IL CARCIOFO MARINO
ROMA VA SCIOLTA PER MAFIA E BONIFICATA DA CERTA SINISTRA E DA CERTA DESTRA
Il sindaco di Roma Ignazio Marino esultante dopo il Consiglio dei ministri che gli leva quasi tutti i poteri e di fatto lo commissaria, con il decisivo argomento che“si è tolta dal tavolo l’ipotesi dello scioglimento del Campidoglio”, ricorda la scena del ragionier Ugo Fantozzi che, pestato a sangue da una gang di teppisti che gli smontano pure la Bianchina pezzo per pezzo, esala tra un ceffone e una testata: “Badi, signore, che se osa ancora alzare la voce con me…”; poi perde i sensi.
Ma che cosa deve ancora accadere perchè Marino, che comunque un mestiere ce l’ha e non campa di politica, ponga fine alla sua agonia politica e si dimetta da sindaco lasciando il suo nemico di sempre —cioè il suo partito— in brache di tela?
Da quando ha avuto il torto di vincere le elezioni, il Pd gli ha fatto una guerra spietata che nemmeno a B.
Gli ha imposto assessori e collaboratori poi regolarmente finiti in galera o sotto inchiesta.
Ha raccolto firme per le sue dimissioni. Non ha mosso un dito quando la destra di Alemanno chiedeva la sua testa perchè parcheggiava la Panda in sosta vietata. Dopodichè si scoprì che il problema di Roma non era la Panda, ma la Banda: della Magliana, nel seguitissimo sequel “Mafia Capitale”.
Lui ne uscì pulito proprio perchè non aveva nulla a che fare con il suo partito“cattivo, pericoloso e dannoso” secondo la definizione dell’ex ministro Fabrizio Barca, infestato da “associazioni a delinquere” secondo l’attuale ministra Marianna Madia, diretto da gentaglia che falsificava le tessere e intrallazzava con Buzzi & Carminati.
E chi tornò nel mirino di quel partito lì? Marino.
Il premier Renzi, mai eletto da nessuno se non come sindaco di Firenze, iniziò a dettargli ultimatum, spalleggiato dalla solita Boschi.
Il commissario Orfini, che frequenta il partito romano da quando aveva i calzoni corti e naturalmente non ha mai visto nè sentito nulla, fece invece la parte del poliziotto buono, sostenendo il sindaco come la corda sorregge l’impiccato.
Intanto gli mise accanto l’assessore turborenziano ai Trasporti Stefano Esposito che, essendo di Moncalieri (provincia di Torino), assicura la giusta competenza su Roma e parla già da sindaco.
Anzichè ribellarsi all’accerchiamento, Ignaro Marino continuò a fare il finto tonto (almeno speriamo che sia finto) e ad aggirarsi con le due dita alzate in segno di vittoria, anche quando gli arrestavano 44 persone tutto intorno.
Poi battè un cinque alla Boschi alla festa dell’Unità .
E implorò Renzi “di giudicarmi dai risultati”, come se fosse stato Renzi a nominarlo sindaco di Roma, e non gli elettori a eleggerlo.
Infine andò in scena il funeral party di Casamonica, che lo colse in vacanza all’estero.
E riecco gli sciacalli e gli avvoltoi affondare i denti: non era certo il sindaco che doveva impedire quella sceneggiata, semmai le forze dell’ordine che fanno capo a questore, prefetto e ministro dell’Interno.
Ma Alfano non si tocca, ammesso e non concesso che abbia una consistenza, sennò viene giù il governo,e chiederne la testa è inutile per mancanza della medesima. Neppure Gabrielli si tocca: altrimenti come si fa a promuoverlo capo della Polizia? Quindi la colpa è di Marino.
La stampa e la satira di regime lo attaccano perfino perchè è andato in ferie, come se fosse l’unico, come se fosse vietato, come se la sua presenza a Roma a ferragosto potesse cambiare qualcosa.
Noi l’abbiamo scritto fin dal giorno della prima retata di Mafia Capitale: “Roma va sciolta per mafia”. Decine, centinaia di comuni sono stati sciolti per molto meno.
E sciogliere Roma per commissariarla ufficialmente e poi, una volta bonificata, rimandarla alle urne non significa condannare il sindaco, ma affermare ciò che tutti sanno: e cioè che la classe politica e amministrativa del Comune è irrimediabilmente inquinata non da oggi o da ieri, ma da almeno quattro sindacature, di destra e di sinistra.
Marino, che fino a prova contraria non ha mai assecondato interessi criminali, avrebbe — volendo — tutte le carte in regola per ricandidarsi e tornare in Campidoglio, almeno sul piano morale.
Sulle capacità di governo, invece, stendiamo un velo pietoso, visto l’abbandono in cui versa la Capitale.
Ma spetta agli elettori decidere, non a Renzi, nè a Gabrielli e neppure ad Alfano.
Invece Marino s’è imbullonato alla poltrona, lasciandosi logorare per conto terzi e sfogliare giorno dopo giorno come un carciofo.
E ora subisce, con l’aria giuliva e le solite dita a V, l’ultima umiliazione: sia il fatto che ieri il Consiglio dei ministri ha trasferito al prefetto Gabrielli, cioè a Renzi —non si sa con quale legittimità — il controllo su otto settori vitali della città (dalla casa ai campi rom, dal verde all’ambiente) e il coordinamento del piano Giubileo, tutti compiti che spettano al sindaco e alla sua giunta; sia soprattutto il fatto che, a decidere il tutto, è stato Angelino Alfano.
Ma sì, il collezionista di scandali e gaffe, il capo del partito più inquisito e arrestato d’Italia, quello che difende a spada tratta il sottosegretario Castiglione indagato in Mafia Capitale per la fogna del Cara di Mineo, che da solo vale tre quarti di Ncd. Neppure un Marino, per quanto nullo, può accettare lezioni da un Alfano.
Se sloggiasse ora, i suoi nemici che lo usano come punching ball per fare i propri comodi e allontanare le elezioni che sanno di aver già perso, lo rincorrerebbero: uno spettacolo impagabile.
Roma, intanto, continuerebbe la sua lenta putrescenza.
Tanto l’unica cosa che non frega niente a nessuno è proprio Roma.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)
Leave a Reply