Marzo 10th, 2012 Riccardo Fucile
ALTRI 61 MILIONI DESTINATI A RICAPITALIZZARE LA SOCIETA’ STRETTO DI MESSINA PER UN PONTE CHE NON SI FARA’
Ecco l’ennesimo spreco, potrà commentare qualcuno di fronte alla notizia, pubblicata ieri dal
quotidiano Mf con il titolo: «Altri 61 milioni al Ponte che non si farà ».
La vicenda a cui si riferisce l’autrice dell’articolo, Luisa Leone, riguarda la ricapitalizzazione della società Stretto di Messina, concessionaria pubblica dell’opera, effettuata lo scorso dicembre da parte dei suoi azionisti Anas e Ferrovie dello Stato.
Più che uno spreco, tuttavia, non è altro che l’emblema dell’enorme ipocrisia che ha sempre avvolto questa infrastruttura, fin dal suo concepimento.
Basta ricordare la sequenza di docce calde e fredde a cui abbiamo assistito da 11 anni a questa parte.
Nel 2001, con l’arrivo di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, sembrava cosa fatta. «Poseremo la prima pietra alla fine del 2004 e l’opera sarà completata in cinque-sei anni», annunciò il ministro Pietro Lunardi.
Ma nel 2006 non era stata posata alcuna pietra.
Anzi: con il ritorno di Romano Prodi il progetto del Ponte finiva nel cassetto.
Logica avrebbe voluto che fosse tumulata insieme anche la concessionaria Stretto di Messina. Inaspettatamente, però, il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro la salvò dalla tomba.
Così nel 2008, con il rientro del Cavaliere a Palazzo Chigi, il Ponte ripartì in pompa magna. Ma era tutta un’apparenza.
Mentre il progetto definitivo tagliava (evento storico) il filo di lana, la tensione politica scemava.
Finchè un giorno di ottobre del 2011, approfittando di una presa di posizione di Bruxelles che aveva giudicato l’opera non più prioritaria, lo stesso governo Berlusconi accettò che venisse nei fatti accantonata con un ordine del giorno parlamentare dell’Italia dei Valori.
E Mario Monti, arrivato a novembre, non ha potuto far altro che prenderne atto.
Ma anche se tutti sono ormai coscienti che il Ponte, a meno di un miracolo, non si farà , nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente.
E si continua nell’ipocrisia.
Chissà ancora per quanto tempo…
Sergio Rizzo
(da “Corriere della Sera”)
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Marzo 10th, 2012 Riccardo Fucile
IL 7,3% DELLE TRANSAZIONI NEI PRIMI DUE MESI DEL 2012 SONO STATE EFFTTUATE DA ITALIANI
Secondo la rete di agenzie immobiliari Knight Frank, nei mesi di gennaio e febbraio 2012, il 7,3 per cento delle transazioni sono state effettuate da nostri connazionali, contro il 7,2 dei russi.
E 2011 lo scambio d’affari ha riguardato 450 milioni di sterline pari a 540 milioni di euro. I quartieri preferiti?
I migliori e i più cari: Chelsea, Maida Vale, Saint John’s Wood e Kensingto
Gli italiani a Londra non sono mai mancati.
Ma ora gli abitanti del Belpaese che emigrano o investono nella capitale inglese hanno una caratteristica in più: hanno tanti, ma tanti soldi.
Secondo la rete di agenzie immobiliari di case di lusso Knight Frank, nei mesi di gennaio e di febbraio di quest’anno gli italiani hanno superato i russi nell’acquisto di ville e appartamenti di pregio.
E ora rappresentano la prima comunità estera, nei primi due mesi del 2012 ben il 7,3 per cento delle transazioni sono state effettuate da italiani, contro il 7,2 per cento dei russi. Proprio in questi giorni, a Londra, è in scena la fiera dell’Italia, “La Dolce Vita”.
«I ricchi italiani vogliono investire fuori dall’Eurozona, che, come sappiamo, non se la passa bene», spiega Liam Bailey, responsabile del centro studi sul residenziale di Knight Frank.
«Lo stesso grande interesse per gli immobili londinesi lo vediamo da Paesi come la Grecia e la Spagna. Da Atene arriva, per esempio, un 3 per cento delle transazioni, e questo fa della penisola ellenica la quinta area in ordine di importanza per quanto riguarda la provenienza dei compratori».
Ma perchè proprio Londra?
«La capitale è un posto “logico” per investire. È un enorme mercato molto liquido e dove i prezzi delle case salgono di continuo, c’è la City e l’alta finanza, lo stile di vita è interessante. Insomma, a Londra si è sempre al centro del mondo».
Nel 2011, gli italiani hanno comprato da Knight Frank case e ville per un totale di 450 milioni di sterline, al cambio attuale quasi 540 milioni di euro.
Il prezzo medio di una casa acquistata dagli abitanti dello Stivale è di 2 milioni di sterline.
«Ma abbiamo venduto anche proprietà da 10 milioni di sterline — riprende Frank — e ancora nella nostra memoria è quella villa nel quartiere di South Kensington da 7,4 milioni venduta a un italiano».
Chelsea, Maida Vale, Saint John’s Wood e Kensington, appunto, i quartieri preferiti, dove gli italiani trovano ottime scuole, ottimi servizi e tanto, tanto lusso.
Ma a Roma e a Milano stanno riscoprendo pure quartieri periferici e meno di pregio come Clapham e Fulham.
Gli inglesi, chiaramente, rappresentano ancora la maggioranza, con un 40,1 per cento delle transazioni.
Secondi gli italiani con il 7,3 e terzi i russi con il 7,2 per cento, appunto.
Poi vengono i francesi, con il 5,2 per cento e gli indiani con il 4,4 per cento.
Al quinto posto i greci, con un 3 per cento.
«Gli italiani sono sempre stati fra i “top buyer” — aggiunge Bailey — e da anni sono fra le prime cinque posizioni. Ma non possiamo nascondere che questo sorpasso dei russi, ora, ci ha proprio stupito». Poi, una cosa Bailey suggerisce. Non ci sono solo le case, ma c’è tutto un mondo legato all’Italia che gira attorno.
Così i nostri connazionali con i portafogli pieni si incontrano al ristorante San Lorenzo di Kensington o al bar Frankie’s fondato dal famoso fantino Frankie Dettori.
Ancora, fanno frequentare ai figli le migliori scuole private e i migliori college e, di sera, vanno nei club esclusivi della capitale, fino a ieri riservati agli inglesi, ma che ora si sono aperti anche ai ricchi possidenti stranieri.
Ma chi sono questi facoltosi italiani?
Knight Frank non fa nomi, nel rispetto della privacy dei suoi clienti, ma si sa che ci sono tanti uomini e donne della finanza, attratti dalla City, attori, imprenditori, gente dello spettacolo e dello sport e persino intere famiglie che scelgono di vivere definitivamente all’ombra del Big Ben.
