CRIMEA, BLITZ RUSSO IN AEROPORTI E TV, KIEV: “QUESTA E’ UN’INVASIONE”
IL GOVERNO UCRAINO CHIUDE LO SPAZIO AEREO
«Corri, i russi sono all’aeroporto!». Quando il telefono suona e un amico ucraino mi avverte, l’alba si è appena levata su Simferopoli, questo orribile minuzzolo di capitale. Cade una neve incerta, sobborghi squallidi sfumano nel cielo grigio come una immensa lastra di ardesia, accanto alla strada un piccolo, triste, fiume color dell’alluminio.
Eppure lo scalo è aperto, le luci sono accese, sulla pista rulla già il primo volo per Kiev previsto alle sette. Davanti all’ingresso del vecchio aeroporto, un incredibile tempietto con colonne, capitelli attici, frontoni (Stalin amava la Grecia antica…) ora ristorante, sono parcheggiati alcuni grossi camion.
Eccoli! Soldati in mimetiche verdi, zainetti leggeri da combattimento, le canne dei mitra rivolte verso il basso, pattugliano placidamente il piazzale, il parcheggio dei bus, vanno e vengono affaccendati dal ristorante scelto come posto comando.
Non bloccano nessuno, non hanno chiuso porte e scale, non minacciano. Sono silenziosi, corretti, tranquilli. E soprattutto non hanno insegne o mostrine.
I miliziani delle forze di autodifesa dei russi di Crimea, che li affiancano come per un servizio d’ordine, quelli sì, sono più agitati e non si nascondono: al braccio hanno il fiocco con i colori arancione e nero, l’ordine di san Giorgio, una sorta di croce di ferro dell’antica Russia.
Colpo di mano in sordina
Ci avviciniamo a uno dei soldati misteriosi: «Buon giorno, siete ucraini?». Gli occhi del soldato ci attraversano come se non esistessimo, continua la sua ronda senza fermarsi. Questa è una invasione muta. Ma parlano le loro armi: ad esempio i fucili per cecchini di cui dispongono gli «spetnaz», le truppe speciali dell’ esercito russo.
È cominciata così, dunque: secondo lo stile da iceberg di Putin, non si a mai dove è la parte sommersa. Basta con i distinguo, le scioccherie, di colpo freddo arcigno spaurevole manesco come un facchino.
È un intervento bonsai, senza bandiere, riscalducciato, ma forse per questo ancora più brutale degli antichi cainismi di stile sovietico. In fondo si tratta pur sempre di spremere la gente come uva nel frantoio.
Di colpo la originaria assenza di buon gusto mette in mostrale proprie viscere così educatamente nascoste.
In Ucraina Mosca ha subito, con la rivoluzione, un rovescio, ma non accetta, non vuole uscirne pesta e sbaragliata. Dopo aver vilipeso per una settimana alla televisione «i nazisti di Maidan», e aver aizzato i russi della Crimea mettendo loro la benda agli occhi e l’arma in pugno, colpisce. Con l’arroganza insulsa e distratta di chi riapre la porta di casa, recupera roba sua.
«Stato di emergenza»
Per molte ora la corbellatura degli uomini armati senza etichetta continua, come si avesse paura a riconoscere la realtà . Intanto altri soldati russi hanno preso il controllo anche dell’altro aeroporto, Belbek, vicino a Sebastopoli, dove atterrò Gorbaciov per la sua fatale vacanza in Crimea. «Le nostre forze sono circondate dall’ottantunesima brigata della Marina russa, 2mila uomini, ci sono i cecchini» strilla Kiev.
Otto elicotteri eruttano rinforzi. Bloccano anche il comando della Marina ucraina. E sono arrivati i soldati muti anche davanti alla sede della televisione di Crimea, a Simferopoli. Anche qui stile di velluto, beffardo, di chi bussa: tenendo i kalashnikov in mano. Hanno annunciato al direttore che dovevano entrare. Sudando sangue dagli occhi ha chiesto: Chi siete?, voleva le carte le autorizzazioni, il poverino.
«Ci spiace. Non possiamo dir nulla» e sono entrati. Spuntano, discretissimi, sullo sfondo delle trasmissioni. I soldati sarebbero entrati anche nella sede delle telecomunicazioni. Infine il ministro degli interni dell’appena costituito governo ucraino, Avakov, si è rassegnato alle parole terribili: «Siamo di fronte a una invasione, a una occupazione che viola tutte le norme della comunità internazionale e che può portare a un bagno di sangue».
Circola la frase fatale: «Stato di emergenza». A sera l’Ucraina annuncia che all’aeroporto di Simferopoli atterrano tredici aerei russi con altri rinforzi, duemila paracadutisti. E che il suo spazio aereo è stato violato.
L’ingranaggio della crisi fa un altro passo. All’aeroporto i viaggiatori per Kiev si imbarcano con l’aria di chi si chiede quale bandiere troverà al ritorno. Anche loro in silenzio, come se si adeguassero al dramma in corso, per non disturbare.
