Ottobre 11th, 2023 Riccardo Fucile
“HO SEMPRE CREDUTO NELLA GIUSTIZIA, LA NOSTRA STORIA E’ QUELLA DI UN PICCOLO COMUNE CHE HA INVIATO UN MESSAGGIO DI UMANITA’ AL MONDO”
Al bar di Alessio, in piazza a Riace si festeggia: in molti dicono «giustizia è fatta» qualcuno aggiunge «finalmente».
La corte d’appello di Reggio Calabria ha ribaltato la sentenza di primo grado del Tribunale di Locri che aveva inflitto all’ex sindaco Domenico Lucano, per tutti Mimmo, 13 anni e 2 mesi di carcere per associazione per delinquere, truffa, peculato, falso e abuso d’ufficio.
Dalla lettura del dispositivo la Corte ha assolto Lucano dai reati più gravi e con lui tutti gli altri 17 imputati. Rimane solo una condanna a un anno e sei mesi, con pena sospesa.
L’ex sindaco non trattiene l’emozione e dice senza esitare: «Rifarei tutto, fino all’ultimo. Oggi ho avuto ragione ma non ho mai smesso di credere nella giustizia. Come nelle partite di calcio, bisogna aspettare la fine e alla fine il modello Riace ha vinto».
Sindaco Lucano, è soddisfatto di questa sentenza, pensa che che giustizia sia stata fatta?
«Sì, esiste la giustizia ed oggi è arrivata la risposta più bella. Io ho sempre creduto nella giustizia, non mi sono mai permesso di dire parole fuori posto rispetto a quello che mi stava succedendo. Ho avuto rispetto di chi mi ha condannato, sapevo di non aver fatto nulla di male. Avevo questa speranza e non l’ho mai persa. E soprattutto: rifarei tutto fino all’ultimo. Non ho mai avuto un’incertezza, solo l’ orgoglio di portare avanti un ideale di giustizia. Sono finalmente felice perché in un attimo tutto si è risolto ed è sparito anche quel senso di oppressione che mi ha accompagnato in tutti questi anni, sconvolgendo una parte della mia vita».
Questa sentenza riabilita il suo operato e anche il modello Riace?
«Io mi sono rapportato alle politiche dell’immigrazione quasi per una casualità, per degli sbarchi di cittadini curdi avvenuti negli anni 90 sulle coste calabre. Poi da sindaco ho portato avanti una strategia locale di risveglio e ripopolazione dei luoghi. In questo modo ho dato senso alla mia figura di primo cittadino di un piccolo paese della Calabria spopolato e oppresso dalle mafie. Da Riace abbiamo trasmesso un messaggio al mondo: l’immigrazione non è un problema ma una speranza che fa rivivere i luoghi. Un teorema alternativo all’idea dell’invasione. Adesso con questa sentenza finalmente Riace dice la sua: non era come qualcuno voleva far intendere».
Le accuse di questi anni, però, hanno intaccato la sua immagine. Si aspetta delle scuse?
«La campagna mediatica contro di me era finalizzata solo a far prevalere ideali di razzismo e discriminazione, che in questi anni sono diventati valori. Oggi la risposta è scritta dalla Corte e dice che Riace non ha una storia criminale ma umana. Non c’era nessun sistema di interesse. L’obiettivo di chi ci ha dato addosso era solo reprimere ciò che stava avvenendo. Non mi interessano le scuse e non le pretendo. Mi basta che giustizia sia stata fatta».
Ora riprenderà il suo impegno per l’accoglienza dei migranti a Riace?
«In questi anni non ho mai smesso di impegnarmi nella mia città, Riace, con il progetto del Villaggio globale ho continuato a resistere ed andare avanti. Anche la raccolta fondi finalizzata al pagamento della mia multa l’ho utilizzata per far ripartire l’accoglienza dei rifugiati. Volevo che non si interrompesse quel percorso nel luogo che è stato il simbolo dell’integrazione. Oggi questa sentenza ci rafforza ancora di più: la nostra storia è quella di un piccolo comune che ha inviato un messaggio di umanità al mondo».
Nonostante le accuse e le prime condanne, tante persone sono rimaste al suo fianco.
«Questa vittoria la dedico ai miei avvocati e a tutta la comunità che si è stretta intorno a me. Anzi, voglio chiedere scusa se a qualcuno ho creato sofferenza. Con me sono state assolte tutte le altre persone coinvolte nel processo e questo è fantastico. Ed è altrettanto straordinaria questa comunità che si è creata e che non ha smesso di chiedere giustizia. Ci sono state forme empatiche incredibili. In questi anni ho viaggiato molto, in tantissimi mi hanno espresso vicinanza. Finalmente oggi anche loro hanno la conferma di non aver sbagliato».
(da La Stampa)
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Ottobre 11th, 2023 Riccardo Fucile
HA CHIESTO 30.000 EURO AI SUOI PARLAMENTARI, PERO’ NESSUNO PAGA
Per la campagna elettorale in vista delle elezioni europee, Matteo Salvini ha bisogno di soldi. Tanti soldi. Cinque milioni in tutto è la cifra minima che il leader della Lega ha chiesto ai suoi parlamentari e dirigenti di partito il 13 settembre durante una cena organizzata in casa di Antonio Angelucci, editore del Giornale e di Libero e deputato del Carroccio.
La richiesta rivolta ai deputati e senatori era esosa: 30 mila euro a testa una tantum per finanziare la campagna elettorale, oltre ai 3 mila che ogni mese i parlamentari del Carroccio devono versare al partito.
Inizialmente era un invito rivolto ai parlamentari più “facoltosi” ma poi la donazione è stata chiesta a tutti indistintamente. Quella di Salvini era una pretesa e non una richiesta facoltativa: chi non verserà la sua quota rischierà sanzioni disciplinari, spiegano due parlamentari del Carroccio, che chiedono l’anonimato perché non autorizzati a parlare della questione.