«Soprattutto dall’Italia del nord — spiega John Kennedy, dell’agenzia Knight Frank di South Kensington — e ci ha impressionato il numero di genitori che comprano case di lusso per i loro figli che studiano a Londra. Poi ci sono i compratori professionali, come le agenzie immobiliari italiane che acquistano per poi rivendere».
Secondo gli analisti dell’agenzia, che ha sedi in tutto il mondo, gli italiani, i greci e gli spagnoli sono spinti ad acquistare nel Regno Unito anche dalle recenti misure di austerity messe in atto dai rispettivi governi.
E l’interesse è alto, nonostante i prezzi.
Le valutazioni sono aumentate, infatti, in tutto il 2011, dell’11,6 per cento e, solo nel mese di febbraio di quest’anno, dell’1 per cento.
Dal collasso della Lehman Brothers e dalla crisi economica del 2008/2009, i prezzi delle case di lusso londinesi sono aumentati del 43 per cento.
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Marzo 10th, 2012 Riccardo Fucile
RAPPORTO DEMOS: PAESE SPACCATO E MAI COSI IMPAURITO
Il futuro fa paura. 
L’insicurezza economica è la più grave delle minacce: colpisce sette italiani su dieci. Spaventano disoccupazione, crisi dei mercati e inflazione.
Anche la criminalità torna a preoccupare.
E ancora: otto italiani su dieci vedono ormai la società spaccata in due, tra chi ha poco e chi ha molto.
L’85% pensa che i figli staranno peggio dei padri.
E la tv? Prosegue nel suo strabismo: se da un lato pare finalmente sintonizzarsi sulle paure reali degli italiani, dedicando il 39% delle notizie ansiogene alla crisi, dall’altro conferma la sua difficoltà ad adeguarsi alla realtà , mantenendo salda la sua sfrenata “passione criminale” (con ben il 55% delle notizie).
A mappare le nostre paure è il quinto Rapporto sulla sicurezza, realizzato da DemosÎ e Osservatorio di Pavia per Fondazione Unipolis.
I risultati? La crisi rappresenta oggi il primo motore dell’insicurezza.
Quasi tre italiani su quattro si dicono preoccupati dai problemi economici (peggio di noi solo gli spagnoli): il 73%, un dato lievitato di 10 punti rispetto al 2010 e di 16 negli ultimi due anni.
Oltre un terzo prevede che, nei prossimi sei mesi, il quadro nazionale si aggraverà ulteriormente e il 77% percepisce un allargamento degli squilibri in termini di ricchezza. “Dopo che per anni l’insicurezza è stata tradotta come paura della criminalità , anche per spostare le preferenze politiche dell’opinione pubblica soprattutto verso il centro-destra – spiega il direttore del rapporto, Ilvo Diamanti – oggi, echeggiando Bauman, potremmo parlare di “insicurezza ontologica”, perchè scuote alle radici la nostra stabilità sociale e familiare. Ne mina le basi: il reddito, il lavoro, il risparmio. Ha origini che noi non possiamo controllare. È questa la novità : gran parte dei cittadini ha paura di quel sta succedendo, ma non è in grado di comprenderlo. Cosa sono lo spread o Moody’s? Cosa vogliono da noi?”.
La stessa paura della criminalità (43%), il cui indice balza di dieci punti rispetto al 2010, va in parte ricondotta a questo senso di “vulnerabilità globale”.
Non a caso la quota di persone che si dicono preoccupate dalla criminalità sale di altri 10 punti fra coloro che più soffrono l’insicurezza economica: donne, anziani e casalinghe, che divorano oltre quattro ore di tv al giorno.
Non è tutto: l’85% degli italiani ritiene che la criminalità sia cresciuta rispetto a cinque anni fa e uno su quattro pensa che, nella propria zona di residenza, i reati della criminalità organizzata siano aumentati nell’ultimo anno (soprattutto al Centro Nord).
Anche l’insicurezza globale (legata ad ambiente, guerre, sicurezza alimentare) si mantiene su livelli elevati, coinvolgendo quasi il 76% degli italiani.
Bassa rimane invece la paura degli immigrati.
Considerando insieme le tre dimensioni (economica, globale e criminale), l’insicurezza complessiva degli italiani raggiunge il livello più elevato dal 2007.
E la tv? Stenta ad adeguarsi alla nuova mappa delle paure.
Certo, i tg si accorgono finalmente della crisi economica, salita al 39% delle notizie sull’insicurezza, ma non abbandonano la loro “passione criminale” (55% delle notizie). Un caso tutto italiano. Non solo.
Nel resto d’Europa della crisi si parla fin dall’inizio del 2011: i telegiornali di Spagna, Gran Bretagna, Francia e Germania affrontano il tema da gennaio. In Italia, invece, stando al Tg1 la crisi economica inizia nel luglio del 2011 e viene trattata da gennaio a giugno in sole 14 notizie (contro le 117 della spagnola Tve).
Non tutti i tg sono però uguali: nel 2011, la dimensione ansiogena di Studio Aperto è legata per l’80% a notizie criminali e per il 7% alla crisi economica.
E anche Tg1 e Tg5 continuano ad assegnare il primato alla criminalità (rispettivamente 52% e 68%).
Al contrario, il Tg3 e il Tg La7 invertono l’ordine: la voce “peggiorare le condizioni di vita” è in testa all’agenda (49% delle notizie).
“Il sentimento di insicurezza degli italiani è ancora contraddetto dalla rappresentazione proposta dai tg – sostiene Diamanti – ma in misura meno violenta rispetto agli anni scorsi, perchè la realtà ha ormai imposto la priorità dell’emergenza economica”.
Vladimiro Polchi
(da “La Repubblica”)
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Marzo 10th, 2012 Riccardo Fucile
SI’ AL RINNOVO DEL CDA RAI SE PASSERA CEDE SUL BEAUTY CONTEST… IL PDL VUOLE MARIO RESCA COME PRESIDENTE
Ventotto marzo. Il giorno è fissato e più s’avvicina più preoccupa.
Quel giorno il Consiglio di amministrazione Rai dovrà approvare il bilancio consuntivo e rimettere il mandato in scadenza.
Appena i conti di viale Mazzini saranno messi al sicuro, in quel preciso momento il presidente Paolo Garimberti dichiarerà sospeso il triennio che si aprì con il direttore generale Mauro Masi e il centrodestra al governo e si chiude con la cattolicissima Lorenza Lei e i tecnici a Palazzo Chigi.
Risultato: il finimondo.
