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I LICENZIATI HANNO SUPERATO IL MILIONE: ITALIA PAESE DELLA DISOCCUPAZIONE

VANNO AGGIUNTI DUE MILIONI DI GIOVANI CHE NON TROVANO IMPIEGO

Il numero dei nuovi disoccupati creati dalla crisi ha superato il milione: per la precisione sono 1.031.151 le persone che hanno perso il lavoro fra il 2008 e il primo trimestre 2013.
Si aggiungono ai due milioni di disoccupati “preesistenti” e quindi portano il totale a tre milioni di persone in cerca di lavoro nel nostro Paese.
Sono gli ultimi dati dell’Istat, le estrapolazioni non ancora elaborate nè pubblicate che Repubblica ha potuto vedere, a confermare questo dramma.
In totale, se ancora nel 2008 lavoravano 23 milioni e 405mila italiani, questo numero si è ridotto nei primi mesi di quest’anno a 22 milioni 374mila.
E, come si vede dai grafici che pubblichiamo, non c’è settore che si sia salvato, nè l’industria manifatturiera, nè il commercio, nè tantomeno l’edilizia.
Ecco l’aspetto più drammatico della recessione che continua incessante a penalizzare il nostro paese ormai da oltre cinque anni, quello su cui sta concentrando i suoi sforzi il governo Letta. Che non perde occasione per insistere presso i suoi colleghi europei sull’assoluta urgenza degli interventi.
Se ne è parlato nel vertice nel consiglio dei ministri del Lavoro europei a Roma la settimana scorsa, si cercherà  di varare misure concrete a livello europeo nel vertice dei capi di governo a Bruxelles il 26 e 27 giugno.
E sul piano nazionale è in pieno svolgimento il confronto fra il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, e i sindacati sul “pacchetto” di misure più urgenti, dagli sgravi sulle assunzioni alla caduta dei vincoli sull’apprendistato.
L’Italia è il paese più colpito dalla disoccupazione è arrivata al 12,8% nella media nazionale, ma se si va a vedere la fascia giovane, cioè dai 18 ai 24 anni, è già  al di sopra del 40%.
E al Sud la disoccupazione giovanile supera ormai il 50%. Un ragazzo su due nel Mezzogiorno non trova lavoro.
I crolli, a leggere le cifre, sono devastanti: nella sola Campania gli occupati sono scesi da 1 milione e 680mila a un milione e 578mila: un crollo secco di oltre 100mila unità , pari quasi all’8%.
In Puglia, la terra dell’Ilva (dove sono a rischio 20mila posti), la caduta è già  stata, in poco più di quattro anni, di 108mila occupati: da 1 milione 286mila a un milione 178mila, ovvero quasi il 9%.
Ma ovunque, anche al Nord, gli effetti della recessione sono drammatici: in Veneto sono andati persi 75mila posti, in Toscana 70mila, in Lombardia 60mila, in Piemonte ben 88mila. Scendendo ancora più in dettaglio, i particolari sono agghiaccianti: nel settore delle costruzioni, tanto per fare un esempio, in Campania gli occupati sono scesi da 158mila a 97mila fra il 208 e il 2013.
Nello stesso periodo in Sardegna, guardando stavolta al settore industriale in senso lato, cioè compreso sia il manifatturiero che l’edilizio, i lavoratori sono crollati da 131mila a 99mila.
Quale miracolo dovrà  mai avvenire per permettere di recuperare oltre 60mila dipendenti nell’edilizia in Campania o 32mila nell’industria in Sardegna?
La Cgil è stata accusata di eccessivo pessimismo quando ha detto che serviranno 63 anni per raggiungere di nuovi i livelli pre-crisi, ma queste cifre le danno ampiamente ragione.
Le cronache restituiscono giornalmente dati da bollettino di guerra. Perfino nella sede del Pdl, il partito che doveva creare “un milione di posti di lavoro” e invece ha contribuito a bruciarne in egual misura, 200 dipendenti protestano perchè saranno licenziati con la fine del finanziamento pubblico dei partiti.
Le cifre in gioco sono ben peggiori, da un angolo all’altro della penisola.
Alla fine della settimana scorsa al presidio organizzato a Milano da Fillea Cgil, Filca Cisl e Feneal Uil, le tre confederazioni degli edili, si è appreso che la crisi del settore in Lombardia è ancora più profonda di quanto dicano le cifre. “Oltre ai 50mila lavori persi l’indotto ha visto ridursi i dipendenti di circa 90.000 unità  – puntualizza Battista Villa, segretario generale Filca Lombardia – senza disporre degli ammortizzatori sociali”.
A Taranto i dipendenti dell’Ilva continuano a lavorare con la spada di Damocle del fallimento del gruppo, che ora è affidato a un commissario con i proprietari sotto processo. E se l’Ilva chiude torna in discussione l’intero piano siderurgico nazionale e i lavoratori coinvolti diventano 40mila, senza contare la minaccia di un profondo ridimensionamento anche della Fiat di Melfi, che a Taranto compra l’acciaio.
