Alpi abbiano registrato una riduzione del 5,6 per cento ogni decennio della durata del manto nevoso. Studiando gli anelli di accrescimento di una specie vegetale tipica degli ambienti alpini, il ginepro (Juniperus communis L.), si è scoperto che la durata dell’attuale copertura del manto nevoso è di 36 giorni più breve rispetto alla media a lungo termine, con un declino che, secondo i ricercatori, non ha precedenti negli ultimi sei secoli. Confermando che «quello che stiamo vivendo negli ultimi anni è qualcosa che non si era mai presentato precedentemente».
Mancanza di neve da una parte e aumento delle temperature dall’altra, stanno cambiando la morfologia della Alpi. Sono ancora vive le immagini del crollo di un serracco sul ghiacciaio della Marmolada a luglio 2022, che costò la vita a undici persone, e causato dalle elevate temperature di quell’estate.
Un segnale di ciò che sta accadendo e confermato anche dal recente studio pubblicato su Nature Communications che mostra come, negli ultimi 20 anni, alcune aree di alta montagna si stanno riscaldando ancor più di quanto atteso dai modelli globali.
In particolare sono proprio le aree in prossimità dei ghiacciai a registrare i valori più elevati, rivelando come il loro ritiro e la riduzione del manto nevoso stiano amplificando il tasso di riscaldamento stesso in una sorta di ciclo vizioso.
Alcuni scenari poi sono ancora più allarmistici, anche se guardano a orizzonti temporali molto in là, a fine secolo. Sta di fatto che si stima che senza una seria azione per contenere le emissioni il numero dei giorni di innevamento sulle Alpi potrebbe dimezzarsi entro la fine del secolo, con una perdita di neve che sarebbe particolarmente grave proprio nelle Alpi meridionali, come in Italia, Slovenia e parti della Francia.
INNEVAMENTO ARTIFICIALE
Impatti che non si registrerebbero solo sugli habitat naturali, ma anche sulle attività economiche e in particolare su quelle turistiche. A fine agosto, uno degli studi più completi realizzati finora che ha valutato i cambiamenti della copertura nevosa di 2.234 stazioni sciistiche in 28 paesi europei, ha fatto vedere come oltre la metà, e quasi la totalità delle stazioni sciistiche, sarebbero esposte a un rischio molto elevato di insufficiente innevamento per livelli di riscaldamento di 2°C e 4°C rispettivamente.
Non solo, ma si è valutato anche il potenziale dell’innevamento artificiale come risposta all’aumento delle temperature: considerando l’impiego della neve artificiale per metà dell’area di un comprensorio sciistico – quella a quote più elevate – il rischio si ridurrebbe in qualche misura, anche se oltre un quarto dei comprensori sarebbe ancora interessato da una sostanziale carenza di neve con soli 2°C di aumento delle temperature. Insomma la neve artificiale potrebbe non bastare.
E questo pone più di un interrogativo alla pratica dell’innevamento artificiale, che probabilmente dovrà essere impiegato anche per i giochi olimpici del 2026: quali sono i costi ambientali ed economici dietro alla produzione di neve artificiali?
Non è facile trovare dati di riferimento, anche perché spesso gli studi sono puntuali e su aree limitate. Ma prendendo come spunto un dossier realizzato dal centro di ricerche Eurac di Bolzano, si legge come probabilmente «non sarà più possibile garantire la durata della stagione sciistica come la conosciamo oggi».
Inoltre, come riportano altri studi condotti in Austria e Svizzera, «gli attuali sviluppi climatici minacciano la redditività economica delle stazioni sciistiche a quota più bassa, anche a causa dell’aumento dei consumi di elettricità e acqua». E il punto sta proprio qui. Per produrre la neve servono condizioni meteorologiche favorevoli, oltre a un alto consumo di acqua ed energia.
Si è calcolato che solo in Alto Adige, negli inverni che vanno dal 2007 al 2016, i cannoni da neve abbiano «consumato dai cinque ai dieci miliardi di litri d’acqua a stagione e, insieme agli impianti di risalita, dai 90 ai 170 milioni di kWh di elettricità, vale a dire il 6-12 per cento del consumo annuo di acqua potabile e il 2,9-5,4 per cento del consumo annuo di elettricità di tutta la provincia».
Sia chiaro, non si tratta di essere contro lo sport o contro eventi internazionali che portano con sé quell’idea di collaborazione, competizione, preparazione e sportività di cui abbiamo bisogno come umanità, soprattutto in questi ultimi anni in cui molto è stato messo in discussione.
Piuttosto si tratta di fare scelte intelligenti, intellettualmente oneste e pragmatiche, capaci di lasciare quella legacy richiesta dallo stesso Cio, ovvero che ognuna delle opere olimpiche fosse in grado di avere una ricaduta positiva sui territori, per offrire un futuro soprattutto alle nuove generazioni. Futuro che oggi, invece, pare essere piuttosto incerto.
(da editorialedomani.it)