Il partito democratico chiede che il rinnovo dei vertici di viale Mazzini coincida con la riforma di una legge, quella che porta il nome di Maurizio Gasparri, che garantisce ai partiti l’assoluto controllo del servizio pubblico: “Noi non parteciperemo all’ennesima spartizione in Commissione parlamentare di Vigilanza. Si può modificare la Gasparri. Dobbiamo capire — dice il segretario del Pd — se la Rai è un’azienda oppure un luogo di scorribande”.
Il governo dovrà respingere le richieste di Pier Luigi Bersani (e in parte di Pier Ferdinando Casini e, soprattutto, di Antonio Di Pietro) perchè per i tempi stretti — e la ringhiosa opposizione dei berlusconiani — sarà impossibile correggere il testo di Gasparri.
Facce nuove, solite regole.
Senza troppi rimpianti, per una stima sempre precaria, Silvio Berlusconi è pronto a sacrificare Lorenza Lei (e la direzione generale) per riavere le frequenze del digitale terrestre senza pagare un euro.
A quel punto, rinforzato il patrimonio di Mediaset e neutralizzata la concorrenza (il mercato televisivo resta uguale), il Pdl sarebbe felice di indicare soltanto il presidente di viale Mazzini: il dirigente Mario Resca, l’uomo di B. al ministero per i Beni Culturali, è il candidato prescelto, dopo aver provato a piazzare l’amico e attuale consigliere Antonio Verro.
Poi per la direzione di viale Mazzini, incassati i canali in più, il Cavaliere lascerebbe la poltrona a Palazzo Chigi: corsa che si riduce a due nomi fra Claudio Cappon, ottimo amico di Corrado Passera e Giancarlo Leone, trasversale, ma più di centrosinistra che di centrodestra.
I progetti berlusconiani si scontrano con il ministro Corrado Passera (Sviluppo economico) che, indifferente ai pressanti movimenti di Fedele Confalonieri, il presidente di Mediaset che sostituisce il Cavaliere apparentemente distante dai suoi interessi, ordina ai suoi collaboratori di andare avanti con la conversione del beauty contest: intollerabile regalare le frequenze patrimonio pubblico.
Chi le vuole, deve pagare.
Tra viale Mazzini e le frequenze c’è un filo comune che Berlusconi, stavolta, non può muovere a suo piacimento: davvero il Cavaliere sfiducerà il governo di Monti se dovesse tornare indietro senza raccogliere nulla?
L’ex ministro Paolo Romani, che inventò il concorso gratuito chiamato beauty contest, boccia l’idea di Passera, cioè quella di vendere le frequenze in un’asta pubblica: “So che ci sono degli approfondimenti in corso — ha detto al Tg3 — non è un problema di carattere politico. L’asta sarà un fallimento economico, ma non sarà un problema che il Pdl metterà sul tavolo per farne una causa di discrimine nei confronti del governo”.
Il Cavaliere non la pensa esattamente così, anzi è disposto a cedere un pezzo di viale Mazzini pur di accaparrarsi le frequenze senza scomodare il portafoglio e assicurare un impero agli eredi sino a un’imprecisata generazione.
Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 10th, 2012 Riccardo Fucile
LA SCORSA SETTIMANA DI PAOLA AVEVA SAPUTO DAI SERVIZI DELL’ARRIVO DELLE FORZE SPECIALI INGLESI NELL’AREA…GLI INGLESI RITENGONO GLI ITALIANI PROPENSI A PAGARE IL RISCATTO E QUINDI INAFFIDABILI
Il governo italiano è stato informato del blitz imminente in Nigeria alle 10.30 di giovedì mattina. 
Due ore dopo – mentre l’operazione era ancora in corso – l’ambasciatore britannico a Roma Christopher Prentice è stato ricevuto a Palazzo Chigi dal sottosegretario alla presidenza Antonio Catricalà .
E durante l’incontro non gli è stata mossa alcuna contestazione alla decisione del primo ministro David Cameron, così come alla Farnesina, dove Prentice si è recato subito dopo.
Del resto – si fa notare in ambienti governativi – se anche l’Italia avesse ricevuto un’informazione preventiva, avrebbe potuto opporsi alla missione militare?
È questo ormai il nodo da sciogliere nelle relazioni tra il nostro Paese e la Gran Bretagna, da sempre distanti nelle modalità di gestione dei sequestri.
Perchè gli inglesi – almeno ufficialmente – sono accesi fautori della linea interventista, mentre gli italiani sostengono come priorità la salvaguardia della vita degli ostaggi.
E più volte sono stati ritenuti «inaffidabili» perchè disposti a pagare.
Forse ciò ha pesato in quest’ultima vicenda, pur tenendo conto che la scorsa settimana il ministro della Difesa, l’ammiraglio Giampaolo Di Paola aveva ricevuto un appunto riservato dell’Aise (il servizio segreto che si occupa dell’estero) che comunicava l’arrivo delle forze speciali militari nell’area nigeriana dove presumibilmente erano prigionieri Franco Lamolinara e Christopher McManus.
E dunque era ipotizzabile che fossero pronti a entrare in azione non appena si fossero create le giuste condizioni.
Una convinzione che però secondo il governo italiano non risolve il problema «perchè – come è stato sottolineato durante la riunione convocata ieri d’urgenza a Palazzo Chigi – nessuna informazione ufficiale ci è stata fornita su quanto stava accadendo sul campo. E perchè, come dimostrano anche le dichiarazioni ufficiali degli esponenti del governo britannico, questo tipo di comunicazione è stata fornita soltanto quando il raid era ormai cominciato».
È stato lo stesso presidente del Consiglio Mario Monti a stigmatizzare «una autonomia operativa rivendicata dagli inglesi che in questo caso non era affatto giustificata», anche se poi in serata, dopo aver ribadito la «necessità che sia fatta chiarezza su ogni passaggio», una nota del governo sottolinea la volontà che non ci sia «nessuno strappo o desiderio di escalation diplomatica con la Gran Bretagna» e rinnova «piena fiducia nei servizi segreti», tanto che a coordinare il comitato interministeriale permanente sarà l’attuale direttore del Dis Gianni De Gennaro.
Dunque è proprio dalla ricostruzione emersa a Palazzo Chigi che bisogna partire per evidenziare quale sia stato il livello di comunicazione fra i due Paesi.
10.30
La telefonata La comunicazione dal MI5 all’Aise arriva pochi minuti dopo il via libera decretato dal Cobra, il comitato per le emergenze, riunito a Downing Street. In Italia sono le 10.15.
Il presidente del Consiglio Mario Monti è atterrato da poco a Belgrado. Alle 10.30 è proprio De Gennaro a informarlo che il blitz è cominciato. Nessuna comunicazione preventiva era stata trasmessa per via diplomatica, nè c’erano stati contatti fra i due governi.
