Ottobre 23rd, 2023 Riccardo Fucile
“SCONFIGGERE HAMAS? ISRAELE LO DICE DA ANNI”
Josep Borrell stronca la linea von der Leyen e apre una crepa all’interno non solo dell’Unione europea, ma della stessa Commissione.
Le parole dell’Alto rappresentante per la politica estera, che è anche vicepresidente a Palazzo Berlaymont, al termine del Consiglio Affari Esteri suonano infatti come una critica all’operato d’Israele a Gaza, che ha provocato circa 5mila morti in appena due settimane di bombardamenti, e rinnegano la posizione di pieno e incondizionato sostegno dell’Ue a Israele e Stati Uniti assunta da Ursula von der Leyen durante la sua missione a Washington.
“È la quinta guerra che vedo a Gaza e ogni volta ho sentito dire ‘questa volta la facciamo finita con Hamas‘ – ha detto il capo della diplomazia europea – L’ho ascoltato troppe volte“.
E ha poi commentato così le migliaia di morti palestinesi a causa dei razzi di Tel Aviv sulla Striscia: “Non si ottiene la pace per il futuro infliggendo ai bambini di Gaza sofferenze. Ogni diritto ha dei limiti e in un assedio non ci può essere un taglio dell’acqua e dell’elettricità, lo abbiamo detto più volte così come abbiamo condannato fermamente gli attacchi brutali di Hamas”.
La chiarezza della posizione espressa da Borrell rende ancora più marcata la distanza con quella di Ursula von der Leyen, fortemente criticata nei palazzi delle istituzioni europee dopo il suo intervento all’Hudson Institute di Washington.
La necessità di tutelare i civili puntando a una soluzione diplomatica, a evitare una escalation, promuovendo almeno la richiesta di una pausa umanitaria sono tutti punti che accomunano Borrell e il Consiglio Ue, ma che von der Leyen non ha affrontato nel suo lungo intervento, concentrandosi invece sulla necessità di schierarsi apertamente e senza indugi al fianco di Israele e degli Stati Uniti
Per Borrell, invece, la strada maestra non è la guerra, ma la diplomazia: “Non dobbiamo perdere di vista l’obiettivo finale, che è una soluzione a due Stati. Sono 30 anni che ne parliamo e ogni volta sembra che si allontani, mentre il numero dei coloni nei territori della Cisgiordania è triplicato dagli Accordi di Oslo. Abbiamo deciso che l’Europa deve impegnarsi a lanciare un processo politico”.
Le parole dell’Alto rappresentante arrivano nel giorno in cui è stato diffuso anche il testo della terza bozza che sarà presentata prima al Coreper e poi al Consiglio europeo di questo giovedì. E anche in esso si sottolinea la necessità di puntare sulla diplomazia per evitare una escalation del conflitto. “Il Consiglio europeo sostiene l’appello del segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres per una pausa umanitaria al fine di consentire un accesso umanitario sicuro e l’arrivo degli aiuti a chi ne ha bisogno”, si legge nella terza bozza che verrà proposta al vertice. “L’Ue lavorerà a stretto contatto con i partner regionali per la protezione dei civili – si aggiunge – Il Consiglio europeo ribadisce il richiamo alla necessità di evitare una escalation e di coinvolgere i partner per questo, inclusa l’Autorità Nazionale Palestinese. Siamo pronti a contribuire a ravvivare il processo politico sulla base della soluzione dei due Stati e si accoglie l’iniziativa di un summit per la Pace inclusivo proposta dall’Egitto“.
Si consuma così lo scontro tutto interno all’Ue dopo la fuga in avanti non autorizzata di von der Leyen.
L’intervento all’Hudson Institute è stato vissuto come un’ingerenza dai due organi, Alto rappresentante e Consiglio, deputati a dettare la linea europea in politica estera. E proprio da loro è arrivata la smentita delle posizioni espresse dalla presidente della Commissione.
Posizioni che avevano creato evidenti malumori sia tra i funzionari che nei corridoi del Parlamento Ue
(da Il Fatto Quotidiano)
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Ottobre 23rd, 2023 Riccardo Fucile
A FOGGIA VINCE IL CENTROSINISTRA LARGO AL PRIMO TURNO (META’ DEI VOTI SCRUTINATI) DOPO IL COMMISSARIAMENTO CAUSA MAFIA (IL SINDACO ERA DELLA LEGA)
Il centrodestra vince le elezioni suppletive per il Senato nel collegio uninominale Lombardia 06, in cui si correva per aggiudicarsi il seggio lasciato libero da Silvio Berlusconi (morto il 12 giugno scorso). Erano chiamati al voto tutti e 55 i comuni della provincia di Monza e della Brianza. Quando sono state scrutinate tutte le 739 sezioni, il candidato della maggioranza Adriano Galliani, attuale ad del Monza calcio (di proprietà della famiglia Berlusconi) e per anni braccio destro del defunto ex premier al Milan, risulta vincitore con il 51,5% contro il 39,5% di Marco Cappato, storico esponente radicale e volto simbolo dell’Associazione Luca Coscioni, sostenuto da tutto il centrosinistra (Pd, Azione, Alleanza Verdi-Sinistra e Movimento 5 stelle).
