GRILLINI ALLO SBANDO SENZA UN CAPO
SULLA GIUSTIZIA DI MAIO MEDIA E FRENA I DURI, MA CONTE LO SCONFESSA
L’accordo trovato in extremis sulla giustizia, quello per cui si è speso lo stesso presidente del Consiglio Mario Draghi e che ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai ministri M5S, non segna la fine delle fibrillazioni nel Movimento. Tutt’altro.
Perché subito dopo c’erano decine di parlamentari infuriati: “È una presa in giro, questa delegazione non è in grado!”.
Perché in mancanza di una guida sicura, o quanto meno univoca, a prevalere sono le spinte a rompere. Quelle di chi è sensibile alle voci contro il governo che soffiano da fuori, a partire da quella lontana di Alessandro Di Battista, che già mandava messaggi contro il “governo dei migliori” che vuole l’impunità.
Tanto che a sera, perfino da Giuseppe Conte, trapela insoddisfazione per il compromesso trovato: “L’intesa non convince”.
In queste condizioni, quando il 23 luglio la riforma arriverà in aula, nessuno è ancora in grado di garantire i voti degli eletti M5S.
Così come nessuno nel Movimento è in grado di fare una scelta chiara sulla Rai. O di rispondere alle provocazioni di Italia Viva sul disegno di legge Zan.
I 5 stelle sono una nave senza nocchiero, alla deriva. Se così non fosse, Matteo Renzi non avrebbe potuto spingersi troppo oltre nell’affermare che nel voto segreto la legge contro l’omofobia in Senato rischia per i franchi tiratori nascosti a ogni angolo. Non c’è una voce abbastanza autorevole da rispondergli a tono e garantire un voto compatto. Non c’è su nulla.
Conte sta seguendo tutte le questioni da vicino, ma non ha un ruolo ufficiale, fino a una settimana fa era pronto a strappare e fare un suo partito. Anche questo, oltre alle durissime parole di Grillo, ha indebolito la sua figura davanti a un pezzo dei gruppi parlamentari.
Soprattutto tra i deputati, che la strada della scissione l’hanno osteggiata molto più dei senatori, convinti che portasse alla fine di tutto. Anche ieri – nella riunione con Draghi e Cartabia durata un’ora – a prendere in mano la mediazione è stato Luigi Di Maio.
Il ministro degli Esteri sta cercando, più di tutti in questa fase, di frenare la scomposizione del Movimento in mille rivoli. E insieme ai sette “saggi” scelti con Beppe Grillo ancora stanotte era al lavoro per un compromesso sullo Statuto del Movimento che metta fine a una fase che si avvicina all’anarchia.
In realtà, le soluzioni trovate ricalcano le rinunce che Beppe Grillo aveva già fatto nell’ultima mail inviata all’ex premier: non sarà il Garante a scegliere i nuovi organi del Movimento, i due vicepresidenti e il consiglio direttivo, ma lascerà la decisione al presidente. E non sarà lui a dirigere la comunicazione, come chiesto in un primo momento.
Saranno però rafforzate le sue prerogative di garanzia rispetto a quel che c’era nella bozza inviata da Conte. Il tutto, dovrebbe essere chiuso entro il fine settimana.
Quello però che ora i dirigenti M5S vorrebbero, è che Conte e Grillo facciano in fretta a dare il loro avallo e a mettere da parte una distanza che, più che nelle carte, è ormai tutta personale.
Il ritardo accumulato, i mesi passati ad attendere il progetto di Conte e le settimane trascorse ora a tentare una ricucitura in extremis, fanno sì che il Movimento sia bloccato su tutto.
Sulla Rai ad esempio c’è un candidato forte che i componenti della commissione di Vigilanza vorrebbero votare, Antonio Palma, ora presidente della Zecca dello Stato. Ma Vito Crimi spinge per l’avvocato Alessandro Di Majo mentre il Movimento più barricadero vorrebbe portare in consiglio di amministrazione Paolo Favale, ex dipendente Rai licenziato ai tempi dell’ad Luigi Gubitosi.
Risultato: si rinvia. Anche perché, dicono alla Camera, Giuseppe Conte vorrebbe entrare anche in questa scelta. Ma per farlo deve ancora pazientare.
Di tempo, però, ne è rimasto pochissimo. Gli attivisti sui territori premono per capire come andare avanti sulla scelta dei sindaci e sulla composizione delle liste alle amministrative.
Anche su quelle l’avvocato voleva un mandato pieno che non è in grado di assumere. Così, saltata la candidata scelta insieme al Pd in Calabria, il Movimento è in alto mare (l’idea di dare il via al senatore grillino Carmelo Misiti è considerata dal Pd pura fantascienza).
A Torino, la scelta è tra due candidati deboli che non hanno alcuna possibilità di emulare l’impresa di Chiara Appendino 5 anni fa.
A Milano, un pezzo di 5 stelle vorrebbe un accordo con Sala, che Conte però non vuole. Quanto a Roma, Virginia Raggi sarebbe talmente spaventata dai ricorsi che potrebbero piovere su liste M5S scelte da un capo politico non riconosciuto da tutti, che sta lavorando a una sua lista civica. Con dentro i fedelissimi, qualsiasi cosa accada.
(da La Repubblica)
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