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SANITA’, DUE MILIARDI IN MENO: “ADDIO A CURE NORD-SUD”

Ottobre 2nd, 2023 Riccardo Fucile

REGIONI DI DESTRA E SINISTRA CONTRO I TAGLI ALLA SANITA’

Avevano chiesto al governo 4 miliardi in più. Si ritrovano con due miliardi in meno. Taglio che – se la prossima manovra di bilancio confermerà la Nadef, nota di aggiornamento al Def – potrebbe essere il colpo di grazia per la disastrata sanità pubblica. E su questo i governatori sono tutti d’accordo, anche se con sfumature diverse. Dal leghista Massimiliano Fedriga (Friuli Venezia Giulia, presidente della Conferenza delle Regioni) a Stefano Bonaccini, Pd, ai vertici dell’Emilia-Romagna.
“È il momento di fare scelte coraggiose, le risorse sono limitate, né Regioni e Comuni possono fare una lista della spesa infinita – dice Fedriga -. Anche noi dobbiamo fare proposte serie, in particolare per la sanità, io penso che non saranno sufficienti le risorse per risolvere i problemi che oggi ha”. Fedriga ha parlato ieri ai microfoni di In Mezz’ora, su Rai 3. Proprio come Bonaccini. “Sulla sanità sono molto deluso – ha spiegato quest’ultimo – e spero di essere smentito a breve. Quattro miliardi di euro per me sono persino pochi e quest’anno dopo tanti anni torna al 6,5% la spesa sanitaria in rapporto al Pil. Erano anni e anni che non succedeva. E nelle previsioni del governo, se non le correggeranno, si andrà al 6,2% tra due anni. Siamo già sedicesimi per poca spesa nella Ue”. La soluzione? Per Fedriga ci sarà bisogno di potenziare la collaborazione con la sanità privata. Per Bonaccini occorre aumentare di quattro miliardi ogni anno il Fondo sanitario nazionale. Proprio come prevede il progetto di legge di iniziativa popolare rivolto al Parlamento che ha lanciato insieme al suo assessore alla Salute Raffaele Donini, che è poi anche il coordinatore della commissione Sanità della Conferenza delle Regioni, e sul quale sta raccogliendo le firme. Che sia necessario fare molti passi indietro per tornare a una spesa sanitaria in rapporto al Pil intorno al 6,5% è acclarato: parliamo del 2005. Che la spesa pro capite sia decisamente inferiore alla media della Ue a 27, lo è altrettanto: 2.609 euro contro 3.269 nel 2020. In pratica, spendiamo meno della Repubblica Ceca e di Malta, con valori molto distanti dalla Francia (3.807 euro) e soprattutto dalla Germania (4.831). Nel frattempo, le forti disuguaglianze nell’accesso alle cure crescono. Secondo l’Istat, nel 2021 l’11,1% delle persone hanno dovuto rinunciare alle cure sanitarie, nel 2022 si stima siano state il 7%, per oltre il 4% a causa delle interminabili liste d’attesa e per il 3,2% per motivi economici. Intanto lievitava la spesa out of pocket, cioè quella privata, arrivata a quota 36,5 miliardi, su un totale di 168. Ma cosa stabilisce la Nadef per un sistema tragicamente provato dalla pandemia, che ha portato a galla carenze strutturali e di personale, con lunghissime liste d’attesa? Se l’impianto previsto sarà confermato dalla manovra finanziaria, dal 6,7% del Pil (2022) si scende al 6,6% nel 2023, per poi arrivare al 6,2% dal prossimo anno.
Esattamente quanto previsto dal Def (Documento di economia e finanza del 2022, governo Draghi), che fissava la spesa in rapporto al Pil al 6,2% nel 2025.
È passato un mese e mezzo circa da quando le Regioni chiesero al ministro della Salute Orazio Schillaci di prevedere immediatamente per la sanità quei quattro miliardi in più. Ora la doccia gelata. Le conseguenze? “Se sarà tutto confermato il sistema sanitario non potrebbe più restare in piedi nemmeno nelle regioni che stanno assicurando l’assistenza sanitaria ai cittadini che provengono da altre aree del Paese – dice Raffaele Donini -. Mi auguro che questa Nadef scritta sull’acqua possa essere smentita”. La mobilità sanitaria – dato aggiornato al 2020, sulla base del report della Fondazione Gimbe – ha raggiunto un valore che supera i tre miliardi, in contrazione a causa della pandemia, che ha fortemente limitato gli spostamenti (nel 2018 superava i 4,6 miliardi). A ricorrere a cure fuori dalla propria regione sono soprattutto calabresi, campani, siciliani, lucani, sardi, pugliesi e abruzzesi. E ad accogliere di più sono ancora una volta le regioni del Centro-Nord, Emilia-Romagna in testa, seguita dalla Lombardia, dal Veneto e dalla Toscana. Le tre regioni con il maggiore indice di fuga sempre nel 2020 hanno generato debiti per oltre 300 milioni. Se ciò che prefigura Donini dovesse avverarsi a farne tragicamente le spese, prima di tutte le altre e ancora una volta, saranno le regioni del Meridione.
(dxa Il Fatto Quotidiano)