Terzo è arrivato Cateno De Luca, sindaco di Taormina e leader di Sud chiama Nord (per l’occasione ribattezzato “Sud con Nord”), fermo però all’1,76%.
Alla chiusura dei seggi, lunedì alle 15, l’affluenza definitiva si è fermata al 19,2%: a Monza città ha votato il 27,2%, ad Arcore il 21,1%. Nel comune dove Berlusconi ha avuto la sua storica residenza Galliani ha vinto per un soffio: ha ottenuto il 45,7% contro il 44.6% di Cappato
Centrosinistra vince le comunali di Foggia
Quando sono 77 le sezioni scrutinate (poco oltre il 50%: Episcopo (centrosinistra) è al 53.6%, seguita da Di Mauro (centrodestra) al 24.3%. Angiola raggiunge la doppia cifra con il 10.1%. Seguono Mainiero con l’8.2% e De Sabato con il 3.7%
(da agenzie)
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Ottobre 23rd, 2023 Riccardo Fucile
ALLE OFFICINE RISTORI DI PISA VA IN SCENA UNO SPETTACOLO PENOSO: SCATTA LO SCIOPERO… LA DIREZIONE NON HA NULLA DA DIRE?
Uno sciopero di otto ore è stato indetto dai dipendenti della Officine Ristori di Montecalvoli (Pisa), azienda che fa parte dell’indotto del gruppo Piaggio, a causa degli insulti che un caporeparto razzisti avrebbe rivolto sul luogo di lavoro a a diversi operai senegalesi. Mentre i dipendenti sono in presidio davanti alla ditta, il segretario della Uilm di Pisa Riccardo Bartoli ricostruisce la vicenda.
Tutto sarebbe iniziato con un litigio tra uno degli operai del Paese africano e il caporeparto, pisano, nel corso del quale sarebbero volate parole di ingiuria razziale nei confronti del senegalese. Il caporeparto si sarebbe scagliato contro il senegalese, delegato sindacale, a causa dei ritmi di lavoro, considerati troppo bassi.
Al che l’uomo avrebbe fatto notare di essere entro i tempi prestabiliti, scatenando la rabbia del capo. «Siete neri»; «non avete voglia di lavorare»; «cosa ci siete venuti a fare in Italia, ci rubate il lavoro e i soldi», cita Bartoli, spiegando che non si tratterebbe della prima volta.
Le scuse
Non pago, il giorno dopo il caporeparto si sarebbe presentato al lavoro indossando una maglietta con frasi palesemente inneggianti al fascismo, annunciando: «Sì, sono fascista». Nonostante i tentativi fatti dai colleghi, non ci sono foto dell’indumento. Al terzo giorno il caporeparto ha affisso sulla bacheca un messaggio di scuse, spiegando di essere stato «esasperato». Ma per il sindacato la frittata, ormai, è fatta. «Ha affisso un foglio nella bacheca dell’azienda e ha scritto di aver agito in quel modo perché portato all’esasperazione – ha raccontato ancora Bartoli – Una risposta simile, però, è più grave perché ammette in toto quanto fatto prima». Ad ogni modo, continua il sindacalista «l’azienda non solo non ha mai mosso contestazioni ai lavoratori» presi di mira, ma non ha neppure «preso provvedimenti contro il dipendente». Il sindacato si aspettava una sospensione che non è arrivata. E per questo lo sciopero è stato indetto.
(da agenzie)
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Ottobre 23rd, 2023 Riccardo Fucile
PER IL 90% DOVREBBE ESSERE UNA PRIORITA’ DEL GOVERNO
Giù le mani dalla Sanità. Per oltre tre italiani su quattro la sanità deve essere pubblica. Di più: per il 90% dei cittadini deve essere una priorità del Governo nella Finanziaria. Per il 37%, merita addirittura il primo posto.
Sono questi alcuni dei risultati dell’Indagine eseguita sull’opinione pubblica e sul personale medico dall’Istituto Piepoli per la Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri e presentata oggi nell’ambito del Convegno ‘Valore salute: SSN volano di progresso del Paese. I 45 anni del Servizio sanitario nazionale, un’eccellenza italiana’, in corso a Roma.
Protagonista delle interviste telefoniche e via web – effettuate su un campione di 1000 persone, rappresentativo degli italiani di età compresa tra 15 e 75 anni, con un oversampling di 200 interviste nella fascia d’età tra 15 e 19 anni, e un campione di 300 medici e odontoiatri – proprio il Servizio sanitario nazionale, come fattore determinante per unire il Paese e farlo crescere.
