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L’ORTOPEDICO CHE VA LAVORARE AD ABU DHABI: “PER SOLDI MA ANCHE PER EVITARE COMPROMESSI SULLA SALUTE”

Dicembre 7th, 2024 Riccardo Fucile

“I SOLDI PER TRASFERIRE I MIGRANTI IN ALBANIA E PER COSTRUIRE IL PONTE SONO FINANZIAMENTI INUTILI SE NON DANNOSI”

Walter Starace, 49 anni, è un ortopedico che ha deciso di cambiare vita come tanti suoi colleghi. Stanco dei turni di lavoro, della burocrazia, delle poche soddisfazioni economiche, prenderà un volo per Abu Dhabi (Emirati Arabi Uniti). Dove «si può svolgere la professione senza scendere a compromessi di sorta per la salvaguardia della salute», rivela a Repubblica nell’edizione romana di oggi, 6 dicembre
Non è per i soldi
«Superlavoro sottopagato e tanti affanni burocratici, perciò lascio l’Italia e troverò riparo ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati, per cercare di realizzare il sogno di una medicina innovativa, al servizio dei pazienti e della scienza», così dichiara Starace, tra i responsabili ortopedici, nel ministero della Salute, del Servizio sanitario Assistenza ai naviganti e al personale di volo. Non è una questione di soldi: «Certo, anche per questo che, però, non è il motivo principale che i spinge all’espatrio». E lo spiega: «Vorrei poter esercitare in un ambiente favorevole l’assistenza ai malati e nei Paesi del Golfo, Emirati in testa» questo si può fare, sostiene.
I compromessi del servizio sanitario nazionale
Secondo Starace, spesso i medici devono fare i conti con il nostro servizio sanitario nazionale: «La stessa incolumità dei pazienti è subordinata, complice il possibile default della sanità pubblica». Sebbene in certi settori il nostro sistema sia ancora un’eccellenza, è la tendenza in corso che preoccupa Starace: «La deriva che sta prendendo, però, lascia tanti interrogativi insoddisfatti. L’aziendalizzazione della sanità ha trasformato quest’ultima in una merce qualsiasi».
Per l’ortopedico «il servizio sanitario italiano nella pratica assistenziale, in quelle della ricerca e della formazione, da anni, prende schiaffi da destra e da sinistra». E quindi scappa «per avere, anche grazie ai soldi, un’autonomia maggiore e poter sviluppare metodiche chirurgiche lontane da logiche commerciali». Ma ha una speranza, quella «di tornare trovando un servizio sanitario che dia spazio alle competenze». E soprattutto di trovare un Paese che investa risorse «sottraendole a tanti finanziamenti inutili se non dannosi, come quelli per trasferire i migranti in Albania o per il ponte sullo stretto».
(da Open)

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WOLKSWAGEN, IL SINDACATO TEDESCO: “PRONTI ALL’ESCALATION. INVECE DI LICENZIARE, TAGLINO BONUS AI MANAGER E DIVIDENDI AGLI AZIONISTI”