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TE LE DO IO LE ELEZIONI ANTICIPATE: LO SPAURACCHIO SVENTOLATO DALLA MELONI SERVE COME MINACCIA A MATTEO SALVINI. MA LA PISTOLA È SCARICA

Ottobre 2nd, 2023 Riccardo Fucile

LA SORA GIORGIA NON HA CAPITO CHE A DECIDERE SE SI VA A VOTARE O MENO È IL QUIRINALE, NON LEI E DIMENTICA CHE C’È SEMPRE UNA MAGGIORANZA “URSULA” ALLA FINESTRA, CON FORZA ITALIA PRONTA A “SACRIFICARSI” PER IL BENE DELLA NAZIONE

Non hanno paura dei tecnici, Giorgia Meloni e i suoi fratelli. O almeno, così raccontano. E quando ne parlano tra loro, sorridono e ridono della «disperazione di parte della sinistra» che spera di vederli cadere.
«È il solito cinema», ha dichiarato al Corriere il ministro e cognato Francesco Lollobrigida e la leader di FdI condivide sia il merito sia il tono della risposta. Perché lo spread «quando a Palazzo Chigi arrivò Draghi era più alto che adesso», ricorda in queste ore Meloni ai collaboratori e li sprona a rispondere per le rime: «L’opposizione ci fa un grosso favore, questi attacchi finiranno per rafforzarci molto».
Se la premier e i suoi fedelissimi respingono spavaldi l’ipotesi di un attacco dei mercati è perché sono convinti di aver analizzato ogni possibile scenario alternativo. La conclusione a cui sono arrivati è che «l’opposizione non c’è» e soprattutto, non si vede all’orizzonte un’altra coalizione che possa dar vita a un esecutivo non guidato da Giorgia Meloni.
Quando poi gli inquilini di Palazzo Chigi allargano lo sguardo oltre l’orizzonte dell’Italia, il cielo ai loro occhi appare ancor più sgombro di nubi. Un ministro la spiega così: «Noi siamo l’unica garanzia per il blocco atlantica. Quale maggioranza potrebbe dare più rassicurazioni del governo Meloni? Forse il Pd di Schlein e i 5 Stelle di Conte?».
I meloniani non sembrano credere a un complotto internazionale, ma sono ben felici che la suggestione continui ad agitare i palazzi. Il vero destinatario degli avvisi della premier […] è […] Matteo Salvini. Da giorni la leader di FdI, che nel partito descrivono «fuori dalla grazia del cielo con Matteo», cercava un modo per stoppare una volta per tutte i quotidiani strappi del segretario leghista.
Finché le ricostruzioni sullo spread che può spianare la strada ai tecnici le hanno offerto l’occasione per far capire agli alleati che, per quanto Meloni non coltivi questa tentazione, «se salta il tavolo si va a votare». E se qualcuno spera che FdI possa spaccarsi per sostenere un altro premier, per lei ha sbagliato i conti. «Quelli che non mi seguirebbero all’opposizione sono pochissimi», spera Meloni e si dice sicura che il suo partito volerebbe «oltre il 30%».
Gli avvertimenti a Salvini non finiscono qui. Lollobrigida ha in sostanza ricordato al ministro dei Trasporti che un vicepremier non può «scaricare le responsabilità» sul governo di cui fa parte. E un altro messaggio spedito all’indirizzo di via Bellerio riguarda l’invocazione di un rimpasto.
«I numeri parlamentari saranno gli stessi anche dopo le Europee», è la replica sottovoce dei meloniani, per nulla favorevoli a cedere ai leghisti uno o più ministeri. La premier lo ha spiegato più volte alla sua squadra e potrebbe ribadirlo nel prossimo Cdm: «Voglio guidare il primo governo che dura 5 anni». E anche se Daniela Santanchè fosse costretta a lasciare, la linea è decisa: «Ci sarà un nuovo ministro del Turismo, ma niente rimpasti».
(da agenzie)

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SOLDI SPRECATI E PROCEDURE D’INFRAZIONE