Peccato che la scadenza per versare i 30 mila euro fosse il 1º ottobre, ma a quella data nessuno ha versato niente. E la richiesta del vicepremier sta creando malumori nel gruppo parlamentare della Lega: la scorsa settimana, il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari ha riunito i deputati per ricordargli l’obbligo di pagare, ma diversi parlamentari hanno evidenziato il costo troppo alto per una campagna elettorale cui molti di loro non devono nemmeno partecipare in prima persona.
In tutto Salvini ha chiesto a parlamentari e dirigenti di partito 3 milioni di euro, gli altri 2 invece dovrebbero arrivare da fundraising e donazioni dal territorio. Una cifra piuttosto alta e non facile da trovare in tempi di difficoltà per i partiti politici.
Ma il leader della Lega ha chiesto ai colleghi di partito di impegnarsi e raccogliere qualunque forma di finanziamento, anche perché il Carroccio sta ancora rientrando dal passivo dei 49 milioni dopo le inchieste giudiziarie: “Nel mondo hanno bloccato i fondi solo a noi e a un partito turco”, aveva detto alla cena da Angelucci Salvini lamentandosi dell’operato dei giudici immaginando l’ennesimo complotto giudiziario contro la Lega.
La difficoltà a reperire i fondi riguarda la Lega, ma non solo: tutti i partiti in queste settimane stanno cercando di raccogliere soldi per la campagna elettorale. Anche Forza Italia lo ha fatto a fine settembre organizzando tre giorni in ricordo di Silvio Berlusconi a Paestum. In Fratelli d’Italia invece la raccolta fondi non è ancora cominciata: nel partito, però, si fa notare che Giorgia Meloni può contare sul doppio dei parlamentari rispetto a Salvini (118 contro 66 deputati, 63 contro 29 senatori) che versano ogni mese la propria quota al partito, pari a mille euro ognuno.
Salvini però ha bisogno di raccogliere tanti soldi perché sta immaginando una campagna elettorale costosa e in grande stile.
Oltre ai classici comizi, il leader della Lega ha organizzato un tour da Nord a Sud dal titolo “L’Italia del Sì” iniziato il 2 ottobre a Trento con seconda tappa a Bolzano lunedì scorso. Nei prossimi mesi il leader della Lega farà tappa anche nel Nord-ovest fino al Sud dove celebrerà l’opera del Ponte sullo Stretto. A dicembre, invece, vuole organizzare a Milano un grande evento con i leader dei partiti sovranisti europei, da Marine Le Pen all’Afd tedesca.
(da il Fatto Quotidiano)
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Ottobre 11th, 2023 Riccardo Fucile
E SALVINI CHIEDE 5 MILIONI A PARLAMENTARI E DIRIGENTI
Le risorse sono poche, le ambizioni elevate. Così la Lega fa una doppia manovra per rimpinguare le proprie casse. Rinuncia al contratto di affitto della sede romana di via delle Botteghe oscure, firmato con enfasi solo tre anni fa, e impone una supertassa ai suoi parlamentari per finanziare la campagna elettorale.
La prima mossa è stata l’addio a Botteghe Oscure: il leader ha deciso di abbandonare i locali al numero 54 che ospitarono il Pci frequentata da Togliatti e Berlinguer, fino a D’Alema e Veltroni.
Lì, il segretario degli ex lumbard aveva voluto la nuova sede nazionale della “Lega per Salvini premier”: era l’estate del 2020, erano i tempi in cui l’allora Capitano nutriva il sogno della premiership, e preparava l’assalto alle Comunali di Roma dell’autunno successivo, poi finito male con la sconfitta del “tribuno” Michetti.
Salvini commentò con orgoglio e ironia l’affitto dell’ex feudo rosso del Bottegone: “I valori di una certa sinistra che fu, quella di Berlinguer, i valori del lavoro, degli artigiani, sono stati raccolti dalla Lega. Se il Pd chiude Botteghe oscure – disse – e la Lega riapre io sono contento, è un bel segnale”, disse nei giorni dell’ingresso nella sede il leader leghista.
L’ufficio stampa non conferma ma i motivi – secondo l’Adnkronos – sarebbero legati appunto ai costi, circa 6 mila euro al mese ma soprattutto all’agibilità del posto: mancanza di parcheggi, di servizi e limitazioni al traffico. Contratto, dunque, non rinnovato da luglio. La sede nel centro di Roma, in realtà, aveva ospitato pochi eventi di grido, fra cui un incontro fra Salvini e Marine Le Pen.
(da agenzie)
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Ottobre 11th, 2023 Riccardo Fucile
COSA NASCONDE IL VIMINALE? QUEL VIDEO POTEVA ESSERE GIRATO SOLO DA UN ESPONENTE DELLE FORZE DELL’ORDINE… ORA SI CERCA DI OCCULTARE LA VERITA’ CON VERSIONI DI COMODO
Smentita la notizia che aveva placato le polemiche sulla diffusione delle riprese utilizzate per colpire la magistrata del tribunale di Catania Iolanda Apostolico. Nessun militare si è mai accusato di sua spontanea volontà davanti ai superiori. Ma il suo nome è stato segnalato da alcuni suoi colleghi ai superiori, che hanno inviato una relazione in procura. Il militare si difende: «Non c’entro niente con questa storia». Il giallo si infittisce e resta la domanda: chi ha registrato e poi diffuso le immagini?
C’è finalmente una certezza nella storia sempre più dai toni spy del video sulla giudice Iolanda Apostolico pubblicato sui social dal vice premier e ministro dei Trasporti e leader leghista, Matteo Salvini. Il carabiniere che tra sabato e domenica scorsi tutti descrivevano come l’autore del filmato e che, secondo alcune veline, si era auto denunciato ai suoi superiori, esclude categoricamente di essere lui il regista di quelle immagini della manifestazione del 25 agosto 2018 al porto di Catania in cui è immortalata la giudice Apostolico, all’epoca alla sezione misure di prevenzione, oggi all’Immigrazione e firmataria delle ordinanze con cui ha smontato i decreti immigrazione del governo e per questo finita nel mirino della macchina del fango della propaganda della Lega di Salvini. Salvini ha chiesto le dimissioni della magistrata, colpevole secondo il vicepremier di aver preso parte all’iniziativa e che alla protesta ( dove ci sono stati anche alcuni manifestanti manganellati dalla polizia) applaudiva al coro “siamo tutti antifascisti”.