11.00
L’operazione è in corso, i reparti speciali britannici hanno quasi raggiunto l’obiettivo. Le comunicazioni arrivate all’ intelligence italiana nei giorni precedenti assicuravano che i servizi segreti nigeriani avevano dettagli precisi sull’identità dei rapitori e temevano che avessero deciso di vendere gli ostaggi a un’altra banda o comunque di spostarli in un’altra prigione.
Del resto le informazioni iniziali escludevano che l’italiano e l’inglese fossero nelle mani dei fondamentalisti tanto che i primi accertamenti erano stati delegati a Scotland Yard e non agli 007. Soltanto in seguito è stato percepito il rischio che potesse trattarsi di un gruppo più pericoloso e si è deciso l’intervento.
12.30
Il primo incontro Mentre le teste di cuoio raggiungono l’obiettivo, l’ambasciatore Prentice entra a Palazzo Chigi. Viene fornita un’informazione scarna su quanto sta accadendo in attesa di conoscere l’esito del blitz.
Anche perchè – come sempre accade in questi casi – le fasi dell’intervento militare sono coperte da un totale blackout nel timore che una qualsiasi interferenza possa causare problemi a chi sta operando.
13.30
Il secondo incontro Terminato il colloquio con il rappresentante di governo, l’ambasciatore si reca alla Farnesina. Il ministro Giulio Terzi è a Belgrado con il presidente del Consiglio. Secondo alcune fonti diplomatiche Prentice viene ricevuto dal segretario generale Giampiero Massolo che conosce da tempo e con il quale vanta un ottimo rapporto.
14.00
La disfatta Attraverso i canali di intelligence filtrano le prime informazioni e parlano di un’operazione fallita, accreditano l’ipotesi che gli ostaggi siano morti. Si cerca una conferma, le consultazioni diventano frenetiche. Monti è sull’aereo che lo riporta in Italia, riceve la telefonata di Cameron che lo informa della tragedia ed esprime il proprio cordoglio.
18.15
Il comunicato
Una nota di Palazzo Chigi comunica quanto accaduto.
Nel comunicato viene sottolineato che «dal momento del sequestro le autorità italiane avevano seguito la vicenda in stretto collegamento con quelle britanniche», ma si evidenzia come «l’operazione è stata avviata autonomamente dalle autorità nigeriane con il sostegno britannico, informandone le autorità italiane solo ad operazione avviata».
19.30
La polemica
È il Partito democratico ad avviare il dibattito chiedendo che il governo riferisca in aula su quanto accaduto. Palazzo Chigi ribadisce di essere stato informato soltanto quando il raid era già cominciato e questo fa salire il livello della polemica fino alla nota del Quirinale di ieri mattina che parla di «comportamento inglese incomprensibile». Il Comitato parlamentare presieduto da Massimo D’Alema convoca per lunedì il direttore dell’Aise Adriano Santini.
Fiorenza Sarzanini
(da “Il Corriere della Sera”)
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Marzo 10th, 2012 Riccardo Fucile
IN UN BAR DI ROMA, UNA CRONISTA DEL “FATTO” ASCOLTA UN COLLOQUIO RISERVATO TRA L’EX MINISTRO E L’EUROPARLAMENTARE UDC GARGANI… LA PREOCCUPAZIONE CHE EMERGA IL RUOLO DELLA SINISTRA DC E DI DE MITA NELLE PRESSIONI PER AMMORBIDIRE IL CARCERE DURO PER I BOSS DI COSA NOSTRA NEL 1993
Sono circa le 12,30 di mercoledì 21 dicembre quando arrivo alla pasticceria Giolitti in via degli Uffici del Vicario, a due passi da Piazza del Parlamento, dove ho appuntamento per ragioni di lavoro con l’onorevole Aldo Di Biagio di Fli.
Entro, ma non lo vedo. La voglia di accendere una sigaretta supera anche il freddo pungente. Esco. Mi siedo a un tavolino e ordino un cappuccino. Sono sola.
Poco dopo vedo arrivare, a passo lento, l’onorevole Calogero Mannino in loden verde, in compagnia di un signore dai capelli bianchi, occhiali, cappotto scuro taglio impermeabile e in mano un libro e dei fogli. Non so chi sia. I due stanno parlando.
E continuano a farlo fermandosi in piedi accanto al mio tavolo.
Mannino, che mi dà le spalle, dice con tono preoccupato e guardandosi più volte intorno sospettoso: “Hai capito, questa volta ci fottono: dobbiamo dare tutti la stessa versione. Spiegalo a De Mita, se lo sentono a Palermo è perchè hanno capito. E, quando va, deve dire anche lui la stessa cosa, perchè questa volta ci fottono. Quel cretino di Ciancimino figlio ha detto tante cazzate, ma su di noi ha detto la verità . Hai capito? Quello… il padre… di noi sapeva tutto, lo sai no? Questa volta, se non siamo uniti, ci incastrano. Hanno capito tutto. Dobbiamo stare uniti e dare tutti la stessa versione”.
Il suo interlocutore annuisce con cenni del capo e ripete: “Certo, certo, stai tranquillo, non ti preoccupare, ci parlo io”.
E Mannino ripete: “Fallo subito, è importante, mi raccomando”.
Poi, avvicinandosi di più al signore coi capelli bianchi, gli sussurra all’orecchio parole che ovviamente mi sfuggono, ma che suscitano nell’interlocutore un’espressione di meraviglia. Subito dopo, i due si salutano, si abbracciano e si scambiano gli auguri di Natale.
Mannino si dirige verso il Pantheon, mentre il signore occhialuto col cappotto scuro verso Piazza del Parlamento, dove poco dopo lo fotografo con il mio iPhone.
Subito dopo mi raggiunge l’onorevole Di Biagio.
Il quale, vedendomi un po’ turbata, mi domanda cosa mi sia accaduto. Rispondo genericamente di aver ascoltato Mannino dire cose incredibili.
Rientro in redazione nel primo pomeriggio e racconto per sommi capi quello che ho visto e sentito al direttore Antonio Padellaro e al vicedirettore Marco Travaglio.
Quest’ultimo, quando gli mostro la foto scattata dal mio iPhone e gli chiedo se riconosca il signore occhialuto coi capelli bianchi, risponde sicuro : “Certo, è Giuseppe Gargani, ex democristiano, demitiano, poi berlusconiano”.
Gargani è un ex Dc, ex Ppi, nominato commissario dell’Agcom dal governo dell’Ulivo, poi transitato in Forza Italia e di lì confluito nel Pdl, eletto europarlamentare, ultimamente fondatore di Europa Sud e da poco passato all’Udc di Casini.
Alla luce di questa biografia, le parole che ho appena ascoltato diventano tante tessere che vanno a riempire una parte del mosaico.
Annoto quello strano episodio con le parole che ho ascoltato dalla viva voce di Mannino nel mio taccuino: un giorno questi appunti potrebbero tornare utili.