Ottobre 2nd, 2023 Riccardo Fucile

COSI’ L’ITALIA BUTTA UN MILIARDO DI EURO IN MULTE UE

Un miliardo e tre milioni di euro. È quanto l’Italia ha pagato finora in sanzioni all’Unione europea per non essersi adeguata alle regole comunitarie, nonostante i moniti di Bruxelles, ripetuti per anni. Andiamo con ordine: 27 Stati aderiscono alla Ue decidendo insieme le leggi, condividendone obblighi e benefici. Ogni Stato, quindi, è tenuto ad accogliere le direttive Ue fra le proprie leggi nazionali, entro due anni al massimo, e a rispettarle. Chi non lo fa finisce nel radar della Commissione, che può aprire una procedura di infrazione. La Costituzione italiana (artt.11 e 117) riconosce il primato del diritto europeo su quello nazionale, ma il nostro Paese è tra quelli che contano più procedure d’infrazione in Europa.
Iter e tempi di una procedura
Fra i primi avvisi di Bruxelles e una condanna possono passare anche 20 anni. La pratica inizia con una lettera di messa in mora dove la Commissione concede due mesi per rispondere. Segue una lettera di «parere motivato», con cui si precisano altre richieste. Bruxelles collabora, perché ha tutto l’interesse ad evitare lo scontro. Se lo Stato continua a non seguire le indicazioni della Commissione, c’è un primo deferimento alla Corte di Giustizia Ue. A quel punto, se non ti adegui, la Corte emette una seconda sentenza con la quale può decretare sanzioni economiche forfettarie e/o giornaliere finché il Paese non si mette in regola. Nel caso in cui lo Stato decida di non pagare, l’Unione si rifà riducendo gli importi dei fondi comunitari destinati al Paese in questione.
I casi in Italia e in Europa
L’ultimo aggiornamento è del 28 settembre 2023: le procedure aperte contro i Paesi membri sono 1.724. In testa la Spagna con 95, seguita da Belgio (94), Bulgaria (92), Grecia (90) e Polonia (83). I Paesi che ne hanno di meno sono Estonia (39), Lituania (40), Finlandia (45). L’Italia conta 80 infrazioni di cui 63 per violazione del diritto Ue e 17 per mancato recepimento di direttive. Le infrazioni vanno dal mancato adeguamento dei livelli di sicurezza delle gallerie (la direttiva 2004/54/CE prevede per i tunnel superiori a 500 metri uscite d’emergenza, colonnine di soccorso, livelli di ventilazione e illuminazione adeguati) all’eccessivo ricorso ai contratti a termine nel settore pubblico (la procedura del 2018 condanna l’utilizzo abusivo per diverse categorie di lavoratori tra le quali insegnanti e personale amministrativo) fino allo scorretto recepimento della direttiva antiriciclaggio.
Il primato italiano
Se consideriamo invece le infrazioni finite davanti alla Corte di Giustizia l’Italia è al primo posto con 23 procedure in contenzioso, davanti a Grecia (19), Polonia (17) e Ungheria (15). Tra le infrazioni italiane arrivate davanti alla Corte c’è di tutto: l’esenzione dalle accise sui carburanti degli yacht a noleggio (la normativa europea impone lo sconto solo per le imbarcazioni usate a fini commerciali come pescherecci e traghetti e non per chi affitta barche a uso personale); il superamento dei valori limite di PM10 nell’aria delle città italiane, il ritardo dei pagamenti da parte della pubblica amministrazione verso i fornitori (la direttiva 2011/7/EU prevede un limite di 30 giorni per il saldo delle fatture, ma i nostri tempi medi si attestano ancora sui 70 giorni nel 2022) e il recupero dei prelievi arretrati sulle quote latte.
I Paesi più sanzionati
Tra i Paesi che hanno ricevuto più condanne a pagare sanzioni dalla Corte Ue solo la Grecia con 12 infrazioni fa peggio dell’Italia. Noi siamo secondi insieme alla Spagna con 6 condanne, seguono Irlanda (4), Francia, Belgio e Portogallo (3). Ma a quanto ammontano queste multe? Per calcolarle i giudici considerano non solo la gravità dell’infrazione, ma anche il Pil e la popolazione del Paese sanzionato.
Quanto stiamo pagando
