Marzo 25th, 2012 Riccardo Fucile
SUCCEDE IN SICILIA DOVE SEBASTIANO TUSA, SOVRAINTENDENTE AI BENI CULTURALI DELLA PROVINCIA STA RIFLETTENDO SULLA PROPOSTA DI CANDIDATURA A SINDACO DI TRAPANI OFFERTAGLI DAL PD… PECCATO CHE ALLO STESSO TEMPO SIA CANDIDATO A PALERMO CON FUTURO E LIBERTA’
Eccola l’ultima frontiera della politica italiana: dopo i numerosi casi di trasformismo lampo, o quelli di cumolo indiscriminato di cariche, anche lo steccato finale è stato superato: riuscire cioè a unire le due cose in un sol uomo.
Che, in questo caso, si chiama Sebastiano Tusa.
Il 60enne Soprintendente ai Beni Culturali della provincia di Trapani, infatti, è stato scelto dal Pd come candidato a sindaco per il centrosinistra della città siciliana.
Solo che, allo stesso tempo, Tusa è candidato al consiglio comunale di Palermo. Col Pd? No. Con Fli, che a sua volta appoggia la candidatura a primo cittadino di Alessandro Aricò – contro quella di Fabrizio Ferrandelli, sostenuto dal Pd.
La candidatura a sindaco di Trapani – città capoluogo di provincia, 70mila abitanti – sarebbe stata proposta dai dirigenti del Pd locale a Tusa, che dopo qualche riflessione avrebbe risposto che sì, alla fine si può fare.
“Accettata con riserva”, scrivono i siti di informazione locali.
I quali aggiungono altri particolari: adesso il Pd trapanese, evidentemente convintissimo della bontà dell’idea, sarebbe impegnato a convincere i colleghi di coalizione di Sinistra e Libertà a convergere su Tusa.
Solo che Sel ha già in corsa Sabrina Rocca e difficilmente farà retromarcia. Per un finiano, poi.
Tusa starebbe riflettendo quindi, ma che in politica abbia le idee un po’ confuse e altalenanti forse non è una novità .
Sulla sua pagina Facebook scrive l’11 marzo scorso: “Il terzo polo ha la possibilità di dare un segno di rottura con le vecchie logiche della politica appoggiando chi si presenta estraneo a tutto ciò. Penso che Ferrandelli possa esserlo. Meditiamoci”.
Due giorni di meditazione, ed ecco qua: “Nel panorama disastrato della politica palermitana una schiarita appare all’orizzonte. Tra candidati esaltati, fai da te e avviluppati nelle logiche di partito, tutti accomunati dalla completa estraneità ai problemi cittadini, emerge, finalmente, la candidatura di un politico stimato, giovane ma non troppo, capace, onesto e rappresentante di una politica che ha saputo anteporre gli interessi collettivi a quelli di bottega. È Alessandro Aricò”.
Insomma, ora Tusa si potrebbe trovare a gareggiare in due competizioni con due magliette diverse.
Un po’ come se Miccoli giocasse in campionato con il Palermo e in coppa Italia con il Catania.
Alchimie della politica.
Tusa lo sa bene, del resto.
Sempre sul social network, alla voce orientamento politico, scrive: “Disilluso”. E chi meglio di lui può confermarlo.
Matteo Pucciarelli
(da “La Repubblica“)
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Marzo 25th, 2012 Riccardo Fucile
ANGELA BIRINDELLI, ASSESSORE ALL’AGRICOLTURA, E’ INDAGATA PER LO STANZIAMENTO DI 18.000 EURO IN PUBBLICITA’ ISTITUZIONALE A FAVORE DELL'”OPINIONE DI VITERBO” CHE SI DISTINGUEVA PER ATTACCHI AI SUOI AVVERSARI INTERNI AL PARTITO
“Dimostrerò la mia estraneità ai fatti”. Così l’assessore all’Agricoltura delle regione Lazio Angela Birindelli si difende dopo che i carabinieri hanno sequestrato nei suoi uffici la determina che disponeva un finanziamento ad un giornale locale.
Birindelli, Pdl, è coinvolta in un’indagine su una presunta tentata estorsione ai danni di due politici.
Al telefono non risponde, ma in un comunicato si dice pronta a chiarire tutto.
La storia ruota attorno al giornale L’opinione di Viterbo che ha un accordo commerciale con il quotidiano nazionale L’opinione, diretto da Arturo Diaconale.