La stessa Fiat tra l’altro ancora deve gestire la reindustrializzazione di Termini Imerese, in Sicilia, dove 1300 operai hanno perso il posto e sono tuttora in cassa integrazione. E che dire della Sardegna?
L’Alcoa miracolosamente non ha chiuso, ma ora c’è il nuovo limite a novembre che torna a inquietare 900 dipendenti, e poco lontano c’è la Carbosulcis, dove come riferisce il segretario provinciale della Uiltec dell’Iglesiente, Mario Crò, “la Regione, in attesa di conoscere le decisioni Ue sulle misure a sostegno per garantire gli stipendi è costretta a ricorrere ai fondi per la messa in sicurezza della miniera”.
Le crisi si accavallano: nel Lazio, vicino Rieti, la multinazionale francese dell’elettronica Schneider minaccia di chiudere la fabbrica lasciando a terra 181 dipendenti, e ad Anagni (Frosinone) l’indiana Videocon ha già  abbandonato lo stabilimento licenziando tutti i 780 lavoratori e lasciando agli enti locali e al consorzio industriale della provincia l’immane compito di trovare una soluzione.
E poi mille crisi locali, fronteggiate con coraggio e disperazione: quelli che   hanno portato le operaie della Mabro di Grosseto, fabbrica di abiti in agonia, a lavorare per mesi senza stipendio dormendo in mensa per paura di essere estromesse dalla proprietà , oppure gli operai specializzati di Casalbertone, periferia romana, a riconvertire a loro spese l’impianto un tempo prestigioso chiuso dalla Wagon Lits.
Per non parlare della cintura torinese, dove un intero “pianeta” industriale, quello dell’indotto Fiat, è stato travolto dalla crisi dell’auto e dell’azienda-faro.
Nomi gloriosi come la De Tomaso di Grugliasco, ex Pininfarina rischiano di essere cancellati dalla mappa dell’economia italiana.
È uno stillicidio senza fine: il tasso di disoccupazione in aprile, ultime stime ufficiali, ha raggiunto il 12,8%, il dato peggiore da quando vengono rese note le serie storiche, cioè dal 1977.
Nel Sud si supera ormai il 20% di disoccupazione. Nell’ultimo anno si sono persi 475mila posti, portando il totale dall’inizio della crisi come si è visto ad oltre un milione, e il numero dei senza lavoro a ben più di 3 milioni.
Fra i giovani (18-24 anni) il dato nazionale medio è sconcertante: 41,9% di disoccupati, il peggiore d’Europa alla pari con Spagna e Grecia.
La peggior situazione in assoluto è per le donne del Mezzogiorno: 56,1%, molto più della metà . E come sempre questi dati non tengono conto della massa di precari senza alcuna garanzia nè certezza, di chi ha rinunciato a cercare un posto, degli “inattivi” che vanno avanti con piccoli lavoretti in nero, di chi stenta a sopravvivere con una miserrima pensione sociale, insomma di chi esce dalle statistiche per un motivo o per l’altro.
In totale, calcola l’Ires della Cgil, l'”area della sofferenza” riguarda in Italia non meno di 9 milioni di persone. “Solo negli ultimi 12 mesi – ricorda Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Trentin della stessa Cgil – c’è stato un incremento del 10,3% in questa stima, pari a 818mila unità , e rispetto al quarto trimestre 2007 l’aumento è del 46,4% pari a 2,8 milioni”.
Le realtà  locali sono allarmanti: “Nell’isola il fenomeno della povertà  investe 400mila persone”, dice per esempio Mario Medde, leader della Cisl sarda.Altrettanto drammatiche le cifre sulla cassa integrazione. “Tra gennaio e aprile 2013 hanno chiesto aiuto alla sola cassa integrazione straordinaria oltre duemila aziende”, spiega Giampiero Castano, un passato da sindacalista della Fiom, oggi capo dell’unità  di crisi al ministero dello Sviluppo economico.
I cassintegrati non figurano ancora ufficialmente come disoccupati, in qualsiasi delle tre categorie ricadano: la cassa ordinaria, quella attribuita nel caso di conclamate crisi di settore, quella straordinaria che riguarda i casi di ristrutturazione aziendale, e quella in deroga.
È quest’ultima la categoria più a rischio perchè, a differenza delle prime due, non è finanziata da un fondo rotatorio basato sui contributi delle stesse aziende e gestito dall’Inps (che risulta ancora oggi miracolosamente in attivo) ma deve essere continuamente rifinanziata dallo Stato: creata nel 2009 appunto per reagire alla crisi economica che stava piombando sul sistema Italia, la cassa in deroga è servita per sovvenzionare tutti i settori finora esclusi: le aziende con meno di 15 dipendenti, gli artigiani, i commercianti, i dipendenti del settore turistico e così via.
