COME CONTE INTENDE GESTIRE IL CAOS NEL M5S: COMPROMESSO SUL MES, RIMPASTO LONTANO DALLE CAMERE
I DISSIDENTI NON CONTESTANO IN REALTA’ CONTE MA “QUEI TRE CHE DECIDONO TUTTO LORO”, OVVERO CRIMI, DI MAIO E BONAFEDE … I VOTI CONTRO IL MES SARANNO TRA 4 E 6, COMPENSATI DA QUALCHE ASSENZA E USCITA IN FORZA ITALIA
C’è un clima da pre-crisi che avvolge il governo, soffia come vento burrascoso su Palazzo Chigi, che si ritrova per le mani un bel rompicapo da risolvere, che si somma a un momento di difficoltà e tensione sul fronte Covid, dopo le polemiche che hanno seguito l’ultimo dpcm e quelle che stanno precedendo la gestione del Recovery plan.
Un puzzle che ha due tessere fondamentali: il voto del prossimo 9 dicembre sulla risoluzione di maggioranza in vista del Consiglio europeo e, a gennaio, il rimpasto.
Alla prima voce si legga Mes, perchè è di quello che si sta parlando.
La lettera degli oltre 50 parlamentari del Movimento 5 stelle che hanno chiesto vivacemente che non si dia il via libera alla riforma del Fondo salva stati ha drammatizzato una situazione che nemmeno Giuseppe Conte immaginava così calda.
Da giorni i pontieri della presidenza del Consiglio lavorano a un compromesso che renda potabile il testo anche ai dissidenti più riottosi.
Il punto qualificante della mediazione dovrebbe sintetizzarsi in questi termini: votate sì alla riforma, e in cambio scriviamo nero su bianco che l’eventuale accesso alla linea di credito del Mes dedicata alla salute sarà subordinata a un voto del Parlamento.
Anche perchè il premier aveva cullato per un istante di rimandare tout court il problema, visto che tecnicamente il Fondo salva stati non è all’ordine del giorno del prossimo Consiglio europeo ma si discuterà solo nell’informale Eurosummit, idea che è stata accantonata per l’eccessivo rumore che il silenzio del Parlamento avrebbe generato, ma anche perchè la discussione nelle ultime ore ha raggiunto un livello di tensione tale che semplicemente ignorarla avrebbe effetti deflagranti.
A Palazzo Chigi sono consapevoli che per l’ala dura e pura del Movimento è poco. Alla Camera Alvise Maniero, Raphael Raduzzi e Andrea Colletti hanno ribadito il proprio niet. L’argomentazione tecnica che viene utilizzata è che di per sè il solo via libera alla riforma, indipendentemente da accordi futuri e dall’utilizzo del Mes, costerà all’Italia in termini di spread e interessi. E si mette in conto che una pattuglia di deputati pentastellati mostrerà il pollice verso in caso di via libera, o che comunque si assenterà al momento del voto.
Il problema è su quanti senatori non accetteranno il compromesso. Tra i 5 stelle la convinzione è pressochè unanime: i volti storici, come Danilo Toninelli e Nicola Morra, non faranno mancare il loro appoggio all’esecutivo.
Soprattutto perchè se la maggioranza andasse sotto da Quirinale hanno fatto intendere che non si potrebbe andare avanti senza far finta di nulla. Per dirla con Di Maio, ma non Luigi, Marco, deputato di Italia viva, “il 9 si capirà se c’è una maggioranza”.
La fronda dovrebbe ridimensionarsi, sono quattro i senatori dati quasi per persi (Lannutti, Crucioli, Di Micco e Mininno), su altri due c’è incertezza, se i numeri fossero confermati la maggioranza assoluta sarebbe risicatissima, quella relativa necessaria a far passare la risoluzione sarebbe abbastanza tranquilla, anche facendo i conti su qualche assenza strategica tra i banchi di Forza Italia.