Quest’ultimo ha spiegato al Messaggero: “Noi offriamo alla cooperativa la linea industriale, vale a dire carta, tipografia e distribuzione. Se loro sfondano un certo tot di quote vendute, mi pare 500, allora si prendono qualche utile”. L’accordo per Diaconale è facile da spiegare: “Il vantaggio che ricaviamo dall’accordo è nell’aumento delle copie, così abbiamo accesso ai fondi pubblici”.
Nell’ottobre 2010 non si parlava di accordo economico e la redazione scriveva nella giornata di lancio: “L’opinione di Viterbo è figlio dello storico quotidiano liberale fondato nel 1847”.
La vicenda inizia quando, lo scorso anno, alcuni ex giornalisti e soci della cooperativa (a novembre ci sono stati 6 licenziamenti) hanno presentato una denuncia sulla gestione economica poco chiara dell’Opinione di Viterbo, allegando anche una registrazione audio di una infuocata riunione nella quale il presidente del consiglio provinciale Piero Camilli e il consigliere regionale Pdl Francesco Battistoni sarebbero stati bollati come ‘nemici’, destinatari della presunta tentata estorsione.
Camilli e Battistoni hanno firmato due esposti per evidenziare presunte campagne ‘contro’ messe in piedi dall’organo di informazione.
Gli inquirenti avviano gli accertamenti e nel registro degli indagati, per tentata estorsione, finiscono il direttore dell’Opinione di Viterbo Paolo Gianlorenzo e l’amministratrice unica della cooperativa, Viviana Tartaglini.
Sul fronte politico, il consigliere Battistoni da assessore all’Agricoltura ha dovuto cedere il posto, per la questione delle quote rosa, ad Angela Birindelli. Tra i due è in corso una guerra intestina in seno al Pdl.
Birindelli viene coinvolta nell’indagine della Procura per via di un finanziamento.
Nel giugno 2011 il suo assessorato, mentre l’agricoltura locale paga caro il prezzo della crisi, decide di stanziare ben 18 mila euro per l’Alto Lazio news srl, la società che edita L’Opinione di Viterbo, per pubblicizzare la propria attività istituzionale.
Insomma, i soldi pubblici vanno in mano a un giornale che sogna di superare le 500 copie vendute, poi sospettato di ordire una campagna stampa proprio contro l’avversario politico di Birindelli.
Una vicenda torbida che ipotizza l’uso di un giornale da parte del direttore come strumento di pressione contro i politici non ‘a disposizione’, una presunta macchina del fango nella quale ora è indagata anche l’assessore Birindelli, per concorso nella tentata estorsione.
I coinvolti ribadiscono la loro estraneità ai fatti, ora spetta alla magistratura, pm Massimiliano Siddi, accertare eventuali responsabilità , partendo proprio dai documenti acquisiti.
In giunta c’è aria di nuovo rimpasto.
Ferruccio Sansa e Nello Trocchia
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 25th, 2012 Riccardo Fucile
A PARITA’ DI ETA’ E DI MANSIONI, UN OPERAIO TEDESCO GUADAGNA POCO MENO DEL DOPPIO DI UNO ITALIANO….MARCHIONNE CHIEDE SACRIFICI E LA CHIUSURA DI STABILIMENTI, WOLFBURG REPLICA: A NOI BASTA VENDERE
Marta Cevasco e Jurgen Schmitt, sono due operai metalmeccanici.
Hanno quasi la stessa età : 52 anni la signora italiana e 50 il suo collega tedesco, un’anzianità di servizio simile, entrambi tengono famiglia (coniuge e un figlio) e fanno più o meno lo stesso lavoro non specializzato.
Qual è la differenza tra i due colleghi?
Semplice: lo stipendio. Jurgen guadagna molto di più.
A fine mese l’operaia italiana arriva a 1.436 euro, quasi la metà rispetto al metalmeccanico tedesco, che porta a casa una retribuzione 2.685 euro.
A conti fatti, Marta e Jurgen sono divisi da 1.250 euro.
Chiamatelo, se volete, lo spread del lavoro.
E anche qui, come succede per la finanza pubblica, vince la Germania.
O meglio vince Volkswagen e perde Fiat, perchè i due operai che abbiamo scelto per questo confronto sono dipendenti delle due più importanti aziende automobilistiche dei rispettivi Paesi.
Jurgen passa le sue giornate alla catena di montaggio dello stabilimento di Wolfsburg.
