CARIGE DI NUOVO IN CRISI, PIU’ VICINO L’INTERVENTO DELLO STATO STILE MPS
SMENTITE LE RASSICURAZIONI DI PADOAN
La notizia è giunta stamattina non proprio come un fulmine a ciel sereno perchè le avvisaglie c’erano tutte, e da giorni, per non dire da mesi: il consorzio di banche dell’aumento di capitale da 560 milioni di Banca Carige, che avrebbe dovuto garantire l’operazione e quindi comprare le azioni in caso di eventuale insuccesso, si è tirato indietro.
Una mossa preannunciata dal tracollo di Borsa degli ultimi giorni: le azioni della banca il 14 novembre hanno ceduto il 10,6% mentre il giorno successivo sono crollate di oltre l’11%, trasmettendo in maniera forte e chiara un segnale negativo dal mercato sulla ricapitalizzazione, che secondo i desiderata dei vertici sarebbe dovuta partire già la settimana prossima.
Così, il valore di Borsa di Carige è sceso a 144 milioni: meno di un terzo dell’ammontare dell’aumento di capitale programmato e necessario per riportare i conti della banca in sicurezza.
In questo modo, sembra crollare l’impianto del rafforzamento patrimoniale da 1 miliardo, di cui la ricapitalizzazione rappresenta appunto una delle gambe, annunciato dall’amministratore delegato Paolo Fiorentino a metà settembre e da concludere tassativamente — come da imposizione della Bce, l’autorità di vigilanza — entro la fine dell’anno.
E ora che succederà ? Se non si riusciranno a trovare tutti i 500 milioni dell’aumento di capitale (60 milioni sarebbero dovuti essere al servizio della conversione di obbligazioni), si aprono svariati scenari.
Dalla messa in risoluzione dell’istituto di credito con le regole del bail-in, che prevedono che a coprire le perdite siano azionisti, obbligazionisti subordinati, obbligazionisti non subordinati e anche correntisti oltre 100mila euro; fino al salvataggio pubblico, sebbene però in questo caso sarebbe necessario inquadrare l’istituto di credito come “di interesse sistemico”, analogamente a quanto fatto con Monte dei Paschi di Siena un anno fa.
Non si può escludere nemmeno l’ingresso in scena di una banca dalle spalle più larghe, come potrebbe essere Unicredit, da cui tra l’altro arriva l’ad Fiorentino, considerando che Intesa Sanpaolo è già scesa in campo per accaparrarsi la parte buona delle banche venete al prezzo simbolico di 1 euro.
“Alle attuali condizioni di mercato — commentano gli analisti di Banca Akros, che mettono insieme più scenari — non escludiamo che Banca Carige venga messa in risoluzione dalla Supervisione (cioè dal ramo della Bce guidato da Daniele Nouy, ndr). Ne seguirebbe probabilmente una separazione di good e bad asset, con una ricapitalizzazione della banca ponte da parte dello Stato e un’aggregazione in un gruppo più ampio, mentre le esposizioni non performing (i crediti deteriorati, ndr) verrebbero trasferite a un investitore specializzato per un recupero in futuro”.
A ogni modo, il quadro che va delineandosi sembra molto diverso da quello tratteggiato a giugno dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che, dopo il salvataggio della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, aveva dichiarato: “Non ci aspettiamo che altre banche abbiano bisogno. Stiamo studiando casi in cui questo può succedere, ma in concreto non ci aspettiamo nuovi casi. Per quello che so a Carige è stato richiesto un numero di aggiustamenti da parte delle istituzioni europee e sta rispettando queste richieste. Questa è una buona notizia”.
Tornando alle ultime notizie che hanno fatto precipitare la situazione, “Banca Carige — si legge in una nota diffusa dall’istituto ligure guidato da Paolo Fiorentino la mattina del 16 novembre — comunica che nonostante l’ottenimento dell’autorizzazione da parte delle autorità di vigilanza e i positivi riscontri ricevuti per l’acquisizione formale di manifestazioni di interesse e di specifici obblighi di garanzia da parte di nuovi investitori istituzionali, non si sono pienamente realizzate le condizioni per la costituzione del consorzio di garanzia ai fini dell’avvio dell’annunciato aumento di capitale da 560 milioni”.
Da ricordare che il consorzio, composto da Credit Suisse e Deutsche Bank a cui successivamente si era aggiunta Barclays, si era limitato a firmare una pregaranzia, non vincolante: da qui la possibilità di chiamarsi fuori. Proprio questo è una delle similarità con quel che accadde un anno fa a Siena con il Monte dei Paschi.
Ecco un elenco delle analogie più rilevanti:
Il primo aspetto in comune è l’aumento di capitale stesso, che sia per Mps nel 2016 sia per Carige nel 2017 è il terzo nel giro di pochissimi anni, a partire da quella fatidica bocciatura dei due istituti di credito con gli stress test europei dell’autunno del 2013. Così, se un anno fa il gruppo senese lanciava una ricapitalizzazione da 5 miliardi che seguiva quella da 5 chiusa con successo nel 2014 e quella da 3 del 2015, allo stesso modo Carige sta tentando di avviare un aumento da 560 milioni che segue quello da 800 milioni del 2014 e quello da 850 del 2015. In entrambe le due precedenti occasioni si era detto che sarebbero state messe a posto le cose. Così non è stato nè per Siena nè per Genova. La ricapitalizzazione di Mps di un anno fa è fallita e quella di Carige è ora a forte rischio.
Mps, nel 2016, prima di lanciare l’aumento di capitale vero e proprio, chiuse con successo l’operazione di scambio di obbligazioni subordinate con azioni, il cosiddetto Lme, che costituiva uno dei pilastri del rafforzamento patrimoniale e quindi del salvataggio. Allo stesso modo, Carige ha chiuso con successo, anche con le aiuto delle Generali, Intesa Sanpaolo e Unipol (che hanno aderito all’operazione), l’offerta sulle obbligazioni subordinate, scambiate in questo caso non già con azioni bensì con obbligazioni meno rischiose (ma a un prezzo penalizzante per gli obbligazionisti). Anche nel caso di Genova, lo scambio sui bond subordinati rappresenta uno dei bastioni del rafforzamento patrimoniale, con il qualche l’istituto genovese contava di portare a casa 200-250 milioni. Se effettivamente salterà l’aumento di capitale, salterà anche questa offerta.
All’inizio di dicembre del 2016, le banche del consorzio di Mps, tra cui Jp Morgan e Mediobanca, che avevano firmato un accordo di pregaranzia anche in quel caso non vincolante si chiamarono fuori. L’aumento di Mps partì “al buio” e fallì.
(da “Business Insider”)
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