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I DUE OSTAGGI ITALIANI UCCISI CON UN COLPO ALLA NUCA PRIMA DEL BLITZ DELLE FORZE LIBICHE

PIANO E FAILLA ERANO STATI RAPITI DA MILIZIANI VICINI ALL’ISIS… I DUE CONNAZIONALI LIBERATI ERANO STATI AFFIDATI A UN ALTRO GRUPPO

La vigilia è finita, la ebbrezza sanguinaria comincia. Il cannone tuona. La terra fuma. È vero? Incredibile sembra l’evento dopo tanta esitazione.
Invece l’uccisione comincia, la distruzione comincia. È vero. Perchè ci sono già  due morti. Fausto Piano e Salvatore Failla, ostaggi di questa eruzione demoniaca, della metastasi libica del califfato, dipendenti della impresa Bonatti di Parma, rapiti nel luglio dello scorso anno.
Da banditi si diceva più che da islamisti: ma dove inizia il confine che separa gli uni dagli altri? I banditi non diventano spesso combattenti di dio?
Si può morire così, con una pallottola alla nuca, a Sabratha, l’esecuzione prima che gli assassini a loro volta venissero uccisi, a settanta chilometri da Tripoli, in una città  di fastose rovine romane e di sanguinosi fanatismi.
I sanguinari piromani del Califfato universale sono arrivati anche qui. Una casa nel nulla, una prigione rifugio usata forse prima di un altro, ennesimo spostamento.
Gli italiani usati – secondo quanto racconta un testimone — come «scudi umani», per coprire la fuga.
Dentro la casa un pugno di armati non si sa esattamente quanti, una donna e un bambino. Sì, in mezzo alle cartucce, ai mitra, alle salmodianti preghiere e all’odio, una donna e un bambino, il jihad come fatica quotidiana, banale.
Sono gli unici sopravvissuti alla battaglia tra una milizia fedele del governo di Tripoli e un gruppo di combattenti di Isis.
Sarebbero tunisini: ancora il marchio della Tunisia, terra che qualcuno descrive giulivamente fuori pericolo, sollevata per miracolo dalla peste del fanatismo armato. Sabratha a 170 chilometri dal confine tunisino: lì c’è un campo di addestramento da cui sono partiti i responsabili degli attentati al Bardo e a Sousse.
Alla fine hanno contato nove morti e una donna che urla e un bambino ferito; ed è lei a raccontare di essere moglie di uno dei combattenti e che tra i cadaveri ci sarebbero anche degli stranieri: ostaggi italiani. In quattro erano stati rapiti nel 2015, altri due dipendenti, Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, della ditta italiana. Non sono lì, ha detto la donna, perchè sono stati affidati a un altro gruppo in un altro luogo. A venderli sarebbe stato l’autista libico ora sotto interrogatorio.
Mentre viaggio verso Misurata penso che il nulla esiste più di tutto ciò che esiste. E che non si minacciano le guerre se poi non si ha il coraggio di farle davvero.
Che attendere i comodi dell’Onu, il girovagare di mediatori senza forza e l’interminabile arte del rinvio dei politicanti libici impegnati a spartirsi poltrone e rendite petrolifere, è più che un errore.
La guerra non è qualcosa che si annuncia, che si dibatte, su cui si fanno circolare «voci»: la fai e basta, se pensi sia giusta e necessaria, attacca, spara, mettiti al riparo quando devi. Tutto qua. E poi recupera i morti. L’occidente non ha fatto la guerra e recupera già  questi poveri morti.
La faremo questa guerra, prima o poi, cinque anni dopo aver annientato il regime psicopatico di Gheddafi torneremo qui per riparare alle nostre colossali e colpevoli imprevidenze.
Torneremo certo «per finire il lavoro», triste formula con cui copriamo la nostra passata incapacità .
Torneremo, questa volta, non per smontare un tiranno (amico nostro), ma per un obbiettivo totalmente egocentrico: difendere i nostri interessi economici (la maledizione libica: avere le più grandi riserve di idrocarburi dell’Africa) e fermare i migranti in un altro possibile stato terrorista.
Ma Piano e Failla, in questo disegno che posto avevano?