Marta invece lavora in una fabbrica del gruppo del Lingotto.
I nomi sono di fantasia, ma le buste paga sono reali.
E i numeri suonano come la conferma della superiorità del modello tedesco. Un sistema che garantisce retribuzioni più elevate. Ma non solo.
Anche in Germania, ancora più che in Italia, lo stipendio è falcidiato da pesanti prelievi sotto forma di tasse, e, soprattutto, contributi previdenziali e assicurativi.
In cambio, però, questa montagna di soldi contribuisce a finanziare un welfare che nonostante i tagli degli anni scorsi (a cominciare dalle riforme varate tra il 1998 e il 2004 dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder) rimane ancora uno dei più efficienti d’Europa.
Dalle nostre parti, invece, i contributi restano alti, ma il welfare si sta squagliando.
Vediamo un po’ più nel dettaglio il caso tedesco.
Jurgen parte da una paga base di poco superiore a 3 mila euro e con alcune ore di straordinario notturno arriva a superare un compenso mensile lordo di 3.700 euro.
Le trattenute previdenziali e assicurative sfiorano i 700 euro, di cui 336 per la pensione e 267 euro di casa malattia.
Se si considera che l’imponibile ammonta a 3.380 euro circa, i contributi pesano per il 20 per cento circa.
Marta invece paga circa 170 euro per la pensione. Poi però ci sono circa 18 euro per il fondo previdenziale integrativo e altri 16 euro sono destinati all’assicurazione sanitaria supplementare.
Alla fine questi contributi assorbono l’11 per cento di un imponibile pari a circa 1.800 euro, contro il 20 per cento di Jurgen.
Poi ci sono le tasse, che pesano sullo stipendio per meno del 10 per cento (9,89 per cento) nel caso dell’operaio Vw.
Le ritenute fiscali della dipendente Fiat, al netto delle detrazioni, valgono invece il 13 per cento circa dell’imponibile.
Morale: per Marta meno stipendio e più tasse.
Peggio ancora: anche se le imposte sono maggiori, l’operaia italiana riceve servizi meno efficienti rispetto al collega di Wolfsburg.
Va detto che anche in Germania la situazione può cambiare, anche di molto, da un’azienda a un’altra.
E spesso anche tra i reparti della medesima fabbrica.
Alla Volkswagen di Wolfsburg abbondano, anche se restano comunque in netta minoranza, i lavoratori part time e a tempo determinato, con retribuzioni anche del 20-30 per cento inferiori a quella dei loro colleghi.
Jurgen e Marta però fanno parte entrambi della stessa categoria di, per così dire, privilegiati: gli assunti a tempo indeterminato.
Resta il fatto che nel regno di Sergio Marchionne l’operaio se la passa molto peggio rispetto al collega delle fabbriche tedesche della Volkswagen.
Il capo del Lingotto però chiede ancora di più.
Chiede nuovi sacrifici e maggiore flessibilità . Solo così Fiat tornerà grande, dice.
Il gruppo di Wolfsburg si muove diversamente.
Negli ultimi anni ha spostato una parte importante della produzione in aree del mondo a basso costo del lavoro (Cina, Slovacchia, Messico), ma quasi la metà dei suoi 500 mila dipendenti vivono comunque in Germania e di questi la gran parte percepisce stipendi ben più elevati rispetto a quelli della Fiat.
Eppure Volkswagen, anche al netto delle partite straordinarie, vanta profitti ben più elevati del concorrente italiano.
Non sarà che l’arma vincente dei tedeschi sono i prodotti, pensati e realizzati grazie a imponenti investimenti in ricerca e sviluppo?
Marchionne su questo punto resta un po’ vago.
In compenso, da buon liberista all’italiana, continua a chiedere all’Europa interventi straordinari, con soldi pubblici, per ridurre la sovracapacità produttiva in Europa.
Da Wolfsburg rispondono: noi non ne abbiamo bisogno.
Vittorio Malagutti
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 25th, 2012 Riccardo Fucile
SE MONTI CORRE, POCHE CHANCE PER GLI ALTRI… BERLUSCONI RITENUTO NON PIU’ SPENDIBILE, IL CENTRODESTRA PUNTERA’ SU GIANNI LETTA
Il passo indietro di Napolitano è il colpo di pistola sulla linea di partenza.
Il segnale che almeno dieci concorrenti aspettavano per posizionarsi ai blocchi della gara più lunga e incerta che ci sia, quella per il Colle: maggio 2013, quando il nuovo presidente della Repubblica sarà eletto dal nuovo parlamento.
