IL SABBA DELLE DESTRE IN CAMPIDOGLIO
LA PARTITA CHE SI GIOCA A ROMA VA AL DI LA’ DEI CONFINI DELLA CITTA’
Come le streghe sul Monte Calvo, tre destre si sono date convegno attorno al colle romano del Campidoglio.
Secondo le regole di ogni sabba che si rispetti urlano insulti e parole senza senso, ma nè le oche della leggenda nè le campane del mattino sembrano in grado di dissolvere il rumore del loro litigio.
Sotto il colle, Roma assiste stremata e incolpevole, soprattutto impotente.
Già ha vissuto la prova delle primarie anonime del Pd, con manciate di schede bianche gettate nei seggi per far crescere meccanicamente il numero di elettori che languiva politicamente.
Poi l’ossimoro vivente delle primarie di destra con un solo nome sulla lista, quello di Bertolaso, imposto da Berlusconi ma immediatamente contestato dai due partner del Cavaliere, Salvini e Meloni: come se a destra l’unica forma di consultazione possibile fosse il plebiscito, sanzione demagogica di un fatto compiuto, ma ormai senza più la forza nè l’autorità per realizzarsi fino in fondo.
Uno strumento napoleonico, ma per uno schieramento politico che ha smarrito ormai ogni ombra di bonapartismo.
Il risultato è surreale. Incapace di discutere di politica, la destra parla della gravidanza della Meloni, con Bertolaso che la invita a “fare la mamma”, la Lega che la difende scoprendosi improvvisamente femminista per un giorno, e intanto cova ormai apertamente la contro-candidatura della leader di Fratelli d’Italia, mettendo nell’angolo Berlusconi che promette di “ridere in faccia” ai politici di professione: perchè “vengono i brividi” a pensare che gente “incapace di amministrare un’edicola” possa credere di poter fare il sindaco di una città come Roma.
Sotto gli stracci che volano a destra, bisogna però cercare di capire la sostanza del problema, nuovissimo.
Non si tratta infatti di un litigio tra “i tre leader” come titolano comprensivi e nostalgici i giornali di destra, e nemmeno di un “tradimento”, termine che nel vocabolario berlusconiano ricorre ogni volta che la strategia dell’ex premier entra in difficoltà .
Il punto è un altro: Roma, com’è giusto che sia trattandosi della capitale del Paese, sta dilatando sul suo palcoscenico millenario la crisi definitiva dell’idea di una destra di governo, che Berlusconi aveva suscitato nel 1994, ventidue anni fa.
La partita che si gioca attorno all’aula Giulio Cesare del Campidoglio, infatti, va molto al di là dei confini di una città non governata da anni.
È prima di tutto una contesa di eredità , senza nemmeno che Berlusconi abbia firmato il suo testamento politico.
Il capo di Forza Italia è ancora in sella, rinchiuso nell’ultimo ruolo politico che gli è rimasto: non più candidato premier, non più con il suo nome sulla lista, non più padrone di mezza Italia elettorale ma piuttosto unico federatore possibile delle diverse anime di destra che si inseguono nel Paese.
È proprio questo ruolo che gli viene contestato nel momento in cui Salvini e Meloni decidono di mettersi in proprio nella Capitale.
Gli istinti populistici vengono prima e valgono di più del talento federativo dell’ex premier, pessimo uomo di governo sempre, ma più volte capace di costruire una coalizione vincente intorno a sè.
Quanto all’esperienza e all’autorità di un ex uomo di Stato, che ha guidato tre volte il Paese, la neodestra non sa che farsene, protesa com’è ad attaccare le istituzioni.
Così l’ex Cavaliere è solo in un Palazzo sempre più disabitato, costretto a fare il lungo inventario dei suoi errori e a difendere l’ultima trincea politica residua, quella di Forza Italia, dalla sfida oltraggiosa di Salvini e Meloni che lo attaccano da fuori, come se non valesse nemmeno la pena di lanciare un’opa su un guscio vuoto.
