HAITI, A DUE ANNI DAL DISASTRO UNA SOLA CERTEZZA: LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE HA FALLITO
CI SONO ANCORA 550.000 PERSONE CHE VIVONO IN 800 CAMPI, TENDOPOLI NELLA CAPITALE… DEI MILIARDI PROMESSI NE SONO ARRIVATI BEN POCHI E SOLO IL 20% E’ STATO SPESO… LE ONG PUNTANO SU PROGETTI FACILI CHE FANNO COLPO, MA NESSUNO TOGLIE LE MACERIE
È stata una tragedia immane, ma in molti pensavano che potesse essere un riscatto per il Paese e la comunità internazionale.
Invece, a due anni dal terremoto, Haiti è un Paese ancor più povero e devastato di come era prima del disastro e il sistema di aiuti della cooperazione internazionale mostra le crepe che da qualche anno in molti hanno deciso di non nascondere più.
I dati.
Secondo gli ultimi dati rilasciati dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, il più affidabile dal punto di vista statistico, 550.000 persone vivono ancora in oltre 800 campi, 4,5 milioni di famiglie sono toccati dall’insicurezza alimentare (che nella terminologia della cooperazione significa che non mangiano tutti i giorni o che la catena alimentare non è sicura) e la minaccia del colera è ancora molto forte.
Le condizioni igieniche sono terribili, la povertà è la regola, in un Paese dove il 75% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e la disoccupazione è stimata al 70%.
A corredo delle cifre, molto approssimative, in una realtà dove non esiste un vero sistema di anagrafe, c’è quel che abbiamo visto in questi giorni.
Soltanto metà delle macerie è stata rimossa nella capitale Port Au Prince, dove le tendopoli si sono trasformate in nuove baraccopoli, affollate da chi ha perso la casa nel terremoto, ma anche da chi una vera casa non l’ha mai avuta e dopo il sisma ha trovato più accoglienti le tende degli slum in cui aveva sempre vissuto.
Il bilancio.
Che qualcosa non ha funzionato lo dimostrano anche i comunicati stampa diramati in questi giorni da alcune delle maggiori organizzazioni non governative che hanno risposto all’emergenza del terremoto.
Tutte, in modo più o meno esplicito, parlano di “ricostruzione a rilento”, “difficoltà di coordinamento”, finanziamenti stanziati e mai arrivati oppure finiti in progetti di cui non si vedono i risultati.
È un elenco di fallimenti esplicito il resoconto di uno dei maggiori Paesi donatori, gli Stati Uniti, che nel rapporto fatto dal Government Accountability, cioè l’ufficio della ragioneria, sottolineano tra l’altro la difficoltà a reperire il personale disposto ad andare ad Haiti a lavorare.
Dei miliardi arrivati usati solo il 20%.
Non è riuscito a fare di meglio L’Haiti Reconstruction fund, un organismo creato proprio con l’intento di coordinare l’azione dei donatori internazionali e del governo haitiano.
Nel suo ufficio di Port au Prince, il manager del fondo, Josef Leitmann, ci ha detto: “Dobbiamo ammettere che il sentimento di sfiducia è giustificato. Dei tanti miliardi di dollari promessi, pochi sono arrivati davvero e soltanto il 20% di quelli realmente disponibili è stato utilizzato. Parlo dei 2,3 miliardi di dollari arrivati al fondo e su questi so che è stato fatto un controllo accurato perchè non ci fosse corruzione”. Tuttavia, anche se i soldi sono stati spesi in progetti, questi non erano quelli giusti.
“Ci sono stati soldi spesi nell’immediato – ha detto ancora Leitmann – che si sarebbero potuti utilizzare in modo diverso. L’errore fondamentale è stato abbandonare le comunità di origine e mettere tante risorse nelle tendopoli”.
Il divario tra ciò di cui si ha bisogno e ciò che si fa.
Eppure il fondo doveva servire proprio a coordinare gli interventi, ma Leitmann, che ha rilevato da poco l’incarico dopo che il fondo è stato accusato, tra l’altro, di coinvolgere troppo poco gli haitiani, sottolinea ancora: “Nel guardare i progetti ci si rende conto come tra ciò che le organizzazioni vogliono fare e ciò di cui si ha bisogno il divario è enorme. Ci sono troppi soldi che vanno in quelli che chiamiamo i “sexy sectors”, i settori che fanno colpo sul pubblico, come sanità e istruzione, e troppo poco nella rimozione delle macerie e il sostegno alle comunità . Inoltre si è fatto troppo a Port au Prince e troppo poco nelle altre zone”.
Con questa ultima frase Leitmann fa cenno a uno dei grandi problemi di Haiti, la disponibilità di terreno su cui costruire, perchè nel Paese non esiste un sistema di censimento capace di accertare a chi appartiene la terra, così anche la costruzione di casette prefabbricate al posto di tende è assai complicata.
“Ci sono troppe Ong, ecco il problema”.
Emanuelle Schneider, portavoce dell’Ocha, agenzia Onu deputata al cordinamento degli Affari umanitari, mostra tutto il fastidio di una abitante di New York catapultata ad Haiti a difendere il lavoro di altri.
Ribadisce che l’allestimento delle tendopoli era indispensabile e “i bisogni immediati di rifugio e acqua potabile sono stati soddisfatti”.
Alla domanda “Cosa è andato storto?”, risponde: “All’inizio è stato caos completo, ma in 72 ore siamo riusciti a mettere insieme una task force e lanciare un appello per i finanziamenti. Il problema è che ci sono troppe organizzazioni non governative e centinaia di loro non hanno mai dichiarato la loro presenza sul territorio. Noi operiamo secondo standard internazionali e rigidi protocolli di legge per assicurare il rispetto della popolazione, non possiamo fornire mezzi a gruppi dei quali non conosciamo il modus operandi”.
L’Ocha ci fornisce fogli e fogli di statistiche accurate e grafici perfetti, nonchè l’elenco, diviso secondo le zone del Paese in cui operano, delle Ong che sono registrate e quindi riconosciute come partner.
Sono davvero tantissime, 427 in 140 comuni, la maggior parte (120) hanno progetti di salute, seguiti da quelli per l’istruzione (66).
Stupisce che in un posto come Haiti, dove l’acqua potabile è un lusso e non ci sono, in pratica, fognature, soltanto 15 si occupino di servizi igienici e sorprende non vedere nell’elenco nomi di organizzazioni che nel Paese hanno una storia consolidata.
La conclusione.
Chiedersi se un approccio sia più efficace di un altro, mentre si gira per le strade di Haiti, ha una risposta troppo semplicistica e per spiegarsi la miseria desolante di Port au Prince non bastano neanche le riflessioni storiche illuminanti di Jared Diamond in “Collasso”.
Certo tutta la cooperazione, qualunque sia il suo approccio, deve chiedersi seriamente se stia davvero fornendo un aiuto per avviare un cambiamento, o se stia invece soltanto radicalizzando le diseguaglianze e favorendo una sorta di neocolonialismo.
Cristina Nadotti
(da “La Repubblica”)
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