«E difficile prevedere oggi quello che accadrà . Dipende da come andranno le elezioni, quali partiti ci saranno – ragiona Fabrizio Cicchitto – , perchè un anno di questa fase politica equivale a quindici anni di “prima”. Certo questa uscita di Napolitano fa riflettere».
Intanto il capogruppo Pdl ha zittito ieri il suo vice Maurizio Bianconi che aveva gioito per la rinuncia di Napolitano («ce ne faremo una ragione»).
Nessuno se l’aspettava infatti, nè a destra nè a sinistra.
Anzi, ormai quasi si dava per scontato che Napolitano sarebbe rimasto almeno un altro paio d’anni al Quirinale – o almeno ci avrebbe provato – , con un nuovo mandato, per favorire la prosecuzione del governo Monti anche nella prossima legislatura.
Per poi eventualmente, terminata la fase del risanamento, dar vita a una singolare “staffetta” al Quirinale con il Professore.
Questo era lo schema di gioco.
Spazzato via inaspettatamente dal diretto interessato.
Senza contare l’introduzione, da parte di Napolitano, della variabile femminile, che aggiunge possibili concorrenti.
Ma non c’è alcun dubbio che il primo e meglio piazzato sia in questo momento Pier Ferdinando Casini.
Il leader del Terzo Polo è il candidato che interpreta meglio di altri la fase “non-partisan” della politica.
È stato fra i registi della nascita del governo Monti, oltre che presidente della Camera. Appare come il leader che ha sostenuto con più convinzione il premier in ogni frangente.
Un curriculum che lo proietta naturalmente verso il Colle.
Eppure, paradossalmente, è proprio il Professore il principale ostacolo di Casini nell’ascesa al Quirinale.
Chi infatti più e meglio dello stesso Monti potrebbe sorvegliare dall’alto che i futuri governi “politici” non si allontanino dal sentiero “virtuoso” tracciato dai professori?
Un Monti candidato alla successione, a parte la scontata opposizione di Idv e Lega, non potrebbe non avere il sostegno dei partiti che fin qui l’hanno appoggiato in Parlamento.
«Se qualcuno lo candida – osserva Benedetto Della Vedova, capogruppo di Fli – quale forza politica può permettersi di dirgli di no? Mi sembra difficile immaginare, dopo l’esperienza a palazzo Chigi, che Monti torni a fare il senatore a vita».
Oltretutto c’è un’altra considerazione che Della Vedova non esterna ma che comincia a farsi strada nella maggioranza “strana” di Monti.
Un retropensiero che riguarda la doppia corsa per la presidenza della Repubblica e per la premiership.
Perchè nel Palazzo è ormai diffusa la convinzione che il Professore andrà a ricoprire una delle due caselle.
E dunque per il Pdl e il Pd potrebbe essere più conveniente – il male minore – mandarlo al Quirinale piuttosto che trovarserlo altri cinque anni a “commissariare” la politica da presidente del Consiglio.
Se Casini e Monti sono i due candidati sulla carta più forti, la lista dei pretendenti è molto più lunga.
E più sbilanciata sul centrosinistra.
Il Pdl infatti, dopo l’indebolimento di Gianni Letta per le vicende P3, soffre l’assenza di nomi spendibili.
Spendibili davvero, visto che il fantasma di una candidatura del Cavaliere non viene più presa in considerazione da nessuno.
Ci sarebbe Renato Schifani, ma difficilmente godrebbe di consensi a sinistra. Ci sarebbe Beppe Pisanu, ma il suo ruolo nel tramonto di Berlusconi lo rende inviso al suo stesso partito di provenienza.
A sinistra invece i candidati sono fin troppi: primo tra tutti il cattolico adulto Romano Prodi, ma anche Giuliano Amato, Massimo D’Alema.
E, se si andasse su una donna, Rosi Bindi.
Per non parlare di una “wild card” come Emma Bonino
Francesco Bei
(da “La Repubblica”)
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Marzo 25th, 2012 Riccardo Fucile
UNA CLASSE POLITICA INCOSCIENTE CHE HA DOVUTO METTERE DI FRONTE ALLE PROPRIE RESPONSABILITA’, IL RICHIAMO AL RITORNO DELLE REGOLE, LA CONSAPEVOLEZZA CHE OCCORRA PASSARE IL TESTIMONE PER CONTINUARE L’OPERA NEL TEMPO
Maturato da tempo, comunicato a gennaio a una platea di studenti e reso noto ieri in occasione della trasmissione di un programma di Rai Storia dedicato alle istituzioni, il «no» di Napolitano all’ipotesi di un bis della sua presidenza, di cui per la verità sempre più spesso si sentiva parlare negli ultimi tempi, non va interpretato con il metodo delle letture trasversali con cui in genere si esaminano le mosse dei politici italiani.