Ci ripenso quando leggo che la Procura di Palermo, nel corso dell’indagine sulla trattativa Stato-mafia, è salita a Roma il 12 gennaio per sentire come testimone Ciriaco De Mita.
Già so infatti quel che ha dichiarato a suo tempo Massimo Ciancimino: la trattativa fra gli uomini del Ros e suo padre Vito godeva di coperture politiche anche tra le file della sinistra Dc (la corrente, appunto, di De Mita e Mannino).
Mi riservo di approfondire e contestualizzare meglio.
Intanto passa qualche altro giorno ed ecco accendersi definitivamente la lampadina quando, il 23 febbraio, le agenzie e i siti battono la notizia che Calogero Mannino, già assolto in Cassazione dopo un lungo e tortuoso processo per concorso esterno in associazione mafiosa, è di nuovo indagato a Palermo.
Questa volta per il suo presunto coinvolgimento nella trattativa Stato-mafia.
Il reato contestato è quello previsto dall’articolo 338 del Codice penale, aggravato dall’articolo 7 (cioè dall’intenzione di favorire Cosa Nostra): per “violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario”.
Lo stesso che vede già indagati il generale ex Ros Mario Mori, l’ex capitano Giuseppe De Donno, il senatore Marcello Dell’Utri, i boss Totò Riina e Bernardo Provenzano. Approfondisco le ultime mosse dei magistrati e apprendo che durante l’interrogatorio c’è stato un duro scontro tra il pm Antonio Ingroia e Ciriaco De Mita.
Ingroia definisce Mannino, nel periodo che era oggetto dell’interrogatorio, ministro degli Interventi straordinari del Mezzogiorno, De Mita puntualizza: “Ministro dell’Agricoltura”.
Ma il pm insiste. “E come fa a permettersi di insistere?”, sbotta De Mita.
Il pm replica: “Perchè ricordo, ricordo diversamente”.
“Giudice — ribatte De Mita — se lei ha la presunzione della verità delle sue opinioni, io temo per gli imputati!”.
Ad avere ragione è Ingroia: Mannino fu ministro dell’Agricoltura nel 1982 e ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno dal 12 aprile ’91 al 28 giugno ’92.
Ma alla fine De Mita aveva dovuto ammettere di avere torto: “È grave, è grave per me…”.
Quanto al ruolo di Mannino, le cronache riferiscono che l’autista di Francesco Di Maggio (il magistrato promosso vent’anni fa vicedirettore del Dap e poi scomparso) ha rivelato ai pm di aver appreso dallo stesso Di Maggio che proprio Mannino fece pressioni affinchè non venisse rinnovato il 41-bis ad alcuni mafiosi detenuti.
Ecco di che cosa parlava Mannino con Gargani quel mattino poco prima di Natale.
Ecco perchè appariva così terrorizzato da possibili “voci stonate” sulla trattativa e interessato alla compattezza e all’uniformità delle versioni da parte di tutti gli “amici” della vecchia Dc.
Ed ecco, ben chiare di fronte a me, le ultime tessere mancanti del mosaico di quell’episodio che temevo fosse destinato a restare confinato in qualche riga di appunti sul mio block notes.
Ne parlo con qualche mia fonte di ambiente investigativo e ben presto la scena cui ho assistito davanti al bar Giolitti giunge a conoscenza dei magistrati di Palermo.
Vengo convocata dai pm Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Lia Sava e Paolo Guido che indagano sulla “trattativa” per essere ascoltata come persona informata sui fatti, cioè come testimone nel fascicolo sulla trattativa.
Ovviamente accetto di raccontare tutto ciò che ho visto e sentito quel mattino.
Dopo verranno subito sentiti i due politici protagonisti del colloquio da me casualmente ascoltato: cioè Mannino e Gargani.
Alla fine, al momento di firmare il verbale, i magistrati mi ricordano che le deposizioni dei testimoni sono coperte dal segreto investigativo.
Obietto che sono una giornalista, oltrechè la depositaria della notizia.
Dunque, ultimate tutte le verifiche per contestualizzare il colloquio Mannino-Gargani, racconterò tutto anche ai lettori.
Cosa che ho appena fatto.
Sandra Amurri
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 10th, 2012 Riccardo Fucile
“C’ERA UN PEZZO DELLO STATO CHE TRATTAVA”….LE PAROLE DEL GIUDICE: “CHI MI UCCIDERA’ NON SARA’ LA MAFIA”
Mentre un gruppo di politici impauriti cercava rimedi per non essere ucciso, e le forze
dell’ordine percorrevano la via del dialogo con chi aveva fatto saltare in aria un mese prima il giudice Falcone e la moglie su un chilometro di autostrada, un uomo in toga continuava a dare il senso di sempre al termine “lotta alla mafia”.
Dicendo “no”, in modo fermo e deciso, alla “dissociazione”, la via d’uscita da Cosa Nostra che il papello di Riina aveva ipotizzato, e molti politici e funzionari avevano accettato di discutere per placare la furia stragista. P
oco prima di essere assassinato, Paolo Borsellino discuteva con i funzionari della Dia del progetto di “dissociazione” dei mafiosi detenuti, manifestando apertamente la sua contrarietà ad un’ ipotesi che considerava “inammissibile”.
In particolare, il procuratore aggiunto di Palermo, pronunciandosi sull’iniziativa del boss Pippo Calò che, in carcere, si era fatto portavoce dei capi-mandamento sulla possibilità di prendere le distanze dall’associazione mafiosa, appariva addirittura “disgustato”.
Lo rivela in un lungo verbale del 5 novembre 2009 il pentito Gaspare Mutolo, spalancando per la prima volta il sipario su una delle ipotesi più inquietanti che si allungano dietro la strage di via D’Amelio.
Dice il pm Nicolò Marino: quello della dissociazione “è uno dei possibili moventi, dell’uccisione di Paolo Borsellino”.
Non è una novità da poco.
Nell’estate del ’92, a pochi giorni dal “botto” di Capaci, lo Stato valutava già la possibilità di stemperare la violenza dell’attacco di Cosa nostra con il varo di una normativa che, sulla scia di quanto già accaduto ai tempi del terrorismo, avrebbe consentito a numerosi detenuti mafiosi di ottenere benefici carcerari in cambio dell’abiura del vincolo di appartenenza all’organizzazione criminale, senza la necessità di accusare i propri complici.
La dissociazione, insomma, era già un orizzonte dello Stato trattativista, ben prima di quelle manovre che una decina d’anni dopo avrebbero impegnato il procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna nei colloqui investigativi con i boss provenzaniani.
Ma Borsellino – nei giorni in cui il generale del Ros Mario Mori, come annota lo stesso Mutolo “scendeva spesso a Palermo e aveva contatti all’interno di Cosa nostra per trattare”, considerava l’idea una follia.