“La manovra punta finalmente sui professionisti del Servizio sanitario nazionale- afferma il Presidente della Fnomceo, Filippo Anelli – invertendo una tendenza che, sinora, aveva allocato risorse, attraverso il PNRR, soltanto sulle strutture e sulle infrastrutture. Bisogna continuare su questa strada, continuare a investire sulla sanità perché quell’auspicio del Ministro della Salute Orazio Schillaci di trasformare la sanità in un grande sistema Paese che dia risposte a tutti sia realizzato”.
A quanto emerge dall’indagine, gli italiani tendono in maggioranza (54%) a promuovere il servizio sanitario regionale, ma con grandi distanze territoriali. Se, infatti, al nord si raggiungono picchi del 69% di soddisfazione, al sud e nelle isole ci si ferma a quota 41%.
Specularmente e di conseguenza, quando si chiede chi debba guidare la sanità tra Stato e Regioni, al nord prevale il modello concentrato sulle regioni mentre al sud si chiede un intervento statale, probabilmente proprio nella speranza che questo riequilibri la qualità percepita del servizio sanitario. Quello che è chiaro, in ogni caso, è che la sanità per gli italiani deve essere prevalentemente pubblica. Così la pensano più di 3 italiani su 4, il 76%, in questo caso in modo trasversale
Digitale in sanità benvenuto per il 73% degli italiani, che apprezzano e utilizzano ricette elettroniche e ritiro online dei referti, ma con giudizio: l’Intelligenza Artificiale va bene, ma solo come alleato e supporto al medico. A pensarla in questo modo, il 92% degli intervistati, che escludono di farsi curare, anziché dal medico, da una piattaforma di Intelligenza artificiale.
Il rapporto diretto e fiduciario con il proprio medico, infatti, è talmente importante che il 75% degli italiani intervistati si dice non disponibile a rinunciare al diritto di scegliere il proprio medico di famiglia. In media, ad oggi gli italiani risparmiano il 10% delle proprie entrate per le spese sanitarie, ma tanti (il 23%) purtroppo vorrebbero ma non riescono a farlo, tanto che ad oggi circa 3 milioni di italiani ammettono che, quando devono usufruire di prestazioni sanitarie a pagamento, rinunciano a curarsi.
Sempre più cittadini sono costretti a spostarsi in altre Regioni alla ricerca di centri di eccellenza: il 63% degli intervistati percepiscono questo problema con riferimento al loro territorio, con punte del 79% al Sud e nelle isole. La stragrande maggioranza degli italiani, il 93%, vorrebbe, per questa ragione, un aiuto dallo Stato: e oltre otto persone su dieci, trasversalmente su tutto il territorio nazionale, vorrebbero un’organizzazione sanitaria che porti l’eccellenza dove vive, senza per forza essere costretti a “viaggi della speranza”, costosi in termini di denaro, tempo ed energie.
Passando alla qualità dell’assistenza sanitaria, questa è largamente sufficiente per gli italiani (il 67% la reputa soddisfacente) che vedono in maggioranza la sanità come un settore in grado di generare ricchezza, dunque sul quale investire, e non come un semplice costo, mentre ritengono che, al contrario, la gestione dei servizi risponda più alle esigenze di bilancio che a quelle di salute.
(da La Notizia)
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Ottobre 23rd, 2023 Riccardo Fucile
ENTI CHE ESISTONO SOLO PER ALIMENTARE CLIENTELE
Dietro ogni angolo appare una sorpresa. In Calabria c’è il consiglio regionale con il maggior numero di dipendenti fra tutti i consigli regionali: 417 per 32 eletti.
È come se alla Camera dei Deputati, dove gli onorevoli hanno di sicuro incombenze ben più gravose dei consiglieri regionali calabresi, i dipendenti fossero 5.212 anziché gli attuali 1.021.
Ciononostante il medesimo consiglio regionale ha sentito il bisogno di avere una società controllata: caso più unico che raro per una assemblea elettiva. La società si chiama Portanova spa. E che cosa fa? «Ha per scopo la gestione di servizi esternalizzati e pubblici di competenza del consiglio regionale della Calabria e l’incremento occupazionale nell’ambito dello stesso territorio», dice il sito ufficiale.
Ma l’unica cosa che si può toccare con mano è l’incremento occupazionale: 26 posti di lavoro. Che, sommati ai 417 di cui sopra, fa 443. […] Ma succede ovunque e soprattutto nelle Regioni meridionali, dove la mostruosa realtà delle partecipate pubbliche viene usata principalmente per tale scopo: creare posti di lavoro. In Sicilia, cui l’autonomia dello statuto riserva competenze anche in materia dei beni culturali, c’è la Sas, Servizi Ausiliari Sicilia, che fornisce personale anche per quello. E senza risparmi. I dipendenti erano 1.729, ma adesso ha assorbito anche il personale di un’altra società regionale, la Resais, che in realtà pagava solo gli stipendi agli ex dipendenti di alcune società regionali decotte e chiuse. Però impossibili da licenziare. E ora i dipendenti della Sas sono oltre 2.100. Un’armata. Ma destinata a ingrossarsi ancora, a leggere gli atti della società.