Se dice che non si ricandida, insomma, vuol dire esattamente quel che ha detto, non il contrario, e neppure che lo ha fatto per stanare la sincerità o meno di quelli che puntualmente, come succede quando il settennato volge verso la fine, hanno cercato anche stavolta di avviare anzitempo la corsa per il Quirinale.
Semmai c’è da riflettere sul momento – gennaio 2012 – in cui Napolitano ha deciso di mettere agli atti la propria indisponibilità per un’eventuale ricandidatura.
Gennaio infatti, dopo il novembre 2011 che l’aveva preceduto, era il mese in cui legittimamente l’esperimento del governo tecnico voluto dal Capo dello Stato, dopo le dimissioni di Berlusconi, poteva già dirsi riuscito.
L’esecutivo guidato dal professor Monti, il candidato, ex commissario europeo, richiamato con forza alla vita pubblica dal Presidente con la decisione a sorpresa di nominarlo senatore a vita, aveva rapidamente superato la fase di rodaggio con il varo in tempi brevi delle prime due riforme, pensioni e liberalizzazioni, che dovevano dare l’impronta all’azione di risanamento e di salvataggio dell’Italia da un’emergenza grave quanto mai.
Un’azione così risoluta, e dai risultati così immediatamente concreti, che proprio in quel periodo si moltiplicavano le voci a favore, sia di un consolidamento e di una prosecuzione, anche dopo le elezioni politiche del 2013, dell’esperienza del governo tecnico sostenuto dalla larga maggioranza dei tre maggiori partiti, sia di un rinnovo del mandato al Quirinale per Napolitano, che di Monti fin dal primo momento è stato il garante.
Se invece proprio in quegli stessi giorni il Presidente ha ritenuto, in un programma in cui, data la delicatezza della congiuntura, poteva tranquillamente cavarsela con risposte formali, di cogliere l’opportunità per fugare ogni dubbio sulla possibilità di una sua ricandidatura, le ragioni intuibili sono almeno tre.
La prima sta nelle sue stesse parole e nella gravosità del compito che è stato chiamato a svolgere negli anni della sua presidenza: non dev’essere stato affatto facile assistere, giorno dopo giorno, all’avvitarsi del proprio Paese in una crisi che sembrava senza ritorno e al cospetto di una classe politica incosciente, che solo dopo aver messo un piede nel baratro ha deciso di fare un passo indietro.
La seconda, più implicita, è la consapevolezza di aver dato un senso alto e percepibile al proprio mandato.
Intendiamoci, specie negli ultimi anni, tutte le presidenze che si sono succedute hanno segnato la storia contemporanea e le speranze, spesso tradite, del Paese.
Pertini, con il suo carattere, scosse l’albero di una Repubblica cristallizzata.
Cossiga, con il piccone, la demolì.
Scalfaro timonò la nave nella tempesta della prima transizione.
Ciampi si assunse il compito di ridare dignità allo Stato e alla nazione.
E Napolitano – anche perchè la sua storia personale è quella del primo Presidente comunista, politicamente nato e cresciuto nel Pci e all’opposizione, e solo successivamente, negli ultimi venti anni, approdato al servizio delle istituzioni -, si è assegnato l’obiettivo più difficile.
Quello di un ritorno alle regole, e se possibile di un loro rinnovamento, nello spirito della Costituzione, per un Paese che s’era illuso di poter vivere in una specie di rivoluzione permanente, in cui il risultato storico di una completa legittimazione politica di tutte le forze politiche e di una piena alternanza basata sulle scelte dirette degli elettori veniva costantemente tradito da una pratica di colpi bassi, tradimenti minacciati e perpetrati, voti comperati e venduti e disprezzo delle istituzioni, e in cui le coalizioni e gli esecutivi di diversi orientamenti, che pure si succedevano democraticamente, condividevano l’incapacità pratica di governare e affrontare i problemi italiani con le necessarie riforme.
Dalla transizione all’emergenza, e non solo a quella economica con cui stiamo facendo i conti.