Tra le condanne definitive che hanno procurato all’Italia esborsi imponenti, 3 sono legate al settore dell’ambiente , 2 agli aiuti di Stato e una agli aiuti irregolari concessi alle aziende (Corte dei Conti, relazione annuale 2021, pag.90). La condanna più pesante riguarda i rifiuti della Campania. La procedura è stata aperta nel 2007, abbiamo fatto finta di niente, e nel 2015 è partita la sanzione per la quale l’Italia ha già pagato 311 milioni di euro. E ancora oggi, a 8 anni di distanza, la Regione non ha completato una rete integrata di impianti di smaltimento. La conseguenza è che il nostro Paese continua a sborsare 60 mila euro al giorno. Restando in tema: è partita nel 2014 la condanna per 200 siti di discariche abusive disseminate su tutto il territorio nazionale (la procedura era stata aperta nel 2003): ad oggi sono già stati versati 261,8 milioni di euro. C’è da dire che la situazione è migliorata dopo la nomina, nel 2017, del commissario unico alle bonifiche: restano da risanare 18 siti e la multa semestrale è passata dagli iniziali 42,8 milioni di euro a 4 milioni. Nel 2018 è la volta dei Comuni che hanno le fogne senza i depuratori: 123 mancati interventi in 81 agglomerati, prevalentemente dislocati in Sicilia, Calabria e Campania. L’Italia è stata condannata al pagamento di 165 mila euro al giorno e sono stati già versati 142.867.997 euro. Cosa abbiamo fatto in questi cinque anni? Sono stati resi conformi solo 15 agglomerati, per quel che riguarda gli altri è come se 4,5 milioni di persone riversassero le loro fogne nei fiumi, nei canali, o in mare. Ma quanti sistemi di depurazione si mettevano a terra con 165 mila euro al giorno?
Le sanzioni per gli aiuti di Stato
Nel 2015 ci siamo beccati la condanna per il mancato recupero di 73,6 miliardi di lire (l’equivalente di 38 milioni di euro) di benefici contributivi impropri concessi tra il 1995 e il 1997 a 1.800 imprese nel territorio di Venezia e Chioggia. La vertenza si è chiusa lo scorso marzo, ma intanto l’Italia ha dovuto pagare sanzioni per 158,9 milioni di euro. La rassegna continua con la multa per gli aiuti concessi dall’Italia – in forma di sgravi contributivi – per favorire l’occupazione negli anni 1997-98. Le regole comunitarie permettevano agevolazioni alle imprese che su tutto il territorio nazionale assumevano disoccupati under 25 e laureati con meno di 29 anni. Ma l’Italia ha differenziato gli sgravi a seconda delle zone del Paese e li ha concessi anche a chi ha assunto over 29. Per questo sono già stati pagati 80 milioni di euro. Infine, la sanzione per gli aiuti di Stato (13,7 milioni di euro) agli alberghi della Regione Sardegna. La sentenza è di marzo 2020: pagati finora 47,9 milioni di euro. Il dossier del Senato «Relazione sull’impatto finanziario degli atti e delle procedure giurisdizionali e di precontenzioso con l’Unione europea» pubblicato ad aprile ufficializza il totale delle sanzioni già versate: «Hanno superato il miliardo di euro». Purtroppo, non ci fermiamo qui perché l’Italia per almeno altre 6 procedure sta rischiando condanne a breve, fra queste la violazione della direttiva europea 2004/18/CE per la proroga senza gara della concessione autostradale Civitavecchia-Livorno alla società SAT.
Il rischio balneari all’orizzonte
Per scongiurare nuove multe il governo Meloni ha approvato a giugno il «decreto salva infrazioni», che ha per obiettivo la chiusura di 13 procedure e la prevenzione di altre 11. La norma interviene tra l’altro per mettere fine a quella sulle emissioni inquinanti dell’ILVA di Taranto, prevedendo progetti di decarbonizzazione necessari a ridurre l’impatto ambientale.
Nulla di fatto, invece, sull’eterna storia degli stabilimenti balneari. Dal 2009 Bruxelles ci chiede che le concessioni delle spiagge vengano messe a gara, per rispettare il principio della libera concorrenza, sancito dalla direttiva Bolkestein del 2006. Dopo un lungo tira e molla, il 3 dicembre 2020 è partita la procedura d’infrazione. Il Ddl Concorrenza approvato dal governo Draghi prevedeva di risolvere la questione entro quest’anno, ma il governo Meloni ha detto no: se ne parlerà a partire da gennaio 2025.
Certo che se lo Stato, pur di continuare ad incassare pochissimo da queste concessioni, è disposto a far pagare a tutti noi pure le sanzioni, è davvero indigesto.
(da Il Corriere della Sera)