Il nuovo presidente, nominato dalla giunta regionale attualmente guidata dall’ex presidente forzista del Senato Renato Schifani, risponde al nome di Mauro Pantò. Farmacista e poi imprenditore, si è candidato alle ultime regionali nelle liste della Dc siciliana ma è arrivato secondo. Meritandosi comunque la nomina al vertice della Sas, sponsorizzato da Totò Cuffaro. E non è un incarico simbolico, visto che fra le sue deleghe ci sono la selezione e l’assunzione del personale. Lo spettacolo è assicurato.
Questo dettaglio chiarisce ancor più la ragione dell’esistenza in vita di simili società pubbliche e perché la politica non le vuole mollare. È un sistema che da anni si tenta inutilmente di bonificare. Non solo perché fonte di sprechi inenarrabili: nel 2015, prima della legge di riordino approvata dal Parlamento l’anno seguente che ha imposto piani di riorganizzazione e chiusure a 360°, si calcolava che gli oltre 26 mila amministratori delle 8 mila e passa società pubbliche costassero ai contribuenti fino a 600 milioni l’anno.
Il fatto è che quella legge del 2016 non ha prodotto i risultati sperati, se è vero che da 8 mila si è scesi, secondo l’Istat, solo fino a 6.085. Anzi. Proprio dopo il 2016 si sono verificati casi decisamente discutibili alla luce di quanto era previsto dalla legge. Il provvedimento stabiliva, per dirne una, il divieto a tenere in vita e costituire società che avessero un numero di dipendenti inferiore a quello degli amministratori. Erano numerose e la tagliola significava eliminare le scatole vuote utilizzate unicamente per fabbricare qualche strapuntino.
Ebbene, la viglia di Natale 2020 la Città Metropolitana di Torino, presieduta dalla sindaca del capoluogo Chiara Appendino, delibera la costituzione di una nuova società per azioni controllata dalla ex Provincia. Si chiama Metro Holding Torino e serve a gestire le partecipazioni societarie della Città Metropolitana. Una funzione originale, considerando che la ex Provincia di Torino ha in portafoglio tutte quote di minoranza, dal 5% di 5TR (servizi di mobilità) al 17,65% di Ativa (concessionaria dell’autostrada che collega il capoluogo piemontese e con la Valle d’Aosta passando per Ivrea).
Lo Stato centrale continua a rappresentare un ostacolo non irrilevante. Tuttavia le resistenze più forti sono quelle di enti locali e Regioni. Il motivo? La stragrande maggioranza di quelle società è nata negli anni per aggirare i blocchi alle assunzioni alimentando così i circuiti clientelari. E di fronte alla palese dimostrazione di inutilità si cerca di evitare in ogni modo la chiusura che comporterebbe i licenziamenti. Magari cambiando missione, come capita spesso.
Una tecnica messa in atto ovunque con abilità sorprendente. Risorse per Roma, ad esempio, era una società costituita per la consulenza alle strutture del Campidoglio. Ma quando è apparso evidente che non serviva allo scopo si è dirottata sull’esame delle pratiche di condono edilizio. E ora, con ben 507 dipendenti, si appresta ad assumerne altri 22. Recentemente è stato nominato amministratore unico Albino Ruberti, ex capo di gabinetto del sindaco Roberto Gualtieri e dell’ex presidente della Regione nonché ex segretario del Pd Nicola Zingaretti.
Ancor più eclatante è il caso di Capitale Lavoro, società della Provincia di Roma costituita vent’anni fa, quand’era presidente l’ex missino Silvano Moffa. Era una specie di ufficio di collocamento provinciale con 200 dipendenti. Finché nel 2018, dopo aver foraggiato tutta quella gente per più di tre lustri, si è deciso di trasferire a un’altra società della Regione Lazio il ramo d’azienda di Capitale Lavoro che faceva da supporto ai centri per l’impiego. Numero dipendenti: 167.
La società incorporante si chiama Laziocrea. E qui si apre un altro interrogativo. Perché una Regione che dispone di 3.640 addetti deve possedere al 100% una società che ha la funzione di «supporto amministrativo» agli uffici regionali e che conta – tenetevi forte – altri 1.677 dipendenti? Come mai quell’esercito di personale non figura nei ranghi regionali ma in una controllata? La domanda non ha risposta logica, se è vero che Laziocrea ha funzioni del tutto analoghe a quelle degli uffici dell’ente. A meno che, trattandosi di una società di capitali, non sia uno stratagemma per assumere direttamente evitando le lungaggini dei concorsi pubblici…
A ogni buon conto, subisce anche questa il destino di tutte le società pubbliche. Quando cambia il potere politico, cambiano i vertici. Ecco allora che a luglio il presidente della Regione Francesco Rocca ha nominato presidente Marco Buttarelli, ex capo di gabinetto dell’ex leader della destra Francesco Storace, affiancandolo con altri due fedeli del centrodestra. E Capitale Lavoro? A quel punto e avendo perso insieme a 167 dipendenti anche la funzione per cui era nata – penserete – la società andrebbe mandata in pensione. Già.