Ma anche, inevitabilmente, a quella istituzionale: questa è stata la croce portata sulle spalle da Napolitano.
Volendo abbozzare un bilancio, si può dire che l’obiettivo che il Presidente si era dato è stato raggiunto soltanto a metà .
Napolitano è riuscito a por fine all’epoca berlusconiana un momento prima che questa precipitasse nel disastro.
Lo ha fatto con fermezza e serenità , adoperando i normali e limitati poteri che la Costituzione assegna al Capo dello Stato.
Ma trovandosi ad agire in un quadro-limite, non ha potuto che sostituire a un assetto eccezionale, un altro, diverso, ma non proprio ordinario.
Il risultato politico di aver convinto uno come Berlusconi a mettersi da parte c’è tutto e sarà scritto nella storia.
Ma il problema del ritorno alla normalità , anche attraverso un percorso riformatore della Costituzione che lo consenta e lo agevoli, non è affatto risolto.
La terza ragione per cui Napolitano ha escluso il bis sta in questo.
Forse il Presidente s’è reso conto che per arrivare al traguardo che ha accompagnato ogni giorno del suo settennato, ed è tornato in ciascuno dei suoi messaggi di Capodanno, il tempo e le risorse che gli rimangono non bastano, ed è indispensabile che qualcuno al posto suo raccolga il testimone e continui l’opera.
Oppure, al contrario e malgrado la mediocrità che proprio in questi giorni i partiti continuano a mostrare di fronte alla gravità degli impegni che il Paese ha di fronte, ha inteso dire che di qui alla fine del suo mandato, nel maggio del 2013, nessuno dei suoi atti potrà e dovrà essere collegato all’eventualità di una riconferma, che non a caso ha voluto escludere con largo anticipo.
Napolitano insomma farà ancora tutto quel che ritiene giusto e utile.
E lo farà fino all’ultimo giorno del suo mandato.
Marcello Sorgi
(da “La Stampa”)
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Marzo 25th, 2012 Riccardo Fucile
LA RIFORMA DEL LAVORO BOCCIATA DA DUE ITALIANI SU TRE
Il progetto di riforma del mercato del lavoro varato dal governo potrebbe, nelle prossime settimane, causare significative fratture nel quadro politico.
Infatti, il provvedimento ha già provocato un calo sensibile nel tasso di approvazione espresso dai cittadini nei confronti dell’azione dell’esecutivo. Dal 50-60% di consenso rilevato sino agli inizi di marzo, la percentuale di giudizi positivi verso il governo è bruscamente scesa al 44%.
Ciò significa che, in questo momento, la maggioranza, seppur lieve (54%), della popolazione esprime una insoddisfazione verso l’operato dell’esecutivo.
Potrebbe trattarsi di una reazione d’impulso – forse momentanea e destinata a rientrare – agli ultimi provvedimenti (che, come vedremo tra breve, non incontrano l’approvazione della popolazione), ma potrebbe rappresentare anche il segnale d’inizio di un trend negativo nel consenso per il governo.
Il calo di fiducia ha riguardato prevalentemente gli operai e i lavoratori dipendenti di livello medio-basso, ma anche studenti, pensionati e casalinghe.
Viceversa imprenditori, liberi professionisti, ma anche impiegati e quadri, specie se possessori di un titolo di studio elevato, hanno mantenuto immutata la loro fiducia per il governo.
Dal punto di vista dell’orientamento politico, si è verificato un vero e proprio crollo di consensi (-32%) nell’elettorato della Lega Nord che, fino a ieri, esprimeva, malgrado tutto, nella sua maggioranza, una tiepida approvazione verso l’azione dell’esecutivo.
Ancora, come era forse prevedibile, un notevole decremento di approvazione (-17%) si manifesta tra i votanti per il Pd (la cui maggioranza continua però a sostenere il governo) e, seppure in misura minore (-10%), tra quelli del Pdl (ove la gran parte oggi è ostile all’esecutivo).
Persino tra l’elettorato dell’Udc – che, tradizionalmente, ha sin qui appoggiato più decisamente il governo – si registra una diminuzione di fiducia (-9%).
Come si è detto, questo trend è legato alla insoddisfazione della maggioranza degli italiani verso le decisioni assunte riguardo al mercato del lavoro e, in particolare, riguardo alla riforma dell’articolo 18.
Più del 40% della popolazione dichiara di avere seguito bene la vicenda, mentre un altro 46% l’ha seguita con attenzione minore.