Chi ha girato quel video? È la domanda che in molti si sono chiesti fin dall’inizio. Perché dalle caratteristiche delle immagini, la qualità dello zoom sul viso della giudice, tutto lasciava pensare a una telecamerina di quelle in dotazione alla Digos o alla Scientifica della polizia usate per riprendere i cortei, immagini archiviate e necessarie per eventuali approfondimenti sui manifestanti facinorosi. A rafforzare questa ipotesi il fatto che le riprese sono state effettuate dalla “zona rossa”, dietro il cordone di agenti in tenuta antisommossa, vietata ai giornalisti, che infatti stavano o tra i manifestanti o alle spalle del cordone in alto sopra una balaustra. In effetti c’erano ben due agenti armati di telecamerina, uno di questi con tanto di elmetto si trovava in corrispondenza dell’angolo dalla quale sono state effettuate le immagini finite sui social del ministro Salvini.
CORTOCIRCUITO
Nessuna conferma ufficiale, tuttavia, che si trattasse di un poliziotto. Anzi, nella tarda serata di sabato 7 ottobre il colpo di scena. Un lancio dell’agenzia Ansa batte questa notizia: «È stato girato da un carabiniere con il suo cellulare il video postato sui social dal vicepremier…Ora il militare rischia di finire iscritto nel registro degli indagati. Tra i reati ipotizzabili: abuso d’ufficio e rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio…sarebbe stato lo stesso militare, si apprende, a riferire spontaneamente ai suoi superiori che cinque anni fa aveva girato quelle immagini con il cellulare senza alcuna finalità. Video che non sarebbe mai stato allegato ad atti interni o a informative all’autorità giudiziaria e che, solo alcuni giorni fa, sarebbe stato condiviso con una ristretta cerchia di persone. I superiori del militare hanno già informato l’autorità giudiziaria di Catania».
Storia chiusa, quindi. Macché. A inizio settimana un nuovo colpo di scena G. B. (le iniziali del militare) ingaggia l’avvocato Cristian Petrina, specializzato in diritto militare, e si rivolge al Sim, il “Sindacato italiano militari carabinieri”: «Esclude categoricamente che lo stesso abbia mai comunicato ai propri superiori di esserne l’autore». Fonti vicine a G. B. riferiscono che il militare non sappia nulla di questo video, che non è certamente lui l’autore delle riprese e che è una vera bufala che sia andato ad autodenunciarsi ai superiori per qualcosa che non ha fatto. Può darsi che G.B. lo dica per difendersi, ma c’è anche l’altra ipotesi: qualcuno lo ha incastrato? E se sì, per coprire chi? Persone molto vicine al militare spiegano che ha saputo di essere lui il sospettato da fonti certe, che non vuole rivelare, ma non in via ufficiale. Insomma, nessuna carta bollata ricevuta da G.B.
Potrebbe allora essere un altro carabiniere l’uomo che si è autodenunciato? No. Perché a Domani, fonti qualificate dell’Arma dei carabinieri, confermano la filiera che ha portato G. B. a doversi confrontare con l’accusa di essere lui la manina che ha girato e poi inoltrato il filmato sulla giudice. I fatti sono questi: G.B. si sarebbe vantato con alcuni suoi colleghi di essere l’autore del video e di averlo inviato su alcune chat, i custodi di questa confidenza hanno, però, deciso di segnalarlo al comando provinciale dei carabinieri di Catania, i quali hanno inviato una nota in procura. In pratica G.B. è stato segnalato dai altri carabinieri, tra questi anche un superiore, che hanno considerato quella confessione poco goliardica e molto compromettente. Così per tutelarsi hanno attivato i più alti in grado. Solo in seguito alla segnalazione, e senza sentire la versione di G.B, il comando ha scritto tutto in una relazione ora sul tavolo dei pm. Il sindacato Sim dei carabinieri, tramite il segretario Antonio Serpi, dice: «Pretendiamo di scoprire da dove è uscito l’attacco a questa persona». Serpi poi conferma che «non esiste alcun carabiniere che si è autodenunciato, incluso il militare che si è rivolto a loro, figuriamoci se dietro un cordone di polizia poteva esserci un appartenente a un altro corpo peraltro con una telecamera, non avrebbe potuto, non esiste».
L’INDAGINE
La procura di Catania ha un fascicolo sulla vicenda a modello 45, cioè senza ipotesi di reato e senza indagati. I pm hanno anche la relazione su G.B proveniente dall’Arma. Inoltre a breve potrebbero ricevere gli atti relativi all’esposto presentato alla procura di Roma dai parlamentari di Verdi e Sinistra che chiedono di indagare sull’origine del video per escludere che al ministero dell’Interno o nelle Questure esista una sorta di centrale di dossieraggio. G.B. non è ancora stato convocato dai magistrati né lui si è presentato. Chi lo conosce bene è convinto che sarà in grado di smontare il castello di accuse. è nota poi l’amicizia con uno dei protagonisti di questi giorni caldi a Catania, Anastasio Carrà, il leghista catanese, deputato e sindaco di Motta Sant’Anastasia nonché ex carabiniere come G.B. Carrà in passato a è stato a capo del comando di Piazza Dante, cioè tribunale. Il leghista è stato fin da subito il primo indiziato per la diffusione del video: è stato il primo a fare il nome della giudice ripresa alla manifestazione, mentre il suo leader si era limitato a scrivere «riconosco un volto familiare…». Carrà ha sempre negato, anche in una intervista a Meridionews, di c’entrare qualcosa o di essere parte della catena di diffusione del girato della manifestazione.