Ma che fare del personale rimasto? Perché al 30 giugno 2023 ne figuravano a busta paga ancora 275. Così a settembre 2022 in cda è stato rinnovato e si è trovato un posto per l’ex consigliera comunale del Pd Ilaria Piccolo.
Idem capita nelle altre Regioni. In Campania, per esempio, c’era una società battezzata con il suggestivo nome di Liternum Sviluppo. Oggetti sociali: «aumentare efficienza e competitività, creare opportunità urbane e rurali, attrarre investimenti dall’Italia e dall’estero» nell’area giuglianese, in provincia di Napoli. Ma è sufficiente fare un giro da quelle parti per verificare il fallimento di quel compito. Una pietosa sepoltura sarebbe stata la degna conclusione dell’avventura. Invece si è modificata semplicemente la missione.
La società si chiama adesso Ar.Me.Na., ovvero Agenzia di Sviluppo dell’Area Metropolitana di Napoli. Codice Ateco 41.2: costruzione di edifici residenziali e non. Fra i compiti c’è la verifica delle caldaie a gas nei comuni dell’area napoletana con meno di 40 mila abitanti. Legale rappresentante da maggio scorso è Gabriele Mundo, funzionario dei Beni Culturali orgogliosamente socialdemocratico, segretario particolare del consigliere regionale di Forza Italia Ermanno Russo e a sua volta ex consigliere comunale prima con il Psdi, quindi con il Pdl. Alle sue dipendenze ne ha 315.
Sergio Rizzo
(da Milano Finanza)
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Ottobre 23rd, 2023 Riccardo Fucile
DOPO LA MORTE DEL CAV, IL RAPPORTO SI È RAFFREDDATO FINO AL GELO DEGLI ULTIMI DUE MESI…. I SOSPETTI DI PIANI DI UNA CORDATA DI FORZA ITALIA PER AFFIDARE LA LEADERSHIP DEL PARTITO A MARINA
Con chi ce l’ha Giorgia Meloni? Con chi ce l’ha la premier nel video autocelebrativo inviato per supplire alla sua improvvisa assenza alla festa di Fratelli d’Italia e dove allude, accusa, evoca complotti senza fare nomi, come spesso in questi mesi, e come da ultimo nel post scriptum lasciato a termine del comunicato con cui liquidava via social la sua relazione con Andrea Giambruno, pizzicato dai fuorionda di “Striscia la notizia” mentre molesta le colleghe
La domanda vola dentro e fuori il Teatro Brancaccio […] sentito la leader attaccare «giornaloni» e «salotti tv», «le cattiverie verso di noi», «i metodi che si utilizzano per indebolirci» che «hanno raggiunto vette mai viste prima».
Meloni ha l’enfasi marziale di un generale che deve caricare le truppe, ed esaspera il contrasto con gli avversari, senza però specificare chi siano: «Siamo un nemico da abbattere contro qualsiasi mezzo, perché siamo uno specchio per la loro meschinità». Loro chi?
Nel post scriptum de messaggio con cui annuncia la separazione da Giambruno avverte «tutti quelli che hanno sperato di indebolirmi colpendomi in casa». Ieri, è arrivato il bis, con toni ancora più minacciosi, il volto più teso che amplifica la politicizzazione della sua vita privata. A chi si riferisce? La prima risposta: è la tipica «sindrome Fazzolari» – proprio così la chiamano dentro FdI, tirando in ballo il clima da cospirazione giacobina permanente in cui vive il sottosegretario fidatissimo di Meloni. Sindrome da eterno accerchiamento […] La seconda risposta […] assomiglia tanto agli immarcescibili «poteri forti»: lui li sfuma in «lobby» o «ambienti» che non accetterebbero che la politica abbia di nuovo conquistato la sua centralità.
Domandando e scavando di più, in realtà, si torna a Mediaset, l’azienda fondata da Silvio Berlusconi, dove Giambruno lavora. E si torna a quella frase che Meloni pronunciò contro l’alleato e leader di Forza Italia, un anno fa, mentre si formava il governo […]: «Non sono ricattabile». In quei giorni le tensioni coinvolgevano Licia Ronzulli, figura molto presente nelle tv negli studi di Cologno Monzese. Meloni non la voleva nel governo e, com’è noto, per indebolire la senatrice di FI ottenne la sponda di Marina Berlusconi, primogenita del leader e curatrice della sua vita ad Arcore.
Ma, raccontano oggi, quel rapporto con Marina non è mai davvero decollato. E dopo la morte del patriarca azzurro, a giugno, si è raffreddato fino al vero e proprio gelo degli ultimi due mesi. Gli audio e i fuorionda di Giambruno risalgono a luglio. Si sa, poi, che era cresciuta l’ostilità di diversi colleghi e che anche ai vertici dell’azienda il conduttore non era molto stimato. Dopo le due puntate di “Striscia”, è stato Pier Silvio Berlusconi a chiamare Meloni, non Marina. E Antonio Ricci, creatore del tg satirico, ha fermato la saga del “Giambrunasca” appena partita, alimentando i sospetti di una regia dall’alto. È quello che una parte di FdI crede fermamente.