Solo il 14% si dichiara all’oscuro della questione.
A fronte di questo diffuso interesse, il giudizio sulle decisioni dell’esecutivo è negativo per più di due italiani su tre (67%).
Le criticità maggiori si rilevano al Sud e tra gli operai, mentre tra imprenditori e liberi professionisti prevale l’accordo sul progetto di riforma.
La valutazione negativa risulta maggioritaria nell’elettorato di tutte le forze politiche con una ovvia accentuazione nei partiti di opposizione: ma essa si riscontra anche tra i votanti per il Pdl (58% di insoddisfatti) e il Pd (67% di giudizi negativi).
Naturalmente, i motivi di dissenso sono diversi, talvolta opposti.
Gran parte dei votanti per il Pdl rimproverano al governo una insufficiente tenacia, mentre l’elettorato del Pd conferma la già nota ostilità alla revisione dell’articolo 18.
Oltre al contenuto, viene comunque criticato anche il metodo seguito dal governo, ritenuto, ancora una volta da quasi due italiani su tre (63%) «troppo decisionista».
Questa situazione comporta problemi rilevanti per entrambi i partiti maggiori, che debbono necessariamente risolvere la contraddizione tra la necessità di proseguire con l’appoggio all’esecutivo e la prevalenza, nel proprio elettorato, di un orientamento contrario alle ultime decisioni di Monti.
I dilemmi probabilmente maggiori si manifestano nel Pd, ove il segretario Bersani vede da un verso accolte dall’esecutivo molte proposte di merito avanzate in passato dallo stesso Pd e dall’altro non può non tener conto di una base per più di due terzi ostile al provvedimento sul mercato del lavoro.
È probabilmente anche questo stato di cose ad avere suggerito al segretario del Pd la recente accentuazione delle posizioni critiche, espresse ad esempio nell’ultima sua partecipazione a Porta a Porta , verso le decisioni del governo.
Ma, soprattutto, tutto ciò indebolisce l’immagine dell’esecutivo nell’opinione pubblica che, di colpo, si trasforma da positiva in negativa.
È vero che la compagine guidata da Monti, per sua natura, prescinde dall’appoggio della maggioranza della popolazione, ma è vero anche che quest’ultimo rappresenta in ogni caso un elemento di stabilità di grande rilievo.
La cui assenza può avere conseguenze oggi imprevedibili. Ma, naturalmente, è possibile che, acquietatasi, anche grazie ai tempi della discussione parlamentare, la polemica sull’articolo 18, il governo riprenda il consenso oggi attenuato.
Renato Mannheimer
(da “Il Corriere della Sera“)
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Marzo 25th, 2012 Riccardo Fucile
L’UNICO SINDACALISTA METALMECCANICO DIVENUTO SEGRETARIO NAZIONALE DELLA “DESTRORSA” UGL SI SCHIERA A FIANCO DELLA CAMUSSO
E ad un tratto Giovanni Centrella mi tende la mano: “Di che colore le sembra?”.
La guardo e gli rispondo: “Bianca”.
Sorride, e dice, con il suo sonoro accento irpino: “Ecco, c’è voluto un anno e mezzo da segretario dell’Ugl perchè tornasse così. Nella fabbrica Fiat in cui ho lavorato per quasi tutta la vita, da operaio, la pasta abrasiva non ce la passano. Te le lavavi, te le lavavi, niente: sempre nere di grasso”.
L’Ugl, il sindacato che è erede della ipermissina Cisnal sta di casa in via Margutta, a Roma, in una lussuosa palazzina, in mezzo a gallerie d’arte e antiquari.
In questi uffici, dopo il ciclone Renata Polverini (e anche per sua volontà ) è arrivato il primo segretario metalmeccanico del sindacalismo italiano. Giovanni Centrella, viene dalla provincia d’Avellino, ha una storia operaia, di nero — una volta lavato il grasso — ha poco o nulla. Quando ti parla dice quasi con orgoglio: “Ho una storia tutta democristiana, ma irregolare: mi considero un estremista di centro”.
Dietro la scrivania non ha la foto di Giorgio Almirante, ma quella di se stesso, con Giorgio Napolitano.
Poi Pinocchio, una scacchiera, diversi ninnoli.
Anche lui è stato travolto dal ciclone dell’articolo 18.
Prima (come racconta, a denti stretti) ha detto sì.