Una ragazza con sguardo languido e ciò nondimeno vigoroso, uno sguardo impaziente, accarezza i suoi russi in mediocre incognito: «Aspetto questo giorno da venti anni, la mia capitale è Mosca…». Non sanno di essere tra gli ultimi a poter partire. Da ieri lo scalo della capitale è chiuso, gli addetti annunciano che anche i voli di stamane sono cancellati. Torno in città , spuntano le prime auto con le bandiere russe dai finestrini.
Verso la secessione
Torno in città , spuntano le prime auto con le bandiere russe che sporgono dai finestrini. Piotr, aggomitolato in una logora poltrona del suo caffè, sembra l’unico a Simferopoli a non esser contento, ha la voce lontana, lo sguardo umiliato: «I russi son sempre gli stessi, un po’ lenti ma alla fine… A Mosca siamo davvero legati con catene di ferro, odiate, ma che non si possono spezzare. Di errori ne hanno fatti anche a Kiev, le chiacchiere le provocazioni: vietiamo la lingua russa, mandiamo quelli del Settore destro a metter in riga l’est e la Crimea… gli elmetti le maschere… complimenti!».
In tv scorre il faccione un po’ stralunato di Yanukovich, il ricercato per 82 omicidi, avvolto in bandiere ucraine, in diretta da Rostov, in Russia: chiede scusa per esser fuggito, dice che tornerà se ci sono le condizione di sicurezza perchè il presidente è sempre lui…
Nessuno lo guarda: «Quello che dice quel tipo non ci interessa è fuori tempo massimo…». Se i russi coltivano qualche idea di usarlo come Quisling di ritorno fanno calcoli sbagliati. Davanti al palazzo del parlamento bandiere russe, ondate di pop patriottico russo a tutto volume, tè e salsicce russe: tumulto assordante e perpetuo, un brulicare da accampamento, gente che adora una esplosiva fraseologia radicalpopulista: viva la Russia e gli altri all’inferno.
Il nuovo primo ministro della Crimea è Serghei Aksenov, uomo di affari, capo del partito «Unità russa»: ovviamente. È ancora incerto il numero dei deputati che nel parlamento occupato dagli armati di Mosca lo ha eletto, qualche formalista sostiene che erano sotto il numero legale. Dettagli, in fondo, con quello che è accaduto dopo. Occhi grigi, acuti come punteruoli, annuncia che si sta procedendo alla formazione del governo (ma restano posti liberi); sì, il 25 maggio si voterà il referendum, ma niente secessione, per carità ! solo per dilatare un po’ l’autonomia.
Chi paga, chiedono alcuni scettici indomabili, visto che le casse sono vuote? «Abbiamo chiesto un aiuto alla Russia, ma secondo le regole il finanziamento dovrà passare per il governo ucraino…». I nuovi ministri non avranno privilegi e solo un modesto stipendio… non come gli spilla quattrini di Kiev.
I tartari resistono
Arriva, con studiato colpo di scena, in aereo da Kiev un deputato eccellente, Piotr Poroshenko, milionario del cioccolato favorevole alla rivoluzione, possibile candidato alla presidenza. Vuole discutere con il parlamento della Crimea. I forsennati che circondano l’edificio lo hanno bloccato. Usciamo da Simferopoli per incontrare uno dei capi dei tatari, mezzo milione su tre milioni di abitanti della Crimea, saldamente ostili alla Russia, un altro enigma di questa crisi.
Sulla strada per Bakhi Sarai, la loro capitale non ufficiale, un colonna di camion avanza verso Simferopoli: sotto i tendoni altri soldati in mimetica verde. Fanno cenni di saluto all’autista che li supera con lieti colpi di clacson. Il muezzin chiama alla preghiera nella splendida moschea del palazzo dei khan, nel centro la fontana cantata da Puskin. Incombono straordinarie «falaise» di calcare.
Ismail Memetov ha gesticolazione a larghe ruote, parole che sono morsi, e una storia personale che spiega molte cose. La sua famiglia, con altri centomila tatari, nel 1944 fu deportata da Stalin in Uzbekistan. Li punivano per aver aiutato i tedeschi durante la guerra («una scusa, voleva la nostra terra») viaggiarono sui carri bestiame, gettati senza cibo nella steppa: molti miei parenti sono morti di fame. Io sono a nato a Samarcanda, e tornato qui, tra i primi, negli anni Novanta: la vita era dura, non c’erano permessi, case, lavoro, le terre concesse come riparazione erano steppa dura, con l’affondamento dell’Urss i nostri risparmi son diventati carta straccia». Memetov ha guidato i suoi in piazza nei giorni scorsi per gridare la fedeltà all’Ucraina: «Anche se i governi nati dalla rivoluzione arancione ci hanno usati. Abbiamo difeso i loro comizi durante la campagna elettorale, i russi volevano cacciarli a sassate, li abbiamo votati, e loro ci hanno dimenticato. Ma sappiamo come si vive in Russia, non vogliamo ritornare sotto di loro. Mai». E adesso? I russi sono qui… ha paura? «Gente che ha la nostra storia ha smesso da tempo di avere paura».
Domenico Quirico
(da “La Stampa”)
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