Una cosa è certa: il giallo di Catania non è stato risolto dalla versione trapelata e telecomandata (da chi?) secondo cui un carabiniere si è autodenunciato e fine della storia. Forse qualcuno pensava di archiviarla così senza altre conseguenze. Ma la pezza è certamente peggio del buco. E riporta a galla l’ipotesi che la manina possa anche essere di un poliziotto in servizio con in mano una telecamera di servizio. Ma su questo i pm lavorano già per capire e risolvere una volta per tutte il papocchio al cui principio c’è solo lui, il Capitano Salvini.
(da editorialedomani.it)
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Ottobre 11th, 2023 Riccardo Fucile
“LA SOLUZIONE DEI DUE STATI SI E’ RIVELATA UN’ILLUSIONE”
“La versione israeliana dell’apartheid è peggiore di quella vissuta dai neri in Sudafrica”. Inoltre gli oltre due milioni di palestinesi residenti nella Striscia di Gaza subiscono da Israele “gravi violazioni dei loro diritti umani fondamentali, incluso il diritto di movimento, l’accesso all’assistenza sanitaria e l’importazione di beni essenziali”.
La segregazione di milioni di persone su base etnica – in quella che lo storico israeliano Ilan Pappe ha definito “La più grande prigione della Terra”, ha generato povertà estrema e marginalizzazione sociale.
“Non è sorprendente che la resistenza sia emersa e si sia sviluppata come risposta a queste circostanze di vita disumane”.
A dirlo, intervistato da Fanpage.it, il professor Tariq Dana, docente di “Conflict and humanitarian studies” presso il Doha Institute for Graduate Studies ed autore di numerosi studi sul colonialismo d’insediamento israeliano in Palestina. Con lui, abbiamo ripercorso le origini del nuovo conflitto tra Israele e i palestinesi scoppiato dopo l’attacco di Hamas di sabato scorso.
Quali sono le ragioni storiche che hanno scatenato questa guerra tra Israele e Hamas?
Le radici storiche di questo conflitto possono essere fatte risalire alla violenta creazione di Israele, che ha comportato la pulizia etnica e lo spostamento dei palestinesi dalle loro città e villaggi. A seguito della Nakba palestinese del 1948, una parte significativa dei palestinesi è stata costretta nella Striscia di Gaza, luogo in cui oggi costituiscono circa il 70% della popolazione. Dopo l’occupazione della regione nel 1967, Gaza è stata sottoposta a un trattamento duro e costante, soprattutto durante le intifade palestinesi alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni 2000.
Nella storia più recente, la situazione è stata aggravata da un blocco israeliano su Gaza iniziato nel 2007. Ciò ha trasformato Gaza in quella che è spesso definita la più grande prigione a cielo aperto del mondo, confinando circa 2 milioni di palestinesi dietro frontiere di terra, mare e aria, nonché sotto l’occhio vigile delle basi militari israeliane e dell’infrastruttura di sicurezza ad alta tecnologia israeliana. I residenti di Gaza affrontano gravi violazioni sui loro diritti umani fondamentali, incluso il diritto di movimento, l’accesso all’assistenza sanitaria e l’importazione di beni essenziali. Di conseguenza, l’area ha assistito a una povertà estrema e a una marginalizzazione sociale. Date queste circostanze disumane, non è sorprendente che la resistenza sia emersa e si sia sviluppata come risposta.
Perché secondo lei Hamas ha deciso di lanciare un attacco proprio ora?
La decisione di Hamas di lanciare un attacco in questo momento particolare è multifattoriale e radicata in una complessa rete di fattori. Da un lato, la mossa potrebbe essere vista come una reazione alla costante sottomissione e al trattamento duro e disumano inflitto ai palestinesi dalle politiche israeliane. Tuttavia, è importante riconoscere che la lotta palestinese funge da sorta di test per le posizioni politiche e morali non solo all’interno della regione, ma anche in un contesto internazionale più ampio. La questione influisce sulle alleanze, le partnership e persino sulle politiche interne di paesi ben oltre la vicinanza immediata del conflitto.
Inoltre, il conflitto palestinese-israeliano ha un notevole peso nella politica globale, a causa dell’importanza geopolitica di Israele per gli interessi imperiali occidentali nel Medio Oriente. Questa dinamica è ulteriormente complicata dagli attuali cambiamenti nella politica regionale e globale. Pertanto, il tempismo dell’operazione di Hamas dovrebbe essere analizzato all’interno di questo contesto più ampio di cambiamenti politici regionali e globali. Per comprendere appieno perché sia stato scelto questo momento particolare per l’attacco, sarebbe opportuno osservare come il conflitto si sviluppa nel prossimo periodo, specialmente in termini di possibile coinvolgimento diretto da parte di altri attori regionali.
Nel suo attacco di sabato Hamas ha ucciso centinaia di civili e catturato molti ostaggi: la brutalità di questa azione non rischia di far perdere di vista le ragioni della causa palestinese?
La questione dell’impatto delle azioni violente sulla percezione della causa palestinese è complessa. Dal punto di vista palestinese, i coloni israeliani non sono considerati civili nel senso tradizionale. Sono generalmente armati, ricevono un addestramento militare e spesso prestano servizio nell’esercito israeliano. Questo complica la categorizzazione semplice di loro come non combattenti.
Inoltre, la fiducia dei palestinesi nella cosiddetta comunità internazionale, e in particolare nell’opinione occidentale, sembra essere notevolmente diminuita. Questa disillusione può essere vista come un sottoprodotto del fallimento della comunità internazionale ad intervenire efficacemente a Gaza, nonostante 16 anni di blocco e diverse guerre devastanti scatenate da Israele che hanno provocato migliaia di morti civili e una vasta distruzione delle infrastrutture.