Ed è la stessa parte che sospetta di piani – al momento solo virtuali – di una cordata di Forza Italia per affidare la leadership del partito a Marina, con la quale Meloni è arrivata al punto di rottura dopo la forzatura sulla tassazione degli extraprofitti bancari
(da agenzie)
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Ottobre 23rd, 2023 Riccardo Fucile
IL CENTROSINISTRA IN UN ANNO DI GOVERNO MELONI NON È MAI RIUSCITO AD AVERE UNA SOLA VOCE: SOLTANTO SUL SALARIO MINIMO SCHLEIN, CONTE, CALENDA E COMPAGNIA HANNO MARCIATO UNITI… LE LEZIONI DALL’ESTERO (POLONIA E SPAGNA)
I più generosi l’hanno definita l’opposizione che non c’è. Altri, invece, sono andati più per le spicce: armata Brancaleone. O addirittura: i migliori alleati della Meloni. Parliamo del centrosinistra […] e del chimerico “campo largo”, morto in culla. E parliamo dei loro leader: ad un anno esatto dall’«ora più buia», la foto d’insieme li ritrae ancora tutti lì – tutti meno uno, in verità – come se la catastrofe elettorale non ci fosse mai stata.
È pensabile che il primo segnale di rinnovamento che gli elettori si attendevano – dopo la suicida spaccatura pre-elettorale che nel settembre scorso consegnò il Paese al centrodestra – fosse l’inevitabile ricambio delle leadership sconfitte: del resto, avviene così in ogni parte del mondo.
Solo il Partito democratico ha ritenuto di dover marciare in quella direzione. E il verbo marciare pare davvero il più appropriato, visto che ci sono voluti quasi cinque mesi per salutare Enrico Letta e dare il benvenuto – si fa per dire – ad Elly Schlein.
L’unico sommovimento veramente rivoluzionario si è sviluppato appunto nel corpaccione deluso degli elettori Pd, che hanno imposto alla guida del partito una donna che non era nemmeno iscritta e che per cultura politica e profilo personale è quanto di più distante si possa immaginare dai segretari (rigorosamente maschi) cui si era abituati.
L’accoglienza, all’inizio, è stata di curiosità ed interesse, la stampa grande e piccola ha vissuto per mesi sul dualismo tra Giorgia ed Elly, ma da un po’ anche il cammino della coraggiosa neo-segretaria è parso farsi in salita.
Giuseppe Conte, invece, è al suo posto, nonostante alle ultime elezioni i Cinquestelle – con lui prima premier e poi capo politico – abbiano più che dimezzato i consensi. Anche Calenda è lì dov’era: di nuovo leader di Azione, dopo il sabotaggio dell’alleanza di centrosinistra alla vigilia del voto e l’esito deludente, diciamo così, dell’esperimento “terzo polo” e della sua intesa con Renzi.
Pure l’ex premier – quando è in Italia – è al suo posto, appena riconfermato capo di Italia viva: è ridotto al 2,5 per cento ma continua a coltivare grandissimi progetti, camminando sulla linea di confine tra destra e sinistra, sempre attento a cogliere l’opportunità migliore.
E sono dov’erano anche Bonelli, Magi e Fratoianni. Sette leader, nel centrosinistra: come i colli di Roma o i nani della favola. Dall’altra parte ce ne sono al massimo un paio, dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi. E chissà che anche questo non significhi qualcosa…
È vero che, messa così, la foto non è entusiasmante. Ma nemmeno dalle parti del governo, evidentemente, le cose girano come dovrebbero, almeno a giudizio degli elettori: altrimenti non si spiegherebbe il fatto che, a poco più di un anno di distanza dal voto del 25 settembre, gli ultimi sondaggi elettorali collocano il centrosinistra precisamente lì dov’era, oltre il 48 per cento, con un calo di appena lo 0,3%. Numericamente la si direbbe una partita che resta aperta: ovviamente a condizione che, vigendo un sistema elettorale maggioritario, i sette leader – o qualcuno di loro – non continuino il gioco del “no, con te non ci sto”
I tempi sono quelli che sono, e la riscossa – naturalmente – non è semplice.Ma segnali piccoli e a volte lontani dicono che qualcosa comincia forse a cambiare; e che qualcos’altro potrebbe progredire più rapidamente, se fatto oggetto di una campagna politica chiara e coerente.
Segnali dall’estero, dalla Spagna e dalla Polonia, per dire, dove la corsa delle destre sovraniste ed antieurpee si è fermata. E segnali dall’interno, dove l’unica battaglia comune messa in campo in un anno dal centrosinistra – intendiamo quella sul salario minimo – è riuscita comunque a costringere il governo sulla difensiva. Ma si è trattato dell’unica iniziativa unitaria in 12 mesi.