Se si chiede a Luca Carabetta se la missiva sia un aut aut al governo la risposta è eloquente: “Io non ho sottoscritto la lettera per dire no a Conte, ma per chiedere un dibattito sul punto”, esplicitando il punto di vista di tanti tra i firmatari della missiva. Il dibattito tra i parlamentari di venerdì scorso ha fatto rientrare le perplessità di molti, radicando in altri i dubbi e la contrarietà su come vengono gestiti i dossier da parte della pattuglia governativa.
Il Mes è la cartina tornasole di un problema enorme, che un influente parlamentare sintetizza così: “Decidono tutto in quattro, al governo e nel Movimento. E quando qualcuno alza la mano per dire che non va bene ci rispondono che così ricattiamo Conte, e lo vogliamo far cadere. È inaccettabile, perchè nessuno ha messo in discussione Conte e il governo, semmai mettiamo in discussione loro”.
Dentro a quel loro ci sono ovviamente Vito Crimi, il cui post sul via libera alla riforma del Mes ha colto di sprovvista la pattuglia parlamentare, che ha chiesto a gran voce un momento assembleare, Alfonso Bonafede, in quanto capo delegazione, e Luigi Di Maio, che continua nonostante il passo indietro a esercitare la sua profonda influenza nel partito. “Spero che si trovi una soluzione votabile – dice un esponente di governo M5s – ma se non ci si rende conto che la situazione è ormai insostenibile non faremo molta strada”. Una strada resa ancora più complessa dal comprensibile nervosismo di Pd e Italia viva, che assistono da spettatori alle convulsioni dell’alleato, cercando di sfruttarne le contraddizioni. “Sul Mes un veto sarebbe incomprensibile”, ha tuonato oggi Roberto Gualtieri, “Il no è una battaglia ideologica”, ha rincarato la dose Nicola Zingaretti. Matteo Renzi gigioneggia: “Conte cade? Bisogna chiederlo ai 5 stelle”.
Il riferimento è a gennaio, quando, chiusa la sessione di bilancio, si aprirà il capitolo rimpasto. Conte è stato molto netto nel chiudere all’ipotesi in una lunga intervista a Repubblica, “ma quale premier direbbe per primo di sì a un’ipotesi del genere?”, spiega una fonte che ha consuetudine con il premier.
Il presidente del Consiglio non si è mai espresso a favore di un cambio della squadra, ma privatamente non ha mai posto il veto ai partiti, attestandosi sulla posizione di attesa delle richieste delle forze di maggioranza.
Conte vorrebbe evitare un rimescolamento delle carte, ma soprattutto vorrebbe evitare un passaggio alle Camere per una fiducia che, allo stato attuale, a Palazzo Madama potrebbe non arrivare. Per questo, se rimpasto dovesse essere, il premier vuole incanalarlo in binari il più dritti possibile. L’obiettivo è quello che a cambiare siano due, al massimo tre ministri, nella consapevolezza che se fossero di più il Quirinale richiederebbe un doveroso passaggio in Parlamento. La speranza è che con alcuni marginali ritocchi (Catalfo, De Micheli e Pisano le indiziate più citate nel borsino di Palazzo) si possa evitare una conta dagli esiti tutti da scrivere, giocandosi poi la vera partita di potere nei ruoli e nelle deleghe dei viceministri e dei sottosegretari.
Ma intanto c’è da superare lo scoglio del Mes e del voto del 9 dicembre. Se il governo si incartasse e l’Italia minasse l’accordo sul Fondo salva stati, le ripercussioni si farebbero sentire anche sul versante Recovery fund, mettendo l’Italia in una posizione scomodissima. “I nostri lo sanno – spiega, quasi prega un membro M5s nell’esecutivo – e ragioneranno di conseguenza”. Ne basterebbero pochissimi a pensarla diversamente per aprire di fatto una crisi di governo.
(da “Huffingtonpost”)
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