Data la percepita complicità del mondo occidentale nella tragedia che ha colpito Gaza, oltre all’evidente ipocrisia nell’affrontare il conflitto israelo-palestinese, sorge la domanda: perché l’opinione del mondo occidentale dovrebbe avere un peso significativo in questa materia?
Quanto hanno influito – nelle rivolte palestinesi degli ultimi giorni – le politiche di apartheid, le violenze dei coloni e le provocazioni di Israele nella moschea di al-Aqsa?
I fattori che avete menzionato – politiche di apartheid, violenza dei coloni e provocazioni alla moschea di al-Aqsa – sono effettivamente centrali nel conflitto. Prendete ad esempio il nome dell’operazione, “Alluvione di Al-Aqsa”, che evidenzia l’importanza dei tentativi israeliani di controllare uno dei siti più sacri dell’Islam. Le azioni provocatorie di Israele si estendono oltre l’Islam per includere anche i luoghi più sacri del cristianesimo, esacerbando le tensioni su basi religiose.
Anche la violenza dei coloni israeliani e le politiche simili all’apartheid sono al centro della questione. Riflettono una posizione aggressiva nei confronti dei palestinesi che è radicata da decenni. Quello che esaspera la situazione è che Israele sembra non aver imparato o modificato il suo approccio in anni di confronto diretto con i palestinesi. Si potrebbe sostenere che la politica israeliana è guidata da una forma di arroganza, che si manifesta nella riluttanza a fare cambiamenti sostanziali nelle sue politiche nei confronti dei palestinesi. Questo non solo ha alimentato il risentimento, ma ha anche rafforzato le basi per la resistenza tra i palestinesi. Pertanto, questi fattori non sono semplici questioni marginali; sono integrali al cuore stesso del conflitto in corso.
Alcuni analisti internazionali non si limitano a elencare ragioni “interne”, ma sostengono che l’Iran abbia avuto un ruolo determinante nell’attacco di Hamas. Lei è d’accordo?
L’Iran svolge certamente un ruolo nella dinamica del conflitto, ma descriverlo come “determinante” potrebbe essere un’esagerazione. È ben noto, e riconosciuto dalle fazioni palestinesi, che l’Iran ha fornito aiuti militari ai movimenti di resistenza a Gaza. Sebbene l’Iran abbia negato di avere un ruolo nelle fasi di pianificazione di queste operazioni, è probabile che abbia offerto assistenza tecnica e militare convenzionale.
Nell’ultimo decennio, possiamo vedere una marcata evoluzione nelle strategie e nelle tattiche impiegate da Hamas e altri gruppi di resistenza palestinesi. L’operazione attuale riflette questa crescita. Dimostra un livello senza precedenti di coordinamento e pianificazione strategica. Ciò include l’uso di tecniche avanzate in guerra elettronica, operazioni psicologiche e tattiche di guerriglia, che bilanciano efficacemente la superiorità tecnologica e la potenza di fuoco sproporzionata di Israele. Sebbene il sostegno dell’Iran abbia indubbiamente rafforzato le capacità delle fazioni palestinesi, gli sviluppi che stiamo vedendo sono il risultato di una più lunga evoluzione nella strategia e nelle tattiche palestinesi, che non possono essere attribuiti esclusivamente all’influenza iraniana.
Lei ha pubblicato lavori accademici sul “colonialismo di insediamento”. L’apartheid dei palestinesi può essere paragonato alla segregazione razziale istituita nel 1948 dal governo di etnia bianca del Sudafrica, e rimasta in vigore fino al 1991?
Il confronto tra la situazione dei palestinesi e quella dei neri in Sudafrica è stato spesso fatto, ma alcuni sostengono che l’esperienza palestinese sia addirittura più grave. Secondo l’arcivescovo emerito Desmond Tutu, una figura di spicco nella lotta contro l’apartheid sudafricano, la versione israeliana dell’apartheid è effettivamente peggiore di quella vissuta in Sudafrica. Tutu ha affermato: “Non solo questo gruppo di persone [i palestinesi] è oppresso più di quanto gli ideologi dell’apartheid potessero mai sognare in Sudafrica, ma la loro stessa identità e storia vengono negate e offuscate”.
Entrambe le situazioni comportano discriminazione sistematica, espropriazione di terre e segregazione sociale, tuttavia il caso palestinese ha caratteristiche uniche che lo rendono più grave. Per esempio, i palestinesi devono affrontare non solo disuguaglianze sistematiche, ma anche occupazione militare, blocchi e continua appropriazione di terre, tra le altre questioni. Inoltre, la cancellazione o la negazione della storia e dell’identità palestinese aggiunge un ulteriore livello di complessità e sofferenza all’esperienza palestinese. In sintesi, sebbene il confronto con l’apartheid sudafricano sia illuminante, esso è anche insufficiente nel catturare la piena estensione delle difficoltà affrontate dai palestinesi.
Hamas ha dichiarato: “Continueremo a combattere finché non otterremo la vittoria, la libertà e l’indipendenza”. Questa dichiarazione equivale all’abbandono di ogni possibile negoziato di pace con Israele?
L’idea che questa dichiarazione implichi l’abbandono di eventuali colloqui di pace presuppone in primo luogo che stessero avvenendo negoziati significativi. La realtà è che non ci sono stati negoziati per oltre un decennio. Persino l’Autorità Palestinese, che ha formalmente riconosciuto Israele e collabora con essa su questioni di sicurezza, si trova nell’impossibilità di ottenere incontri con i politici israeliani. In questo contesto, il cosiddetto “processo di pace” appare più come un’illusione o una cortina di fumo, sotto la quale Israele è stata in grado di approfondire i suoi sforzi di colonizzazione.
Crede che i palestinesi in Cisgiordania e in Israele si uniranno alla rivolta contro Israele? Se no, perché?