Per il resto, il copione è stato quello noto: personalismi, distinguo e smarcamenti sempre più pericolosi. Perché dividersi sul sostegno all’Ucraina, per esempio (e vedremo cosa accadrà circa la guerra in Medio Oriente), è questione capace di pregiudicare qualsiasi alleanza di governo.
Con una sintesi un po’ azzardata, insomma, si potrebbe dire che in quest’anno non tutto il tempo è andato sprecato: ma la gran parte sì. E si potrebbe aggiungere che tra qualche mese si torna al voto per le Europee. Decidano loro, i sette leader, che segnale intendano mandare. Nessuno pretende il “tutti per uno”: ci si accontenterebbe di evitare almeno il “tutti contro tutti”..
(da agenzie)
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Ottobre 23rd, 2023 Riccardo Fucile
LE ELEZIONI NON SCONVOLGERANNO IL PARLAMENTO DI BERNA: L’UDC, PARTITO DI DESTRA NAZIONALISTA, SI CONFERMA LA FORMAZIONE PIÙ VOTATA, CON IL 29% DELLE PREFERENZE – TENGONO SOCIALISTI, LIBERALI E CENTRISTI, I VERDI SCENDONO AL 9% – IN BASE ALLE LEGGE ELETTORALE SVIZZERA I PRIMI QUATTRO PARTITI ENTRERANNO A FAR PARTE DEL NUOVO GOVERNO
In Svizzera la destra nazionalista è largamente in testa alle elezioni per il rinnovo del Parlamento ai danni dei Verdi, mentre le formazioni più moderate (socialisti, liberali, centristi) mostrano segni di tenuta: sono gli indizi che emergono dalla consultazione che porterà al rinnovo per i prossimi quattro anni delle due Camere rappresentate a Berna (200 deputati e 46 senatori). Un risultato che al momento non dovrebbe portare a grandi cambiamenti nella politica della Confederazione.
L’Udc, partito di destra nazionalista, risulta di gran lunga la forza politica di maggioranza, andando vicino al 29% dei consensi e segnando un progresso superiore ai 3 punti percentuali.
Incarnazione della linea della neutralità elvetica e fautore di una politica di chiusura verso gli immigrati non rappresenta per la Svizzera — a differenza di molti Stati europei — una novità, essendo da tempo la formazione maggiormente votata.
In questa tornata elettorale rafforza però il suo peso a vantaggio della formazione politicamente più lontana da sé, i Verdi, che calano di quasi tre punti scendendo al 9%.
In discesa anche i Verdi liberali, formazione ecologista ma collocata nell’area del centrodestra che si ferma al 7%. Tra le due ali estreme, poco sembra essersi spostato: i socialisti guadagnano un punto percentuale (17%), mentre centristi e liberali si contendono la piazza di terza forza più rappresentata.
In base alle legge elettorale Svizzera, dove non esistono una maggioranza e un’opposizione prestabilite, i primi quattro partiti entreranno a far parte del nuovo governo. Per la composizione definitiva del Parlamento, in particolare del Consiglio degli Stati (l’equivalente del Senato), occorrerà forse attendere l’esito di alcuni ballottaggi ma poco è destinato a cambiare.
L’avanzata della destra, come detto compensata dalla tenuta delle formazioni laiche e centriste, non imprimerà cambiamenti alla politica adottata da Berna che negli ultimi anni aveva subito significative rotture con il passato. Una su tutte: interrompendo una secolare linea di neutralità, allo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina, la Svizzera si era allineata alla Ue adottando le stesse sanzioni economiche nei confronti di Mosca (va ricordato che molti oligarchi hanno i loro beni depositati nelle banche elvetiche) e allo stesso tempo il governo aveva dato via libera al sostegno militare a Kiev.
(da agenzie)
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Ottobre 23rd, 2023 Riccardo Fucile
I MEDICI: “BISOGNA ASSUMERE, NON PAGARCI PIU’ ORE”
Michele Angheleddu fa l’autotrasportatore. Figurarsi se lo spaventa viaggiare. Ma questa volta gli prende il groppo alla gola all’idea di doversi allontanare da moglie e figli piccoli per andarsi a curare nel «continente» il cancro che gli è stato appena diagnosticato. «L’idea di farlo lontano dai miei è troppo», dice mostrando quanto gli ha messo nero su bianco l’ospedale della sua provincia, Nuoro. «A causa della lista di attesa non è possibile rispettare la tempistica oncologica corretta». Tempo di attesa: sei mesi. «Pertanto si invita il paziente a recarsi in altro centro fuori regione». Giovanni M. – ricoverato qualche anno fa al Rummo di Benevento per un ictus – scopre di avere una neoplasia delle plasmacellule che si moltiplicano senza controllo nel midollo e altrove, causando fratture, dolori, problemi renali, indebolimento delle difese immunitarie e stati confusionali. «Avendo avuto un ictus sono costretto a prendere gli anticoagulanti, per cui periodicamente devo fare dei controlli ematologici. Lo scorso hanno ho provato a prenotare senza riuscirci. Nei giorni scorsi ci ho riprovato e la visita mi è stata fissata per il 21 maggio dell’anno prossimo, in pratica a due anni di distanza dalla precedente. Ma per me il rischio di essere soggetto a una scoagulazione improvvisa del sangue è dietro l’angolo».
