INTERVISTA A RAFAEL LEAO: “HO FATTO TANTI SACRIFICI. E LI HA FATTI LA MIA FAMIGLIA PER DARMI UN FUTURO, MIO PADRE E’ PARTITO A 18 ANNI DALL’ANGOLA PER LAVORARE IN PORTOGALLO”
“VOGLIO SPINGERE I RAGAZZI A PRENDERE IN MANO LA PROPRIA VITA, I SOCIAL SONO PERICOLOSI, TROPPO ODIO. IL RAZZISMO È OVUNQUE, PURTROPPO”
Rafa Leao, il titolo del suo primo libro è «Smile». Appunto.
«Racconto me stesso. Ho solo 24 anni, so bene che c’è ancora tanto da scrivere, soprattutto come calciatore. Vorrei spiegare ai miei fan chi sono davvero. E perché sorrido».
Infatti: perché?
«C’è gente che non ha l’acqua per bere. Quando puoi camminare, hai da mangiare, magari hai qualcuno che ti vuole bene, la vita è “smile”. Io ho tutto, ho anche di più, Dio mi ha dato un dono e io gli sono grato. Il mio lavoro è giocare a pallone, ho coronato il mio sogno di quando ero bambino. Come potrei non sorridere?».
E in cosa deve crescere come calciatore?
«Per crescere devo vincere cose importanti, come la Champions o l’Europa League. Le cose belle si dimenticano troppo velocemente, quindi bisogna vincere ogni anno, il più possibile. Quando sei al Milan devi farlo, non è una scelta, è un dovere. Per lasciare il tuo nome nella storia».
E come cantante in cosa deve crescere?
«No, la musica per ora è solo un hobby. È la mia migliore amica. Appartengo alla generazione Z, quella dei nativi digitali. Mi sono appassionato al rap sentendolo sul telefono.
Impazzivo per Eminem da bambino. Ma la musica era già in casa: mio zio era un dj, suonava alle feste private e in discoteca. Trap, drill. Poi ho iniziato a scrivere canzoni, sono al secondo album. Dopo Beginning, My life in each verse. Ho conosciuto Kanye West prima di Genoa-Milan. Ora c’è il calcio. In futuro, vedremo. Anche la musica è un modo per parlare di me. E per dare un messaggio: voglio spingere i ragazzi a credere nei sogni, a non mollare mai».
Cosa vuol dire?
«Come prendere in mano la propria vita. Le decisioni non sono sempre facili, ma se sono qui è per le scelte che ho fatto. Anche quelle sbagliate. Essere un privilegiato non significa che la vita è sempre stata facile. E non significa essere incapaci di soffrire».
Lei è una star dei social, viaggia verso i 6 milioni di follower su Instagram.
«I social sono pericolosi, non è un mondo positivo. Troppo odio, troppe cattiverie. Le cose che so non le ho imparate lì. Li uso perché devo averli per il mio lavoro, però non mi piacciono. Si sorride poco sui social».
La sua risposta a un hater razzista ha fatto il giro del mondo.
«Sui social e non solo esiste gente così, purtroppo. Manca spesso l’educazione in famiglia, a scuola. Lui non sa nemmeno cosa ha fatto. E questo è un problema: i razzisti spesso non si rendono conto di come sono».
L’Italia è un Paese razzista?
«Il razzismo è ovunque, purtroppo. Ecco perché noi calciatori dobbiamo provare a fare qualcosa, visto che abbiamo tanta popolarità. Dobbiamo sfruttare questa forza, mandando messaggi. Il Milan è molto sensibile al tema. Anche nella vicenda di Maignan a Udine si è visto. Abbiamo fatto bene a comportarci così, giusto uscire dal campo».
E il sogno da calciatore? Che futuro si immagina?
«Il mio futuro è al Milan. Sono qui e ho ancora un contratto di quattro anni. Il Milan mi ha aiutato quando ero in una situazione difficilissima, mi è stato vicino. Io non dimentico, sono leale. Sono arrivato da ragazzino, qui sono cresciuto come uomo e come calciatore. Voglio vincere ancora, la mia testa è qui».
Dalla periferia difficile di Lisbona al grande calcio.
«Ho fatto tanti sacrifici, ma soprattutto li ha fatti la mia famiglia. Mio padre Antonio è partito a 18 anni dall’Angola per lavorare in Portogallo e per darmi un futuro. Mi ha dato molti insegnamenti, prima di tutto l’importanza del lavoro. Ecco perché voglio fare di tutto per restituire ciò che mi hanno dato: ho la possibilità di fare qualcosa con il mio talento. La prima cosa che ho comprato con lo stipendio al Lille è stata una casa per la mia famiglia».
In campo, spesso alza gli occhi al cielo. Che rapporto ha con Dio?
«Molto stretto. Sono credente, cattolico, anche se alcuni pensavano che fossi musulmano, forse per il colore della pelle e per le origini africane. Prima andavo sempre a messa la domenica, ora faccio più fatica perché ci sono le partite. La preghiera fa parte della mia vita».
I primi ricordi?
«Il pallone fra i piedi, a Bairro da Jamaica, oltre il fiume Tago. Un quartiere molto popolare, la maggior parte sono immigrati, in molti dall’Africa. La mia famiglia è in parte angolana e in parte, da quella di mia madre, di São Tomè. Angolani, guineani, capoverdiani abitano il bairro. Non un posto facile. Lì di buono c’era il pallone, ci giocavo dalla mattina alla sera. Interi pomeriggi nel parcheggio del supermercato. A volte penso di essere rimasto su quel campetto. Spesso carte appallottolate o una lattina come palla, mentre un’auto era la porta. Il mio modo di giocare è ancora quello, un calcio di strada, finte, scatti, furbizia».
Piace ai bambini.
«Forse proprio perché gioco come i piccoli, che vogliono divertirsi».
Sull’ultima domanda, se è innamorato, Leao va in dribbling. Una risposta, però, l’ha data nel libro.
«Non riesco ad aprire il mio cuore al 100 per 100, ho una tremenda paura che mi possano ferire. Non riesco a lasciarmi andare, a essere me stesso in tutto e per tutto. Eppure sono certo di volere una famiglia, dei bambini, prima dei 30 anni. Forse ho paura che i figli possano provare quello che ho provato io, la separazione dei miei, e poi crescere come sono cresciuto io. Vorrei trasmettere quella relazione d’amore che non ho mai visto».
(da Il Corriere della Sera)
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