Le condizioni oggettive che potrebbero alimentare una rivolta diffusa tra i palestinesi in Cisgiordania e Israele sono indubbiamente presenti. Tuttavia, la situazione è estremamente complessa. Anche prima dei recenti sviluppi a Gaza, abbiamo visto scoppi di violenza in varie località della Cisgiordania. In luoghi come Jenin, Nablus e Tulkarem, sono emersi nuovi gruppi armati non affiliati alle tradizionali fazioni palestinesi. Questi gruppi sfidano non solo le truppe israeliane, ma anche le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese, complicando la possibilità di un’azione coordinata. L’evoluzione del conflitto in corso potrebbe svolgere un ruolo significativo nel plasmare le azioni dei palestinesi in Cisgiordania. Se dovesse esserci un’ulteriore escalation, è plausibile che potremmo vedere azioni militari originare dalla Cisgiordania.
All’interno di Israele, i palestinesi potrebbero optare per metodi di lotta diversi, incluse proteste popolari meno militarizzate ma comunque politicamente significative. Le dinamiche all’interno di Israele sono diverse, dato lo status di cittadinanza dei palestinesi lì, ma il malcontento e le disuguaglianze strutturali sono molto simili. Pertanto, non è al di fuori del campo delle possibilità che i palestinesi sia all’interno di Israele che in Cisgiordania possano trovare vari modi per unirsi a una rivolta più ampia, ciascuno contribuendo in un modo dettato dai loro specifici contesti geopolitici e sociali.
Cosa può fare la comunità internazionale per favorire il processo di pace duraturo e che garantisca i diritti di tutti i cittadini palestinesi?
Per promuovere una pace duratura che garantisca i diritti di tutti i cittadini palestinesi, la comunità internazionale deve andare oltre la mera retorica e i gesti simbolici. Principalmente, devono esistere meccanismi di responsabilità reali per rendere Israele responsabile delle sue azioni, incluse le violazioni del diritto internazionale e gli abusi dei diritti umani. Sanzioni economiche e conseguenze diplomatiche dovrebbero essere messe sul tavolo, come è stato fatto con altri stati che violano le norme internazionali. La ricerca palestinese di giustizia e autodeterminazione continuerà ad essere un importante banco di prova negli affari del Medio Oriente. Le ripercussioni di questa operazione potrebbero costringere gli attori regionali e globali a riconsiderare le politiche che sottovalutano le aspirazioni palestinesi. Sebbene alcuni abbiano sminuito la centralità della causa palestinese nel contesto di un mutamento geopolitico, gli eventi in corso hanno dimostrato che la lotta anti-coloniale conserva ancora un notevole peso nel plasmare le realtà regionali.
Come mai gli accordi di Oslo e la soluzione “due popoli, due stati” sembra impraticabile? Ci sono alternative?
La soluzione dei due Stati si è progressivamente rivelata un’illusione. Il quadro degli accordi di Oslo non era genuinamente progettato per culminare in due Stati sovrani che vivono fianco a fianco. Piuttosto, era strutturato per stabilire una forma di dominio coloniale indiretto. In base a questa disposizione, l’OLP avrebbe amministrato le città palestinesi densamente popolate nella Cisgiordania, ma questa amministrazione sarebbe servita anche a facilitare gli obiettivi israeliani. In particolare, l’autoregolamentazione da parte dell’OLP, in coordinamento con Israele, era principalmente volta a salvaguardare gli insediamenti israeliani e a mantenere le strutture coloniali.
L’unica alternativa valida per una pace giusta implica lo smantellamento fondamentale dell’ideologia sionista che sottende lo stato israeliano, poiché è la causa radicale del conflitto. Inoltre, qualsiasi soluzione sostenibile deve affrontare il diritto di ritorno per i rifugiati palestinesi e garantire l’uguaglianza e la giustizia per tutti. Senza questi elementi fondamentali, la lotta indubbiamente persisterà e una pace duratura nella regione rimarrà irraggiungibile.
(da Fanpage)
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Ottobre 11th, 2023 Riccardo Fucile
IL PRESIDE: “SONO QUASI TUTTI NATI QUA, UNA DECISIONE RAZZISTA”
«Mio figlio non può stare in classe con uno ‘gnoro (nero in barese, ndr.)», è la giustificazione razzista di una madre al dirigente dell’istituto comprensivo Eleonora Duse di Bari, Gerardo Marchitelli.
La storia, raccontata dall’edizione barese di Repubblica, risale all’inizio dell’anno scolastico quando alcune famiglie si sono lamentate con il preside per la presenza di stranieri in classe.
Quattro bambini della primaria Don Bosco – che fa parte dell’istituto comprensivo Eleonora Duse – alla fine sono stati trasferiti in altre scuole dopo che le famiglie hanno ottenuto il nullaosta di iscrizione da Marchitelli. Ma le richieste erano molte di più.
Il plesso si trova nel quartiere Libertà di Bari, uno dei più multietnici. Nella primaria il 48% degli studenti non ha un’origine italiana ma «sono quasi tutti nati a Bari», come sottolinea Marchitelli. Un caso di razzismo che confuta il famoso detto: «A Bari nessuno è straniero».
Il dirigente: «non accettiamo alcuna arroganza culturale»
«Pensi che a loro importi se l’altro abbia la pelle, i capelli o qualche altro tratto differente», dice Marchitelli indicando al giornalista di Repubblica i bambini che giocano in cortile. Sicuramente la provenienza dei piccoli, di cinque e sei anni, aveva un peso per i genitori dei quattro bambini trasferiti, tutti della stessa classe. Il dirigente racconta che dopo il primo giorno di scuola le famiglie, di bassa scolarizzazione, hanno subito richiesto il trasferimento in un’altra classe.
Ma non sarebbe cambiato niente, vista la presenza in tutte le sezioni di alunni di origine non italiana. «Le iscrizioni ora avvengono online addirittura gli stranieri vanno a farle al Caf, dato che a volte non hanno rete a casa. Per la formazione delle classi, quindi, tutto va bene fin quando i genitori non le vedono il primo giorno di scuola, quando la maestra le accoglie e chiama a sé gli alunni», racconta Marchitelli.