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PIACENZA, NOVE AGENTI DI POLIZIA SOTTO INCHIESTA: ARRESTI ILLEGALI E FALSE DICHIARAZIONI

Ottobre 2nd, 2023 Riccardo Fucile

GLI EPISODI AVVENUTI TRA GENNAIO E LUGLIO 2022

Arresto illegale, calunnia e falso in atto pubblico. Sono le accuse formulate nei confronti di otto agenti della questura di Piacenza, mentre un nono poliziotto è accusato di false dichiarazioni all’autorità giudiziaria.
L’indagine – condotta dai carabinieri e coordinata dal sostituto procuratore Daniela Di Girolamo – riguarda episodi dello scorso anno, verificatosi tra gennaio e luglio 2022, con una più recente coda relativamente alle false informazioni fornite al pubblico ministero.
Le accuse a carico degli agenti della città emiliana, che operavano sulle volanti, sono state mosse – scrive il quotidiano locale Libertà – anche sulla base di intercettazioni e testimonianze.
Mentre nei giorni scorsi risultano essere stati posti sotto sequestro anche i telefoni cellulari degli indagati.
Nel mirino della Procura sono finite incriminazioni, ma anche arresti che, secondo le accuse formulate nei loro confronti, sarebbero stati effettuati dai poliziotti abusando dei loro poteri e sulla base di verbali redatti con false ricostruzioni e attestazioni, in alcuni casi estorte dalle vittime dietro minacce e ripercussioni.
(da agenzie)

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