Dicembre 7th, 2024 Riccardo Fucile

INTERVISTA A STEFFEN SCHMIDT, PORTAVOCE DEL POTENTE SINDACATO IG METALL

Lo stato di agitazione che scuote Volkswagen è solo l’ultimo esempio della profonda crisi che da mesi scuote l’industria automobilistica europea. Il colosso tedesco fa registrare dati di vendita sempre più deludenti, al pari di tutti gli altri produttori del Vecchio Continente. Per far fronte a questa situazione, l’azienda ha annunciato un maxi-piano di risanamento che passa per la chiusura di tre fabbriche e decine di migliaia di licenziamenti. Un vero e proprio tabù per Volkswagen, che in Germania conta 120mila dipendenti e, soprattutto, non annunciava piani di licenziamento da oltre trent’anni. La risposta dei lavoratori, ovviamente, non si è fatta attendere. Lunedì 2 dicembre si è svolto uno «sciopero di avvertimento» dalla portata storica, a cui hanno preso parte 100mila dipendenti di tutte e nove le fabbriche tedesche del gruppo Volkswagen. Il 9 dicembre ci sarà una seconda tornata di manifestazioni, che si prospetta essere altrettanto partecipata.
A guidare le proteste sono soprattutto due soggetti: i Consigli di fabbrica, un pilastro del sistema industriale tedesco pensato per dare voce ai lavoratori nelle decisioni aziendali, e IG Metall, potente (e temuto) sindacato dei metalmeccanici.
«Siamo pronti a combattere e intensificare ulteriormente il conflitto, se l’azienda si rifiuta di scendere a compromessi», avverte Steffen Schmidt, portavoce di IG Metall Volkswagen, in questa intervista a Open. I rappresentanti dei lavoratori hanno chiesto ai vertici aziendali di tagliare i bonus per i manager e introdurre una stretta sulla distribuzione dei dividenti agli azionisti. Una misura che, secondo i calcoli del sindacato, farebbe risparmiare a Volkswagen 1,5 miliardi di euro. Ma che l’azienda, almeno per ora, non sembra intenzionata ad accettare.
Come sta andando lo sciopero a Volkswagen? Quanti lavoratori hanno aderito?
«Lo sciopero è stato indetto perché Volkswagen non è ancora disposta a escludere licenziamenti di massa e chiusure di stabilimenti. Lunedì 2 dicembre c’è stato un primo sciopero di avvertimento, durato due ore, e la partecipazione è stata enorme. A Wolfsburg hanno aderito 47mila lavoratori. In totale – tra Wolfsburg, Braunschweig, Salzgitter, Hannover, Emden, Kassel Baunatak, Zwickau, Chemnitz e Dresda – quasi 100mila dipendenti Volkswagen hanno partecipato allo sciopero di avvertimento».
La posizione del sindacato e quella dell’azienda sembrano essere ancora piuttosto lontane. Siete sicuri che si riuscirà a trovare un’intesa?
«Speriamo che si possa trovare una soluzione accettabile entro Natale. Ma per arrivarci il consiglio di amministrazione di Volkswagen deve fare un passo verso di noi e abbandonare le sue posizioni radicali, ovvero chiusure di stabilimenti, licenziamenti di massa e tagli drastici agli stipendi. IG Metall è pronta a scendere a compromessi, come abbiamo dimostrato con la nostra proposta presentata prima delle ultime trattative, che farebbe risparmiare a Volkswagen circa 1,5 miliardi di euro. Ma siamo anche molto pronti a combattere e intensificare ulteriormente il conflitto, se Volkswagen si rifiuta di scendere a compromessi».
Ciò che sta accadendo a Volkswagen è un riflesso della crisi dell’industria automobilistica europea. Dal vostro punto di vista, come siamo arrivati ​​a questa situazione?
«È vero, l’intera industria europea è in crisi. Una ragione è sicuramente l’arrivo di nuovi concorrenti, soprattutto dalla Cina. Un altro motivo, in particolare per i produttori tedeschi, è la tendenza al protezionismo sul mercato mondiale (i dazi europei sulle auto elettriche di Pechino rischiano di penalizzare molto le esportazioni tedesche in Cina – ndr) e la mancanza di una politica industriale efficiente, sia a livello europeo sia in Germania, che possa rispondere ai massicci sussidi distribuiti in ​​Cina e negli Stati Uniti».
Anche le aziende hanno delle responsabilità?
«Volkswagen ha sicuramente un problema a livello di management. Sono stati commessi molti errori negli ultimi anni, a partire dal Diesel Gate (lo scandalo del 2015 sulla falsificazione dei dati sulle emissioni delle automobili vendute – ndr), che rappresenta ancora un peso per le finanze e l’immagine dell’azienda. La tecnologia ibrida è stata quasi ignorata e i modelli di auto elettriche più piccoli ed economici stanno arrivando troppo tardi».
Come se ne esce?
«I concorrenti, statunitensi e soprattutto cinesi, beneficiano di ingenti sussidi e incentivi nei loro mercati nazionali. L’Unione europea deve adeguarsi a questi programmi e rendere gli investimenti nelle tecnologie pulite più attraenti e accessibili».
Alcuni governi, a partire da quello italiano, identificano nel Green Deal europeo la vera causa della crisi dell’automotive. È d’accordo?
«La transizione ai veicoli elettrici è la strada giusta, ma gli obiettivi sulle emissioni di CO2 sono troppo ambiziosi, soprattutto se mancano incentivi all’acquisto e infrastrutture di ricarica efficienti. Questi elementi sono cruciali per conquistare la fiducia dei clienti finali. I miliardi di multe che incombono sulle case automobilistiche potrebbero essere investiti molto meglio per trasformare l’industria».
Le vendite di auto elettriche faticano a decollare, soprattutto dopo che diversi paesi europei hanno cancellato gli incentivi all’acquisto. Anche il governo tedesco di Olaf Scholz ha sbagliato?
«Sì. Tagliare gli incentivi all’acquisto da un giorno all’altro è stato sbagliato e ha reso i clienti ancora più scettici sui veicoli elettrici. Lo stesso vale per chi in Germania, ma non solo qui, continua a mettere in discussione la transizione verso i veicoli elettrici. Ciò di cui le aziende e i clienti hanno più bisogno in questo momento sono la certezza e l’affidabilità».
Cosa potrebbe cambiare per Volkswagen con le elezioni tedesche di inizio 2025?
«Non possiamo prevedere l’esito delle elezioni, perciò è difficile dirlo. Ma speriamo e chiediamo che il nuovo governo lasci andare lo «Schuldenbremse» (le rigide regole fiscali della Germania mirate a raggiungere il pareggio di bilancio – ndr) e faccia massicci investimenti nelle tecnologie del futuro e nelle infrastrutture. Solo così i lavori industriali ben retribuiti rimarranno in Germania».
Le dimissioni di Carlos Tavares hanno causato un nuovo terremoto per l’automotive europeo. Ci sono punti di contatto tra ciò che sta accadendo a Stellantis e le difficoltà di Volkswagen?
«Non siamo coinvolti direttamente nelle vicende di Stellantis, perciò non siamo in grado di fare una valutazione di questo genere. Detto questo, ciò che sta accadendo a Stellantis dimostra che i programmi di drastica riduzione dei costi, come pianifica di fare ora anche Volkswagen, non sono la soluzione a tutti i problemi. Anzi, rischiano di crearne ancora di più».
(da Open)