«Alla vista di quelli stranieri, molte famiglie mi hanno chiesto il cambio classe. Inizialmente avevano nascosto la motivazione, fin quando poi è venuto fuori che era proprio per la loro presenza», conclude il preside.
E dietro le richieste non ci sarebbe stata alcuna lite tra i bambini, per il dirigente è stata una decisione razzista: «Ho detto loro che l’unica possibilità che avevano era chiedermi il nulla osta e andare via. Ci sono alcuni valori su cui la scuola non può transigere e non può essere ricattabile».
I quattro nullaosta sono stati firmati il 20 settembre, ma altri genitori hanno ritirato le loro domande. Nulla ovviamente è stato riferito agli alunni della classe interessata che hanno perso quattro dei loro compagni. Il caso scoppiato quest’anno non è però una novità per l’istituto Duse che ancora prima dell’inizio delle attività scolastiche aveva ricevuto le lamentele di alcune mamme per l’arrivo di due ragazzi stranieri. Anche negli anni passati c’erano state richieste di nullaosta, uno o due sostiene il preside, ma mai concretizzate.
Quest’anno invece l’escalation. «Tutto questo mi ha mortificato e ferito. Bisogna capire che la scuola è un porto dove tutti possono ormeggiare, tutti trovano accoglienza. E questo è il punto di forza della scuola Don Bosco. Ritengo che ancora molti muri siano da abbattere, è più facile vedere diversità rispetto a costruire ponti. La Don Bosco nel suo piccolo è quella casa comune nella quale queste differenze si animano e arricchiscono tra loro. E qui non accettiamo alcuna arroganza culturale, di appartenenza o ceto sociale», sostiene Marchitelli.
Il preside riflette poi sull’assenza a scuola di progetti per l’integrazione. Il motivo è uno solo: «manca un’educazione pedagogica alla persona: c’è bisogno di vederla semplicemente come essere umano. Che c’entra il genere, il colore della pelle, da dove viene o tutto il resto? Ci sono da abbattere ancora mille muri». E gli enti scolastici, il comune e le istituzioni lavorano proprio per distruggere queste barriere «ma non possono prevedere poi queste singole azioni», conclude il dirigente. C’è ancora molta strada da fare anche perché secondo Marchitelli «lo straniero è accettato solo se serve. E questo non accade soltanto a Bari».
(da La Repubblica)
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Ottobre 11th, 2023 Riccardo Fucile
ESILARANTE: GARANTE DEI DETENUTI UN “NON ESPERTO” ESPONENTE DI FRATELLI D’ITALIA…ILARIA CUCCHI: “DEVE ESSERE INDIPENDENTE, LA COMMISSIONE HA IL DIRITTO DI VALUTARLO”
La terna che andrà a comporre il collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale deve ancora insediarsi. Ma è già dalla scorsa estate che la nomina del presidente, Felice Maurizio D’Ettore, e degli altri due componenti, ha innescato una serie di polemiche che investono via Arenula e la maggioranza di governo.
C’è chi protesta per la scelta di portare nell’autorità due civilisti, chi ritiene inadeguata l’esperienza dei designati sul tema carceri. E chi, come Debora Serracchiani del Partito democratico, si spinge a definire contra legem la nomina di D’Ettore: «Al comma 2 dell’articolo 7 della legge istitutiva dell’organo, si stabilisce che i suoi membri “sono scelti tra persone, non dipendenti delle pubbliche amministrazioni, che assicurano indipendenza e competenza nelle discipline afferenti la tutela dei diritti umani”.
D’Ettore, in quanto professore universitario, è un pubblico dipendente a tutti gli effetti». Ma è in commissione Giustizia a Palazzo Madama che si è aperto l’ultimo fronte tra maggioranza e opposizioni riguardo all’insediamento dell’ex deputato, che nella sua lunga carriera politica è passato da Forza Italia a Coraggio Italia, fino ad essere accolto, nel 2022, nel partito di Giorgia Meloni.
La vicepresidente della Commissione, la senatrice di Alleanza verdi e sinistra Ilaria Cucchi, insieme alle altre opposizioni, ha chiesto di poter svolgere delle audizioni con D’Ettore. Il centrodestra, alla richiesta reiterata due volte, ha opposto un “no” secco, senza fornire spiegazioni.
In un colloquio avuto con Cucchi fuori da Palazzo Madama, la senatrice racconte a Open il dietro le quinte di cosa è avvenuto in commissione Giustizia, la mattina dell’11 ottobre. E annuncia l’intenzione «di andare in fondo alla questione». Biasima «il modus operandi terribile della maggioranza» e afferma: «Non riesco innanzitutto a comprendere l’urgenza di questa nomina, non riesco a capire perché ci viene dato così poco tempo per valutarla e, soprattutto, non riesco a tollerare che in qualità di membri della commissione Giustizia del Senato – della quale lei è vicepresidente -, non siamo messi nelle condizioni di lavorare serenamente in maniera completa, con tutti gli elementi a disposizione». La senatrice pretende di poter audire i nuovi componenti del Garante designati dalla maggioranza, per capire «se le persone indicate sono veramente indipendenti, se hanno veramente competenza e se faranno il loro dovere, ossia garantire il rispetto dei diritti delle persone private della libertà personale».
Vista l’esplicita appartenenza politica del nuovo presidente, già deputato per diversi partiti di centrodestra nella XVIII legislatura, Cucchi definisce «inaccettabile la nomina». E conclude: «Sappiamo benissimo cosa pensa la nostra maggioranza sui diritti, soprattutto dei più fragili. Per questo sono estremamente preoccupata. Tuttavia, non voglio giudicare il nuovo Garante prima di conoscerlo, per questo mi piacerebbe poterci parlare in commissione. Magari potrei anche ricredermi, chi lo sa».
