BELLA IDEA TRASFERIRE LA “CABINA DI REGIA” DEL PNRR A PALAZZO CHIGI: IL PASSAGGIO NON SOLO HA RALLENTATO TREMENDAMENTE I LAVORI SUI DOSSIER, MA HA ANCHE FATTO INCAZZARE IL “DEEP STATE” DEL MEF
I TECNICI DEL TESORO, GLI UNICI CHE SANNO DOVE METTERE LE MANI SUI PROGETTI EUROPEI, SI SONO INDISPETTITI PER LO “SCIPPO” E MOLTI ADDETTI AL PIANO DI RIPRESA E RESILIENZA SONO SCAPPATI
Se Bruxelles ha fretta di vedere le modifiche dell’Italia al Piano nazionale di ripresa e resilienza, non è solo perché sul successo di Roma Ursula von der Leyen si gioca una piccola parte del proprio futuro.
Dietro c’è soprattutto una ragione pratica: i garanti delle risorse del Pnrr sono proprio i governi europei, i quali dovranno necessariamente approvare le proposte di Roma dopo che l’avrà fatto la Commissione stessa; la procedura prenderà mesi e, se si aspetta ancora, c’è il rischio che resti poco tempo per realizzare gli investimenti entro la scadenza del 2026.
Intanto però in Italia si stanno facendo sentire tre fattori che portano il ministro per gli Affari europei, Raffaele Fitto, a procrastinare. Il primo è legato agli equilibri nel governo. Chi conosce bene l’impianto del Pnrr stima che i fondi potenzialmente soggetti a un cambio di destinazione pesino, al massimo, fra il 12% e il 15% dei 191,5 miliardi destinati all’Italia. Dunque fra venti e trenta miliardi al più, il che sarebbe già moltissimo.
Ma per individuare gli investimenti da tagliare o da spostare, Fitto si è rivolto a coloro che ne detengono i segreti: le diverse amministrazioni ministeriali . Qui è scattato l’istinto di autoconservazione, perché molti ministeri sono tutt’altro che entusiasti di fare trasparenza. Nessuno ha fretta di rischiare di vedersi privare di fondi, solo perché alcuni cantieri non sono al passo.
Ha iniziato a farsi sentire a questo punto il secondo fattore di ritardo: il freddo sceso — più che fra i politici — fra gli uffici del ministero dell’Economia e di Palazzo Chigi
Fitto e la premier Giorgia Meloni hanno voluto lo spostamento alla presidenza del Consiglio della gestione del Pnrr e dei fondi europei tradizionali.
Vista dal ministero dell’Economia, è stata l’amputazione di poteri di gestione di risorse per quasi trecento miliardi di euro. Questa svolta e le stesse riserve di Fitto hanno messo ai margini la Ragioneria dello Stato, che è parte del ministero dell’Economia.
Negli ultimi tempi hanno lasciato il ministero oltre venti addetti al Pnrr, quindi la capacità di controllo finanziario del Piano ne sta soffrendo. È come se, sul Recovery, il principale centro di know how finanziario del governo si fosse messo alla finestra in attesa degli errori altrui: «Se qualcuno vuole le nostre competenze — dice una voce dall’interno — le prende e ci fa ciò che ritiene».
Si innesca qui la terza ragione dei ritardi italiani: l’esigenza di integrare la riscrittura del Pnrr con i piani di RePowerEu, cioè i progetti di autonomia energetica sostenuti da Bruxelles. Meloni e Fitto hanno chiesto piani alle grandi imprese partecipate — Enel, Eni, Snam e Terna — e queste li hanno presentati. […]. Per ora il costo […] eccede la riserva a disposizione per RePowerEu, che include 2,7 miliardi di nuovi trasferimenti a fondo perduto da Bruxelles e circa tre miliardi dai fondi europei tradizionali.
Il resto dunque potrebbe dover essere finanziato con le risorse che, potenzialmente, si stanno per liberare con le modifiche al Pnrr. Impossibile dunque fare una cosa senza l’altra.
(da Corriere della Sera)
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