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FRONTE DEL PORTO, È BRACCIO DI FERRO TRA FDI E LEGA ANCHE SULLA RIFORMA DEI PORTI, MESSA A PUNTO DAL VICEMINISTRO DEL CARROCCIO, EDOARDO RIXI , IL MINISTRO MELONIANO DEL MARE, NELLO MUSUMECI, VUOLE AVERE PIÙ PESO

Dicembre 7th, 2024 Riccardo Fucile

IL NODO È SCEGLIERE IL NUOVO PRESIDENTE DELL’AUTORITÀ PORTUALE DI GENOVA, DOPO IL TERREMOTO POLITICO E GIUDIZIARIO DEL LIGURIA-GATE: SERVE UN NOME FORTE MA NON UN POLITICO

Il coinvolgimento di Art, la grana spinosa delle concessioni. Il pressing degli operatori (prima Augusto Cosulich, poi via via tutti gli altri) che hanno chiesto l’accelerazione della fine del commissariamento. Basterebbe questo elenco per capire le difficoltà del governo a trovare un nome in grado di far uscire l’Authority portuale dalle secche attuali.
Così il tema della riforma portuale -già complesso per sua natura – si intreccia con il nome del prossimo timoniere di Genova. Rixi lo dice apertamente: dobbiamo intervenire per dare un assetto più certo alle concessioni portuali
Certo, adesso anche i porti si inseriscono nel braccio di ferro dei rapporti di forza tra le diverse anime della maggioranza di governo e in particolare tra Lega e Fratelli d’Italia. Il partito della premier, con il “braccio armato” del ministero del Mare retto da Nello Musumeci, vuole un ruolo più attivo.
E la presentazione al Cipom della riforma, come ha annunciato ieri Rixi, sembra andare in questa direzione. Anche sulle nomine si riflette questo atteggiamento politico. In verità, almeno su questo fronte, c’è stata una semplice spartizione: alla Spezia i meloniani, a Genova la Lega.
Sulle altre Authority italiane la faccenda sembra essere più complicata. In Liguria almeno sulla carta sembra che lo schema possa reggere, ma poi le caselle vanno riempite con i nomi e non è così semplice trovare quello adatto. Soprattutto per Genova: in pista c’è Carlo De Simone, attuale subcommissario alla Diga. Il timore però, spiegano alcuni ambienti, è che forse servirebbe una figura che conosce bene le dinamiche portuali: concessioni, terminalisti, vecchie e nuove ruggini.
Quindi che fare? Intanto tagliare con la complicità di FdI un primo nastro della riforma dei porti. Poi rimandare la palla della nomina a fine gennaio. I commissari di Genova (Massimo Seno e Alberto Maria Benedetti che ieri erano ovviamente tra i più cercati dagli operatori genovesi tra le poltrone degli ospiti del Forum, ma non si sono palesati) rimarranno in sella quindi almeno un altro mese e mezzo, forse due.
Un primo scontento di questo temporeggiamento c’è già: Marco Bucci. Il governatore, seduto in prima fila ad ascoltare le parole di Rixi collegato da Roma, aveva rassicurato operatori e sindacati poco prima che il viceministro dettasse i tempi del nuovo presidente. E aveva assicurato: il nome arriverà entro fine mese. Poco dopo è andata in onda la prudenza del viceministro. Altro tema: la necessità di non scegliere un politico. Magari dal mazzo dei curriculum inviati a Roma salta fuori il nome giusto.
(da Il Secolo XIX)

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SEYMANDI “NON ASSOLVETE CHI SPARGE ODIO IN RETE, LA VIOLENZA COMINCIA LÌ”