Voci dal profondo di una sanità negata che incaglia nelle liste d’attesa qualcosa come 22 milioni e passa di italiani, quattro su dieci dei quali aggirano l’ostacolo pagando il privato, mentre altri due milioni e mezzo hanno del tutto rinunciato alle cure, documenta l’Istat.
Per abbattere i tempi di attesa ora il governo mette sul piatto della manovra 520 milioni, che servono a pagare di più sia il privato convenzionato affinché aumenti l’offerta di prestazioni, sia le ore di straordinario dei medici. Ma i loro stessi sindacati dicono che il problema si risolverà solo assumendo personale, non chiedendo di lavorare di più a chi già fa turni massacranti e per questo è in fuga dal servizio pubblico.
E poi dietro le liste di attesa non c’è solo la carenza di personale sanitario, ma anche un parco macchine, come tac e risonanze, spesso dell’era giurassica. A incidere è una sanità territoriale che non fa filtro, perché molti accertamenti più semplici si potrebbero fare negli studi dei medici di famiglia. Ma a monte spesso c’è anche la disorganizzazione.
«Mi hanno diagnosticato una forma cancerogena alle corde vocali i primi di giugno, mi è stato detto che dovevo essere operata con urgenza, quindi vengo messa in lista», racconta Anna di Roma. «Aspetto un mese e vengo chiamata per la pre-ospedalizzazione i primi di agosto». Lì dovrebbero averle fatto tutti gli esami che devono precedere un intervento come il suo. E infatti l’anestesista dà il via libera, «ma dopo pochi giorni ricevo una telefonata dall’ospedale che mi comunica la necessità eseguire un eco-colordopler. Dico ok, quando è l’esame? Mi rispondono che l’appuntamento è per il 19 ottobre. Non ci ho visto più: ma come, ho un cancro e voi mi fate aspettare così tanto?». Risposta: «Questo siamo riusciti a ottenere».
Anche il racconto di Francesco Meo, sempre di Roma, è un inno alla disorganizzazione. «Dopo una brutta caduta mi sono state prescritte sei lastre alle due anche, al bacino e alla lombare, sia centrale sia laterale. Provo a prenotare tramite ReCup, ma niente, tutte insieme non me le facevano. Eppure, chiunque sia entrato in una sala di radiologia sa che per fare più lastre quando si è lì basta cambiare un attimo posizione ed è fatta». Anche a Francesco hanno suggerito di rivolgersi a una delle tante cliniche romane che sull’inefficienza del pubblico fanno lauti guadagni. «Ma io mi sono rifiutato, alla fine ho autoridotto gli accertamenti rinunciando alle rx alle anche. Ora però cammino storto e temo che qualche osso si sia saldato male. Così come sospetto che si creino dal nulla tutte queste difficoltà in modo da favorire il privato».
Stesse considerazioni di Teresa Tartaglione, che in Campania ha promosso una petizione sulle liste di attesa. «Nonostante la delibera regionale sulla presa in carico del paziente oncologico per fare gli esami di controllo dopo chemio e radio, sono stata costretta a spendere dal privato 250 euro per un accertamento che il pubblico mi offriva con tempi di attesa tra i 2 e gli 8 mesi». Ma c’è chi queste spese non può permettersele, come Ida. «Premetto che vivo con un marito invalido e mio figlio minorenne. Durate una visita di controllo il nostro medico di famiglia mi prescrive una visita urgente e la pet per sospetto tumore alla mammella. A giugno chiamo subito il Cup regionale che mi offre come prima data utile il 12 dicembre. Ho dovuto accettare perché non sono nelle condizioni di pagare un privato ma così sto di fatto rinunciando alle cure».
E non si creda che il Nord sia meno colpito dalla piaga. In Lombardia il medico prescrive a Marina Repetti una pet urgente per un sospetto tumore al seno. «Allarmata chiamo il centralino della Regione ma nessuna struttura era disponibile». Fa una nuova richiesta accettando anche di allungare un po’ i tempi di attesa, «ma il risultato è stato che il primo appuntamento era a marzo del 2024. Così davanti alla paura ho finito per rinunciare al pubblico, pagando 900 euro». Ma a furia di dirottare pazienti al privato, anche quest’ultimo inizia a non farcela più. «Ho contattato una clinica per fare un’ecografia alla tiroide e l’appuntamento mi è stato fissato a cinque mesi», racconta Giuseppina Bissi, testimone di un modello lombardo precipitato come tutti nella trappola delle liste di attesa.
(da La Stampa)
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