“Il giudice appariva fortemente contrariato — sostiene Mutolo — e ripeteva che coloro che stavano solo pensando di accettare la dissociazione erano dei pazzi”.
Siamo al 1° luglio 1992.
La discussione, ascoltata per caso dal pentito, avviene a margine dell’interrogatorio al quale sono presenti i funzionari della Dia Francesco Gratteri e Domenico Di Petrillo. Quest’ultimo, sentito dai pm di Caltanissetta , conferma — a sorpresa – le clamorose affermazioni di Mutolo, ammettendo che “la dissociazione fu uno dei temi trattati in quel periodo”, e facendo risalire la propria conoscenza della questione proprio ai primi interrogatori di Mutolo.
“Ricordo — dice Di Petrillo – che (quel giorno, ndr) si parlò di dissociazione, in termini molto generici, e me lo ricordo perchè era un fenomeno che ho recepito in quanto materia affine a quella dell’antiterrorismo”.
L’ex procuratore aggiunto di Palermo Vitto-rio Aliquò, presente a quell’interrogatorio, appare più vago nel suo ricordo, ma non esclude “che nel corso dell’incontro con Di Petrillo si sia potuto parlare di qualcosa, ed in particolare della dissociazione di mafiosi”, anche se riguardo alla dissociazione, “luglio ’92 mi pare un po’ troppo prematura come data”.
E se l’allora capo della Dia Gianni De Gennaro (oggi al vertice del Dis, il dipartimento dei servizi segreti) e il suo braccio destro Gratteri escludono di aver mai sentito parlare del concetto di “desistenza”, per quanto riguarda i mafiosi, di diverso avviso è Edoardo Fazioli, che in quei mesi era vice-direttore del Dap guidato da Niccolò Amato. Fazioli ha dichiarato che nella seconda metà del ’92 si discusse all’interno del Dipartimento proprio della prospettiva di creare “aree separate di detenzione’ ‘ per mafiosi che avessero deciso di dissociarsi.
La dissociazione, insomma, era un argomento “caldo” che all’interno delle istituzioni, e ai massimi livelli, veniva discusso nel momento della massima offensiva di Cosa nostra contro lo Stato.
Del resto, lo stesso ministro della Giustizia Claudio Martelli ha descritto ai pm di Caltanissetta le “pressioni” ricevute nel ’92 da numerosi parlamentari — pur dopo l’attacco di Capaci — per “abbassare la guardia” e adottare una linea di contrasto più morbida.
Non troppo diversa la ricostruzione di Vincenzo Scotti, il ministro dell’Interno che diviene la vittima di un’improvvisa “rimozione” a fine giugno ’92, per far posto a Nicola Mancino, uomo della sinistra Dc (la stessa corrente dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino, indagato a Palermo per violenza e minaccia a corpo politico dello Stato, e ritenuto l’ispiratore della trattativa).
Rimozione dovuta, per lo stesso Scotti, proprio “alla lotta contro Cosa nostra ingaggiata col ministro Martelli”.
Rimozione dovuta, secondo la ricostruzione della procura di Palermo, alla necessità di posizionare al Viminale un uomo più malleabile per imprimere alla lotta alla mafia un orientamento più “morbido”.
La dissociazione, tra le richieste espressamente indicate nel “papello”, è dunque una delle chance che lo Stato intende giocare sul tavolo della trattativa, ed è un punto sul quale, con certezza, Borsellino oppose un netto rifiuto.
Quel “muro” di cui Toto’ Riina, a fine giungo ’92, si lamenta con Giovanni Brusca. Quel “muro” da “superare ad ogni costo”, con un altro “colpetto”, aggiungendo proprio che dietro la trattativa “c’è Mancino”.
Ma non solo.
Nelle sue ultime dichiarazioni, datate 8 febbraio 2011, infatti, Brusca tira fuori per la prima volta, i nomi dei politici che, secondo quanto gli avrebbe detto Riina, “si sono fatti sotto”, dopo Capaci, per trattare.
Si tratta di “contatti” istituzionali, che al capo dei capi avevano chiesto: “Per finire, cosa volete?”.
Brusca apprende da Riina che “a farsi sotto erano stati il movimento politico della Lega e un altro movimento politico, tramite Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri”. Un nome, quest’ultimo, mai fatto prima, perchè “si tratta di persone — dice Brusca — che ci avevano aiutato”.
Ministri, parlamentari, alti funzionari della Repubblica sono i protagonisti di una girandola di iniziative incrociate che — nell’infuocata estate del ’92 — si propongono di combattere la mafia stragista attraverso il dialogo.
Un uomo isolato, in toga, continua a camminare lungo i binari dello Stato di diritto, contando i giorni che lo separano alla morte.
Quell’uomo è Paolo Borsellino, costretto a fidarsi solo della moglie, alla quale affida tutta la sua disperazione.
“Chi mi ucciderà non sarà la mafia”, le rivela, alludendo al ruolo di “infedeli servitori dello Stato”.
Eppure il gip di Caltanissetta, a vent’anni da quella estate di sangue e di tradimenti, scrive oggi che non esistono prove che inchiodino responsabilità istituzionali a volto coperto, che “non esiste alcuna entità (servizi deviati, terzi o quarti livelli politico-criminali, organizzazioni terroristiche e via dicendo) in grado di imporre la sua volontà a Cosa nostra”.
E che “pertanto si può solo ipotizzare che, in determinate situazioni, l’organizzazione criminale mafiosa abbia ritenuto conveniente stipulare contingenti alleanze strategico-criminali con soggetti ad essa esterni, per un proprio esclusivo tornaconto”.
Niente mandanti esterni, insomma. Semmai, come dice Piero Grasso, solo “concorrenti”.
Borsellino muore, il 19 luglio 1992, consapevole dell’arrivo del tritolo, in quella via D’Amelio dove nessuno aveva pensato di istituire una “zona rimozione” per tutelare la sua vita. Muore tradito da un amico, forse in divisa.
Muore davanti al palazzo dove abita uno dei suoi carnefici, quel Salvatore Vitale che è tra i destinatari dell’ordinanza di custodia cautelare, che lo descrive come la “talpa” delle cosche.
Muore solo e di sola mafia.
Fino a prova contraria.
Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
(“da “Il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 10th, 2012 Riccardo Fucile
LA RICOSTRUZIONE DEI MAGISTRATI: APPARATI INFEDELI, MOLTEPLICI FIGURE ANCHE ISTITUZIONALI GIOCAVANO PARTITE COMPLESSE E SPREGIUDICATE
La fine adesso è nota: «Sia nel luglio del 1992, sia nell’anno 1993, la strategia di Cosa nostra è stata quella di trattare con lo Stato attraverso l’esecuzione di plurime stragi che hanno trasformato la trattativa in un vero e proprio ricatto alle istituzioni».