Dicembre 7th, 2024 Riccardo Fucile

“NON SI PUÒ LEGITTIMARE L’ODIO ONLINE DAL PM MESSAGGIO SBAGLIATO AI BULLI”… LA STRANA TEORIA PER CUI GLI INSULTI IN RETE NON SONO PUNIBILI COME LE OFFESE PER STRADA

Cristina Seymandi è una donna strutturata ed imprenditrice equilibrata. E con forza ha saputo gestire l’odio social che l’ha travolta nell’estate 2023, dopo che l’allora promesso sposo, l’uomo d’affari Massimo Segre, l’ha accusata pubblicamente di tradimento. Con la scena ripresa in un video che ha fatto il giro del mondo. Ma ora che quegli insulti rischiano di venire archiviati dalla procura come semplice malcostume 2.0, Seymandi riflette: «Se si sdogana l’insulto, si sdogana anche il pensiero volgare e violento. Ed è pericoloso, soprattutto per i ragazzi».
Delusa?
«Sono basita. Con il mio avvocato, il penalista Claudio Strata, abbiamo preparato ricorso. La riflessione, se posso, dovrebbe essere generale».
Prego.
«Questa è l’era della comunicazione, eppure ci sono molti paradossi. I mezzi di comunicazione sono molteplici, eppure non ci capiamo. E tutto questo sfocia in attacchi feroci».
Nel suo caso concreto, che cosa si vuole archiviare?
«Gli insulti che ho ricevuto. Gravi, molto gravi. Veri e propri attacchi».
L’hanno accusata di essere “una poco di buono”.
«È un eufemismo. Si tratta di attacchi violenti che riconducono a una concezione della donna molto retrograda e primitiva».
Dove le sono stati inviati?
«Sui social. Nei messaggi privati di Facebook e Instagram. Poi c’era chi commentava sotto i post. Ho denunciato quelli più gravi».
Quanti ne riceveva al giorno?
«Non saprei dirle, ma tanti. Soprattutto subito dopo la condivisione del video. Erano i primi giorni di agosto. Poi, quando la stampa ha iniziato a scriverne e alcuni personaggi noti si sono interessati al caso, quei messaggi hanno iniziato a diminuire».
Era più arrabbiata o più ferita?
«Non sono riusciti a ferirmi. Sono una donna adulta e strutturata. E parto da un presupposto».
Quale?
«Il commento negativo, la violenza verbale, definisce la persona che emette il giudizio, non chi lo riceve. Nel mio caso, poi, era davvero un blaterare. Giudizi di persone che nemmeno conoscevo. Mi preoccupo, però, per altri».
Per chi?
«Per i più giovani. Se quello che ho subito io, l’avesse subito un diciottenne, maschio o femmina che sia, sarebbe stato devastante. Ci sono ragazzi che per questo si sono suicidati».
Possiamo definirlo bullismo?
«Io direi cyberbullismo».
Per citare il suo avvocato, la procura ha cercato di giustificare l’ingiustificabile?
«I commenti sui social rappresentano un pensiero. Se si sdogana la violenza, mi chiedo allora a cosa servono i corsi contro il bullismo nelle scuole. Cosa può pensare un ragazzo nel leggere questa richiesta di archiviazione? Come può capire ciò che sbagliato e ciò che non lo è? ».
Lei ne è stata vittima. E quell’odio ha colpito anche la sua famiglia.
«La cosa peggiore è proprio quella. I commenti sui social possono essere letti da chiunque: da mia madre, da mia sorella, da mia figlia, da mio cugino».
Come si affronta una situazione del genere?
«A testa alta. Alle giovani bisogna dare un esempio: si va avanti comunque. Con la propria vita, i propri sogni, i propri desideri, le proprie relazioni, le proprie responsabilità».
Per la procura bisogna abituarsi a certi toni «sarcastici, polemici ed inurbani». Cosa ne pensa?
«Non si può dare un insegnamento di questo tipo ai giovani. Quindi la violenza è solo fisica, perché quella verbale non viene più contestata? Viene accettata? Mi rifiuto di accettare una cosa del genere».
Lei ha detto che quella storia se la vuole lasciare alle spalle. Senza rabbia?
«Chi mi ha insultato mi fa pena. Quelle parole sono sintomo di un disagio. Bisogna essere misericordiosi nella vita».
Anche verso chi quel video l’ha divulgato e reso virale in tutto il mondo?
«Non so chi sia il responsabile. Sicuramente un incosciente».
Si dice sia un investigatore privato.
«Lui pare abbia ripreso la scena».
Non è arrabbiata nemmeno con il suo ex compagno?
«Che dire…non posso commentare. Ognuno ha la sua strada ed è responsabile di ciò che fa. Non voglio nemmeno più pensarci».
L’anno scorso, più o meno in questo periodo, sperava nell’amore. Ora l’amore c’è?
«Certo che c’è. Non si vive senza amore».
(da La Stampa)

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