Quella a cui stiamo assistendo, in effetti, è una vera e propria “scalata esterna” al potere berlusconiano, che chiude un’epoca.
La partita interna – chi è il reggente, chi compone il direttorio nei misteri di Arcore, chi sarà il delfino – è diventata improvvisamente irrilevante, come un impero che si disfa da solo, in quell’autunno del potere tipico di brutti romanzi sudamericani. Il punto vero è la fine dell’egemonia berlusconiana sul “campo” che lui stesso ha prima evocato, poi recintato e quindi guidato per più di vent’anni.
Senza una vocazione istituzionale, ma con una fortissima inclinazione per il potere, la costruzione mezza meccanica e mezza ideologica del miracolo berlusconiano nel ’94 (un partito nuovo baricentro di un’alleanza a due teste inconciliabili, la Lega a Nord e An a Sud) proiettava comunque e fin da subito la destra resuscitata in una dimensione di governo che non aveva mai conosciuto, anche se per Berlusconi la conquista del Palazzo era per comandarlo più che per governarlo.
La scelta travagliata e incerta di aderire infine alla famiglia europea del Partito Popolare dava al berlusconismo una cornice d’obbligo moderata e governativa, utile a tenere a bada gli istinti cesaristi e una pratica drammatica di dismisura e abuso di potere, dalla legislazione ad personam al conflitto di interessi.
La cornice stessa oggi salta, perchè viene al pettine il nodo fondamentale dei vent’anni berlusconiani: non aver creato una moderna cultura conservatrice in un Paese che non l’ha mai conosciuta, essendo stato a destra prima fascista, poi doroteo, infine berlusconiano, mai conservatore nel senso europeo e moderno del termine. È una esatta e inevitabile conseguenza della prassi del cesarismo autocratico che contempla se stesso al potere in un eterno presente, convinto di essere immortale e comunque non sostituibile, se non per via dinastica.
Il risultato è la mancata creazione dello spazio culturale di una destra di governo: c’è un “campo” a destra, ci sono i voti e c’è la storia di un’esperienza titanica e tragica. Manca una cultura che lo rappresenti e lo renda vivo, lo racconti e lo riproduca, selezionando una classe dirigente con criteri diversi dall’ossequio e dalla fedeltà , che peraltro a destra ha sempre una data di scadenza.
In questo vuoto si liberano e dilagano due sottoculture, oggi rappresentate sulla maestosa scena romana dagli inconsapevoli Meloni e Salvini.
Da un lato un post-fascismo quirite che rinuncia ad ogni dimensione nazionale proprio mentre agita un’idea di nazione non come ideale ma come rifugio; dall’altro un etno-centrismo radicale e spaventato che predica l’egoismo come criterio della nuova politica.
Uniti nella povertà di una nuova ideologia che si nutre di paure e chiusure, dipinge un Paese perennemente sotto attacco, minacciato, depredato dalle èlite, ingannato dalle istituzioni, infiltrato dagli stranieri e dagli “zingari”, in una politica che non si accorge di aver sostituito del tutto i sentimenti con i risentimenti.
Un Paese in continua minorità psicologica, che proietta l’idea di una destra di ruspa e di piazza ma non di governo, dunque anch’essa di minoranza quasi per definizione.
Ai due sfidanti della neodestra italiana manca una cultura nazionale, persino l’ambizione di parlare all’intero Paese rappresentandolo, e non solo a una sua parte, impaurendola.
Finisce qui, dunque, l’avventura della destra italiana di governo, soppiantata da due surrogati minori benchè radicali, che messi insieme non riescono nemmeno a proiettare l’immagine d’importazione di un lepenismo all’italiana.
Il troppo lungo tramonto dell’ex Cavaliere oltre a non lasciare rimpianti non lascia nemmeno principi ereditari all’orizzonte, come forse voleva il suo inconfessato disegno.
Arrivano soltanto i barbari, e in Campidoglio non ci sono più oche.
Ezio Mauro
(da “La Repubblica”)
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