Qualcuno aveva pensato a loro, quando annunciava azioni di corpi speciali, raid di bombardieri e altre meraviglie belliche prossime e venture per sgretolare gli assassini di Dio? Ed erano solo annunci.
Li dimenticheremo in fretta i due lavoratori inghiottiti da una normale storia del nostro tempo, ovvero il restringersi del mondo che possiamo vivere e percorrere: sì, li dimenticheremo come abbiamo dimenticato il giovane cooperante Lo Porto, ammazzato dagli americani in Afghanistan «per errore», ucciso da coloro da cui attendeva in fondo al suo martirio la liberazione.
Come abbiamo dimenticato Lamolinara, l’ingegnere ammazzato in Nigeria in un blitz tecnicamente imperfetto.
Non è facile raggiungere Sabratha, eppure sarebbero solo settanta chilometri. Ma a Janzur, appena superato il vecchio aeroporto internazionale di Tripoli ora chiuso e distrutto, scontri tra le infinite milizie rivali hanno interrotto la strada: muri alzati con la sabbia e grandi trincee che hanno tranciato l’asfalto.
Bisogna scendere a sud, allora, compiere una grande diversione nel deserto e poi riguadagnare la strada litoranea.
Ma ad Al Azazyiah, quando pensi che il peggio è dietro di te e le milizie di Sabratha ostili a Isis hanno il controllo, il deserto è ancora più pericoloso: perchè i gruppi jihadisti, costretti a lasciare le posizioni in città , si sono dispersi per render la maggior parte del territorio impraticabile.
L’auto avanza e vedo alla mia destra rupi che precipitano verso il mare e le palme che sono più grigie che verdi e ogni tanto una certa erba verde e crudele, un’erba al sangue.
Dopo tanti chilometri di sabbia, c’è qualcosa di miracoloso e ancor più meraviglioso perchè a contatto con il deserto: il mare, che richiama con le onde infiniti pensieri. La Libia come la Siria e lo Yemen, il Paese delle maledizione e dei miti, le intatte solitudini, quella che un tempo era l’ultima verità  concessa ai nostri sogni.
Penso a ciò che nessuna ricostruzione potrà  mai colmare. Al vuoto dei sette mesi di prigionia dei poveri morti. Posso farlo, ne ho un poco il diritto.
Conosco i sogni di liberazione che ti trascinano ininterrottamente, e ininterrottamente si spezzano come fili marci. E il tempo che non esiste, il giorno e la notte, le ore e i minuti che si confondono. L’attesa è una dimensione spaziale così come il tempo.
Duadi, è il sindaco di Sabratha, come tutti gli arabi si muove e parla come se avesse nel petto una perenne tempesta.
Racconta la dinamica dello scontro in cui hanno perso la vita gli italiani; e come sia difficile cacciarli via. Qualche giorno fa il governo a Tripoli con molto ottimismo aveva annunciato che il problema era risolto.
Qui come nel califfato della terra dei due fiumi il reclutamento delle milizie Isis è internazionale ma la sua anima è locale, radicata nelle mille contraddizioni di questo posto violento.
Ancora la micidiale capacità  del califfato di mescolare forze diverse. Sirte che era il feudo della tribù di Gheddafi, duramente bombardata dagli occidentali nel 2011, è stata poi malmenata dai successori del dittatore: come le tribù sunnite di Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein.
Imitando gli ufficiali di Saddam molti pretoriani del Colonnello hanno raggiunto le file dell’Isis per cercare la rivincita. E nuovo potere.
Così in Libia dove l’internazionale islamica progetta di creare una nuova provincia del califfato o di trasferirsi in caso di sconfitta in Medio Oriente, la generazione di Gheddafi ha fatto alleanza con quella di Saddam per combattere il jihad.
Feroce malizia della storia: entrambi sono passati dall’anti-islamismo originario all’islamismo più radicale.

Domenico Quirico
(da “La Stampa”)

This entry was posted on venerdì, Marzo 4th, 2016 at 12:14 and is filed under denuncia. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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