(da Open)
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Ottobre 11th, 2023 Riccardo Fucile
“IL GOVERNO MELONI DEVE AFFRONTARE UNA NOTEVOLE PRESSIONE POLITICA PER OTTENERE DI PIÙ DEI SUOI IMPEGNI ELETTORALI, IL CHE PESA SULLE PROSPETTIVE DI UN MAGGIORE CONSOLIDAMENTO E SULLE RIFORME”
Le stime della Nadef rappresentano ‘un significativo allentamento della politica di bilancio rispetto agli obiettivi precedenti’ del governo italiano. Lo scrive l’agenzia Fitch. ‘Le nostre previsioni aggiornate sul deficit pari al 5,2% del Pil nel 2023 e al 4,2% nel 2024 sono ormai vicine ai nuovi obiettivi del governo dopo le nostre revisioni di maggio’.
Fitch prevede un calo più contenuto del debito che, riflettendo la revisione del deficit, in rapporto con il Pil scenderà di 1,3 punti percentuali al 140,3% quest’anno, meno rispetto ai 2,2 punti percentuali stimati a maggio. Il debito si stabilizzerà al 140% del Pil nel 2025.
Il deficit per il 2023, pari nella Nadef al 5,3% del Pil contro il 4,5% del Def di aprile, è influenzato dal costo del Superbonus, sottolinea Fitch. L’obiettivo più ampio per il 2024, pari al 4,3%, incorpora un pacchetto fiscale netto di 0,7 punti percentuali, che dovrebbe includere circa 0,6 punti di tagli fiscali principalmente sul lavoro.
Anche gli obiettivi di disavanzo per gli anni successivi “sono stati allentati” fino al 2,9% del 2026. La stima di un graduale calo del rapporto debito/Pil al 139,6% nel 2026 incorpora anche i proventi delle privatizzazioni pari all’1% del prodotto interno lordo, “che consideriamo ambizioso”, scrivono ancora gli analisti
Fitch riconosce che “il sostegno pubblico al governo Meloni ha retto e la maggioranza parlamentare è più stabile rispetto a molte amministrazioni precedenti”. Tuttavia l’esecutivo “deve affrontare una notevole pressione politica per ottenere di più dei suoi impegni elettorali, il che pesa sulle prospettive di un maggiore consolidamento e sulle riforme per ridurre i rischi fiscali”.
L’agenzia ha rivisto le previsioni di crescita del Pil per l’Italia a settembre allo 0,9% nel 2023, all’1,0% nel 2024, all’1,0% nel 2024 e all’1,3% nel 2025 (una crescita media leggermente inferiore a quella ipotizzata nel Nadef). Ora definisce “un’incertezza chiave” l’accelerazione o meno dell’utilizzo dei fondi del Pnrr, dopo i rallentamenti nell’assorbimento delle risorse.
(da agenzie)
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Ottobre 11th, 2023 Riccardo Fucile
LA SCHEDA TELEFONICA, INTESTATA AL PRESIDENTE DEL SENATO, POTREBBE SERVIRE AGLI INQUIRENTI PER TRACCIARE GLI SPOSTAMENTI DI LEONARDO APACHE
Il caso del presunto stupro per cui è indagato a Milano Leonardo Apache La Russa, figlio del presidente del Senato, finirà in Parlamento in tempi ancora da capire. Per quel che risulta, i magistrati sono intenzionati a chiedere l’autorizzazione alla Giunta del Senato per ottenere la sim del cellulare di La Russa jr. Particolare di non poco conto e che non piacerà a Ignazio La Russa, già messo sulla graticola mediatica dopo il servizio di Report su affari e contatti della sua famiglia, smentiti, va detto, in modo categorico dallo stesso La Russa.
Ora la sim potrebbe servire agli inquirenti per tracciare gli spostamenti di Apache nei giorni tra il 18 e il 19 maggio e successivi, giorni in cui, secondo la denuncia della presunta vittima, una ragazza milanese di 22 anni, si sarebbe consumata la violenza. Nell’inchiesta è indagato anche Tommaso Gilardoni, 24 anni, comasco, e studi in Economia a Londra.§
La sim in questione riguarda i due telefoni di La Russa, consegnati in modo spontaneo alla Squadra mobile diretta da Marco Calì, assieme alla sim, poi restituita a La Russa per non violare l’articolo 68 della Costituzione rispetto alle guarentige dei parlamentari. Gilardoni, da quando è emersa la notizia della sua iscrizione, per quel che risulta agli inquirenti, non è più tornato in Italia né ha consegnato il telefono.
l punto di una futura richiesta alla giunta indica poi come la Procura non sia indirizzata verso un’ipotesi di archiviazione. I due ragazzi sono indagati per violenza sessuale senza l’aggravante dello stupro di gruppo. I fatti sotto inchiesta si consumano tra il 18 e il 19 maggio, prima nel locale “Apophis” di via Merlo, dove la ragazza, dopo aver assunto consapevolmente cocaina, cannabinoidi e benzodiazepine (ma per prescritti motivi di salute), dice di aver bevuto un drink offerto da La Russa (scena non confermata dalle decine di persone presenti nel club e sentite dalla Mobile), dopodiché non ricorda più nulla. Fino al risveglio del 19 in casa del presidente del Senato, in camera con accanto Apache.
Oltre all’analisi delle chat nel telefono di La Russa jr, la Procura sta eseguendo analisi genetiche sulle tracce biologiche repertate dal centro antiviolenza della Mangiagalli dove la presunta vittima si reca il 19 maggio. Per quel che risulta da queste tracce, i pm hanno individuato un solo Dna maschile e non due come era ipotizzabile. Scoperta di rilievo che se confermata potrebbe mettere in dubbio la ricostruzione della denuncia.
Per trovare un match, genetico e investigativo, bisognerà procedere al prelievo del Dna dei due indagati. Per La Russa jr, come già avvenuto in trasparenza per il cellulare, non sarà complicato. Da capire Gilardoni, il cui prelievo potrà avvenire anche attraverso una richiesta rogatoriale.
(da agenzie)
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