Prima la finanziavano le regioni, da quest’anno direttamente lo Stato, e l’Inps funge anche in questo caso da ente erogatore: non senza polemiche perchè proprio la settimana scorsa l’ente presieduto da Antonio Mastrapasqua si è lamentato che non può continuare ad anticipare allo Stato, come sta succedendo, importi sempre più cospicui.
Nel complesso, considerando le tre categorie e calcolando non tutti i cassintegrati sono a zero ore, cioè non lavorano per niente, ma più spesso lavorano meno ore e si alternano in modo da non restare più di tre mesi lontani dal posto di lavoro, la cassa integrazione interessa oggi circa 500mila lavoratori.
Se si aggiungessero ai tre milioni di disoccupati le cifre sarebbero ancor più da brivido. C
i provò proprio nel 2009 la Banca d’Italia, osservando appunto che i cassintegrati sono da equiparare ai disoccupati e rifacendo i conti: uscì fuori che il tasso “vero” non era il 7,5% di allora ma si arrivava al 10%.
Apriti cielo: gli allora ministri Giulio Tremonti (Tesoro) e Maurizio Sacconi (Lavoro) insorsero, accusando la Banca d’Italia di diffondere cifre inappropriate, e da allora di questi calcoli ufficialmente non se ne sono fatti più. Ma la sostanza resta.Insomma la crisi del lavoro assume sempre più, ogni giorno che passa, i toni di un’emergenza nazionale.
Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, la ricorda con allarmante sistematicità .
Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, l’ha posta in testa alle priorità  nelle Considerazioni Finali lette il 31 maggio all’assemblea.
Il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, all’assemblea degli industriali di una settimana prima aveva parlato di “situazione tragica”.
Il premier Enrico Letta assicura che proporrà  ai partner europei un grande piano comune per l’occupazione al vertice annuale di fine giugno, ora che grazie alla chiusura della procedura per deficit eccessivo l’Italia può tornare a far sentire la sua voce.
Nel frattempo, conferma il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, il governo è impegnato a utilizzare con il massimo risultato possibile i fondi europei che la chiusura stessa della procedura ha reso disponibili, e raccomanda di “usare i margini che si sono aperti, gli stessi che quest’anno vengono assorbiti dalla restituzione dei debiti alle imprese, per programmi di occupazione giovanile”.
Ma quale diabolica coincidenza di fattori si è intrecciata per penalizzare così tanto il lavoro nel nostro Paese?
Le cause vengono da lontano, ammonisce Gary Pisano, il docente di management ad Harvard che è considerato uno dei più prestigiosi studiosi del settore e ha fatto da consulente a Barack Obama per risolvere la disoccupazione in America. “Negli ultimi vent’anni in tutto il mondo – spiega Pisano – si è sottovalutata l’importanza della manifattura come fonte stabile e sicura di lavoro. Si è scelta la finanza o i servizi, dimenticando che solo dalle gloriose fabbriche, per quanto tecnologicamente evolute, viene l’apporto-lavoro più significativo di lungo periodo”.
Che una bella fetta delle colpe sia da attribuire alla finanza, “e alla sua illusione di poter diventare ricchi in fretta”, lo pensa anche Fabrizio Pezzani, economista della Bocconi: “Anche fiscalmente, si è sempre più penalizzato il lavoro, sia dal punto di vista dell’impresa che da quello del dipendente, rispetto alle imposte su rendite e grandi patrimoni. Nel 1929 le imposte sul reddito erano il 22% e quelle sulla successione il 20%, oggi sono il 10% sul reddito e praticamente zero sulla successione”.
Proprio su una riformulazione del sistema fiscale si basano le speranze del governo italiano di ricavare i fondi per l’occupazione innanzitutto giovanile: finanziando per esempio periodi di apprendistato, riducendo il carico contributivo e fiscale per chi assume dipendenti minori di 25 anni, fornendo contributi speciali a tasso agevolato alle aziende che s’impegnano ad occupare giovani (o anche ad assumere tout court).
Tutte misure urgentissime ma altrettanto insidiose: il pericolo, ha ammonito la settimana scorsa il ministro del Tesoro, Fabrizio Saccomanni, è che gli esborsi pubblici necessari finiscano col far ripiombare l’Italia nella situazione di “deficit eccessivo”, la procedura di cui si parlava prima, con la riapertura dell’istruttoria che è stata chiusa con grandissima fatica e forte entusiasmo pochissime settimane fa.
E allora per l’Italia si riaprirebbe ancora una volta il baratro.
Su questo sottilissimo crinale il governo e i sindacati sono costretti a camminare.

Eugenio Occorsio
(da “la Repubblica“)

This entry was posted on sabato, Giugno 22nd, 2013 at 22:30 and is filed under Lavoro. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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