Ricatto che ha prodotto i suoi effetti: «Alcuni significativi risultati Cosa nostra li ha ottenuti se si considera che l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario (il carcere duro per i mafiosi, ndr ) è stato di fatto depotenziato».
I detenuti sottoposti al regime restrittivo si ridussero, in poco più di un anno, di circa due terzi. Poi è cominciata una nuova stagione politica.
La premura
Dall’ultima ricostruzione della Procura di Caltanissetta sulla bomba che il 19 luglio 1992 uccise Paolo Borsellino, emerge in maniera nitida come gli attentati mafiosi abbiano accompagnato – parallelamente all’inchiesta milanese Mani Pulite – il trapasso dalla prima alla seconda Repubblica.
Attraverso un ricatto che prese le mosse quando si decise di eliminare il nemico giurato Giovanni Falcone non a Roma, con qualche colpo di pistola, ma facendo saltare in aria un pezzo di autostrada a Capaci, in Sicilia, nel regno di Cosa nostra.
Nemmeno due mesi dopo l’altro attentato, oggi catalogato come «terroristico»: la morte di Paolo Borsellino che trasforma Palermo in un quartiere di Beirut al tempo della guerra. Eliminazione programmata da tempo, ma anticipata con una «premura incredibile», hanno rivelato alcuni pentiti.
Perchè erano in gioco altri interessi: «La tempistica della strage è stata certamente influenzata dall’esistenza e dalla evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa nostra», scrivono i pubblici ministeri nell’atto d’accusa che conclude quasi quattro anni di indagini nate dalle rilevazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza.
Le istituzioni coinvolte
La fretta di eliminare Borsellino derivò dal fatto che il magistrato, procuratore aggiunto di Palermo, era venuto a sapere dei contatti tra i carabinieri del Ros, guidati dall’allora colonnello Mario Mori, e l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino.
Contatti diretti alla cattura dei latitanti, secondo gli investigatori dell’Arma, che però Cosa nostra percepì come occasione per imporre patti e condizioni: «Nella ricostruzione del generale Mori non convince l’ostinata negazione di una trattativa che invece è nelle stesse sue parole descrittive degli incontri con Ciancimino. Per Cosa nostra era certamente una trattativa», accusano i pm nisseni per i quali Mori, il suo superiore generale Subranni e il capitano De Donno che l’accompagnava negli incontri con l’ex sindaco «sono soltanto il livello statuale più basso di questa trattativa. Altri soggetti, politici, vi hanno verosimilmente partecipato anche dopo il 1992. Questa trattativa si svolse a più riprese e iniziò prima della strage di via D’Amelio».
È il punto di svolta della nuova indagine.
Borsellino scoprì i contatti tra la mafia e altri rappresentanti dello Stato, schierati ufficialmente al suo fianco.
«Tradito da un amico»
Due magistrati, Alessandra Camassa e Massimo Russo, un giorno di fine giugno lo videro piangere.
«Essendo un uomo all’antica non l’aveva mai fatto – ha testimoniato Camassa -. Ricordo che Paolo, anche questo era insolito, si distese sul divano, e mentre gli sgorgavano delle lacrime dagli occhi disse: “Non posso pensare che un amico mi abbia tradito”».
Non disse chi fosse quell’amico, nè accennò a trattative.
Ma la vedova del giudice ha raccontato che il marito, legato al generale Subranni, le confidò di essere sconvolto dopo aver saputo di sue presunte collusioni con la mafia.
E le aveva testualmente riferito che «c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato». Borsellino venne a sapere dei contatti tra i carabinieri e Ciancimino il 28 giugno ’92.
Glielo disse la sua amica magistrata Liliana Ferraro, non gli ufficiali coi quali stava collaborando.
Tre giorni dopo, al Viminale, vide il neo-ministro dell’Interno Nicola Mancino, in un fugace incontro che Mancino continua a non ricordare.
Ma quanto riferito dall’ex ministro, secondo la Procura di Caltanissetta, «appare illogico e non verosimile… V’è da chiedersi se il senatore Mancino sia vittima di una grave amnesia, ovvero sia stato indotto a negare un banale scambio di convenevoli per il timore di essere coinvolto, a suo avviso ingiustamente, nelle indagini. Non si può tuttavia negare che residua la possibilità teorica che egli possa aver mentito “perchè ha qualcosa da nascondere”».
Ostacolo da eliminare
La conclusione è che pur essendosi raccolti nuovi e importanti elementi circa ombre inquietanti di apparati infedeli dello Stato», non sono state individuate ipotetiche «responsabilità penali».
Tuttavia, «in quel momento storico ben era possibile una trattativa con Cosa nostra, e molteplici erano le figure, anche istituzionali, che giocavano partite complesse e spregiudicate con incursioni anche nel campo avverso».
In ogni caso, «si è raggiunta la certezza che Borsellino sapesse delle trattative in corso, e che la sua posizione era, chiaramente, negativa».
Di qui la «premura» con cui Totò Riina decise di farlo fuori, giacchè «era d’ostacolo alla loro riuscita». L’attentato all’ex ministro democristiano Calogero Mannino fu rinviato, e accelerato quello contro il giudice.
Conclusione: «È possibile sia che la decisione di anticipare l’uccisione di Borsellino avesse, da parte di Cosa nostra, lo scopo di punire chi si opponeva alla trattativa, sia anche di riprendere la stessa da posizioni di maggiore vigore».
Dopo la strage di via D’Amelio si apre una nuova fase della trattativa, «in cui a poco a poco Riina da soggetto diventa oggetto della stessa».
E si arriva alla cattura del boss, nel gennaio 1993.
Da quel momento comincia un tira-e-molla sul 41 bis, inframmezzato dalle stragi sul continente: a Firenze e contro Maurizio Costanzo a maggio, a Roma e Milano a luglio. Proprio mentre i rinnovati vertici dell’amministrazione penitenziaria discutevano su come lanciare «segnali di distensione» sul «carcere duro».
Emergono «riserve» e prese di distanza che, accusano i procuratori, «offrono un quadro desolante del fronte antimafia a meno di un anno dalle stragi del ’92 e contemporaneamente alle nuove stragi continentali».
E ancora: «Rimane accertato un quadro certamente fosco di quel periodo della vita democratica di questo Paese… Che poi vi fosse una diffusa “stanchezza” della politica per le iniziative legislative antimafia adottate negli anni 1990-92, purtroppo è parimenti certo. Stanchezza che lambirà , nei mesi successivi, anche il ministero retto dal senatore Mancino». Senza che ciò comporti, ribadiscono i pm fin quasi alla noia, «alcun tipo di responsabilità personale».
Il «frutto avvelenato» –
In questo quadro si arriva alla decisione dell’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, tra ottobre e novembre 1993, di non rinnovare oltre 300 decreti di «carcere duro». Decisione presa nel tentativo di «fermare le stragi», che il ministro dice di aver adottato «in assoluta solitudine»: affermazione «in contrasto con tutti gli altri elementi documentali acquisiti al procedimento», visti i documenti dell’amministrazione penitenziaria che da mesi suggerivano scelte di quel tipo.
«C’è da chiedersi se non sia stato il prezzo della trattativa pagato dallo Stato», sottolinea la Procura, e alla domanda «può rispondersi positivamente… La cosiddetta trattativa, iniziata nel 1992, trova compimento e dà il suo frutto avvelenato nel 1993».
Ma tutto questo, con la strage di via D’Amelio, non c’entra più.
È solo l’estensione di un possibile movente, che continuerà a produrre i suoi effetti anche nei mesi successivi.
Quando il giudice Borsellino è morto da tempo.
Celebrato e tradito al tempo stesso, accusano i magistrati che a vent’anni dall’eccidio ritengono di aver scoperto un altro pezzo di verità nascosta.
Giovanni Bianconi
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Marzo 10th, 2012 Riccardo Fucile
PARLA UN ARCHITETTO “SCARICATO”… SOSPETTI SUL CANTIERE DELLA NUOVA AUTOSTRADA BRESCIA-BERGAMO-MILANO: “OCCORRE CAMBIARE L’ARCHITETTO”
Architetto, possiamo leggerle un verbale d’interrogatorio? 
Angelo Lonati, 57 anni, capelli lunghi e jeans, apre la porta dello studio super-ecologico, nelle verdi e piatte campagne di Groppello d’Adda.
E ascolta le parole di un imprenditore ai magistrati milanesi: “Il sindaco Sala (Edoardo, ex dc, ora pdl, inquisito e sommerso da indizi) ci aveva imposto, in buona sostanza, che per l’approvazione del progetto era necessario abbandonare l’architetto Lonati… “.
Lonati, a sentire il suo nome, impallidisce.
Proseguiamo la lettura: abbandonato lui e altri professionisti di Cassano d’Adda, questi imprenditori dovevano rivolgersi “all’architetto Ugliola.
Pur di vedere realizzato il nostro progetto – si legge nel verbale – acconsentimmo all’imposizione del sindaco”.
Ma in un incontro successivo la “trattativa prese una piega inaspettata”: per realizzare il progetto “era necessario elargire denaro”.
“Finito?” domanda Lonati, e maschera l’amarezza dietro un sorriso: “Un po’ lo immaginavo, ma apprenderlo così, nero su bianco, mi fa effetto. Hanno lavorato per tagliarmi fuori, all’improvviso non s’è fatto più vivo nessuno”.
Mostra cartine e foto: “Il Linificio Canapificio Nazionale era una fabbrica famosa, con la corderia più lunga d’Europa, tanto sono state fatte lì le cime per l’Amerigo Vespucci, che erano lunghe 480 metri. Ora è un’area dismessa, bellissima, io sono nato a Cassano e so che lì si gioca il futuro della nostra cittadina. Il 21 dicembre 2004 il Comune l’aveva approvato, ma poi… “.
Il documento è facile da trovare: tra i firmatari a favore c’era Sala, che poi, diventato sindaco, rema contro.
C’è una questione cruciale da non tacere.
In questa zona della metropoli che arriva sino a Segrate approderà la nuova Bre-Be-Mi, l’autostrada nuova tra Milano e Brescia.
Forse qualcuno ricorderà Piero Di Caterina, della Caronte, come l’accusatore principale di Filippo Penati, ds.
Ma Di Caterina aveva raccontato anche di una mazzetta al sindaco di Segrate, Adriano Alessandrini, pdl: 40 mila euro in un cesto d’alta gastronomia, tra caviale e champagne.
Reale o inventato che sia quel “contributo”, chi oggi va in giro per le sette frazioni di Segrate sente parlare soprattutto di “terreni” che cambiano destinazione d’uso.
Che da agricoli diventano edificabili. E andando in giro tra la statale rivoltana e la paullese, gli operai dei cantieri confermano che fervono iniziative per i nascenti centri commerciali, quelli che il bresciano Franco Nicoli Cristiani, arrestato per una mazzetta consegnata nel ristorante Da Berti, auspicava.
Qui si capisce meglio perchè i magistrati parlino di un sistema Pdl-lega.
Ieri abbiamo pubblicato parte dei verbali esplosivi dell’architetto-mazzetta Michele Ugliola, in cui ammette “sei o sette buste” piene di denaro consegnate durante il 2008 nell’ufficio del presidente del consiglio regionale, il leghista Davide Boni.
Pare interessante apprendere che il primo lavoro eseguito da Ugliola a Cassano sia l’ampliamento della Casa di riposo.
Quando? “Ma quando è sindaco un leghista. E adesso, quando il sindaco è diventato l’ex dc Edoardo Sala, dilagava”, dice un consigliere comunale.
Se Ugliola sembrava un anello di congiunzione tra Franco Nicoli Cristiani, allora assessore alle attività produttive, e Davide Boni, allora assessore al Territorio, le sue tracce non sono chiare.
Però si scopre che anche ad un altro imprenditore di Cassano fosse stato chiesto di mollare quell’architetto Lonati.
A differenza dei primi, quelli del Linificio, non accetta.
Si chiama Battista Benigni e credeva – ex presidente del Monza e vice dell’Atalanta – di avere le spalle forti.
Voleva che tutti i lavori del suo albergo fossero firmato da Lonati.
Risultato: “So che sono venuti qui, ma per favore non mi chieda chi, e gli hanno fatto una “tirata”.
Il principale – racconta uno che lavora con lui – credeva esagerassero, ma il tempo passa e ancora non gli danno l’agibilità dell’ultimo piano. Ha sanato, pagato, era tutto condonato, niente da fare, resta inagibile”.
Questo è anche il potere della tangente: cancella la meritocrazia (Lonati) e aggiunse sopruso a sopruso (l’albergo inagibile).
Ugliola, carneade dell’architettura, gran parlatore, aveva dunque un potere misterioso in Lombardia.
Perchè, altrimenti, dargli un bell’incarico di consulenza all’Aler, e cioè dell’ex istituto case popolari di Milano, con tanto di ufficio interno? Non è cosa da poco, Aler: è uno dei più giganteschi proprietari immobiliari d’Europa, conta moltissimo.
Solo nel 2010, quando i “boatos” cominciavano a sentirsi, l’attuale presidente Loris Zaffra, ex socialista, ora pdl, gli ha chiuso questa consulenza.
Se l’era trovato già lì (sempre dai tempi della Lega).
E Aler non ha solo caseggiati, ha anche terreni. E quello dei terreni, in questa zona tra Milano e Bergamo, così dicono, viene considerato “l’affare” del nuovo millennio. Altro che Expo.
Piero Colaprico
(da “La Repubblica“)
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