Poi, investito da una valanga di messaggi della sua base, ha dato il contrordine: “O c’è la norma sul reintegro, oppure la firma nostra non ci sarà ”.
Centrella, ha cambiato linea dalla sera alla mattina?
Sì, lo ammetto. Prima sì, ora no. E mi cospargo anche il capo di cenere per aver detto sì. Cosa le ha fatto cambiare idea?
I nostri. Prima ho riunito gli organismi dirigenti, e c’era un coro di perplessità .
Poi?
Ho il telefono sempre acceso. Ho ricevuto messaggi, telefonate, tantissimi sms. Ad esempio questo di Giuliano Fassati, un amico operaio di Melfi: “Giovanni, non tradirci!. O questo di Dario Canali, il nostro delegato della Tecnocip: “Cosa avete fatto? La base è preoccupata”. I più incazzati non glieli leggo
Ma scusi, non lo aveva previsto, anche prima?
All’inizio eravamo per il il no, con la Camusso. Siamo partiti da una prima proposta del governo che era terribile. Avevamo ottenuto delle modifiche, avevo espresso un giudizio sofferto e articolato. Non nego che le pressioni abbiano pesato.
Pressioni del Pdl o della Confindustria?
Macchè! Mi riferisco al messaggio di Napolitano, il giorno in cui abbiamo sottoscritto l’intesa.
Un ex comunista influenza l’Ugl?
Nei nostri confronti è sempre stato corretto e leale, un amico. Lei lo sa che un iscritto su quattro, tra i nostri, vota centrosinistra?
Centrella, lei vuole stupire o prende in giro?
Lo dicono i dati. Tra i metalmeccanici abbiamo un delegato di Mirafiori che è di Rifondazione… Io stesso ho votato partiti diversi: una volta Rifondazione, una volta la Fiamma tricolore…
E con la Fornero come si trova?
Mi vuole far litigare? No, le voglio far raccontare… (Sorride)
È, come dire? Preparata. Molto professoressa, però.
Mi faccia un esempio.
Lei ci ripete: “Voi dovete far capire ai lavoratori che la mobilità è opportunità : se perdi un posto di lavoro ne trovi un altro”. E lei cosa le risponde? Che in molte parti del Sud se lo perdi non lo ritrovi. In altrettante che, se lo ritrovi, vuol dire che sei finito in mano alla Camorra.
La Fornero ha capito?
Non ha ancora imparato che fare il ministro è un mestiere diverso da scrivere un saggio: molte teorie calate dall’alto nella realtà non hanno gli effetti desiderati.
Dietro di lei c’è un cappello accademico e uno da poliziotto.
Il primo me lo hanno regalato i nostri. Il secondo me lo sono conquistato con lo studio, in questi ultimi anni.
Era fuori corso sfigato, come dice Martone?
No. Dopo il diploma in ragioneria non mi ero iscritto. Mio padre, con due figli disse: solo uno posso farlo studiare, e io lo pregai di scegliere mia sorella.
E adesso, invece? Laurea in Giurisprudenza, consulente di impresa.
Ma quanti iscritti ha davvero l’Ugl?
Due milioni, veri. Adesso voglio far certificare dall’Inps l’elenco.
Chi lo aveva taroccato?
Quelli che mi ha consegnato la Polverini sono risultati veri.
Se qualcuno prima ha gonfiato, non lo so. Adesso abbiamo 200 mila metalmeccanici, e da una settimana abbiamo superato la soglia del 5 % tra i pubblici.
È vero che lei è diventato delegato lottando per affermare i diritti degli operai irpini contro lo strapotere dei napoletani?
(Ride) È vero che i napoletani usano il loro essere genialmente furbi per arrivare dove vogliono. Nella nostra fabbrica il 90 % dei promossi erano napoletani.
Però se le chiedo di Marchionne, scommetto che non mi risponde come un rifondarolo. Guardi, è una controparte. Ma con noi ha tenuto fede a tutti gli impegni che ha preso.
E allora dove sono i 20 miliardi di Fabbrica Italia?
Arriveranno, spero. Però le posso dire che sbaglia a tenere fuori dagli stabilimenti la Fiom, e questo è un errore grave. A Pomigliano non ne hanno riassunto nemmeno uno, della Cgil. Dei nostri 300 solo 80 hanno ripreso la tessera Ugl. Lo stesso per Cisl e Uil. Gli operai sono molto spaventati.
È diventato segretario ammazzando qualcuno?
(Ride). No, Solo perchè la Polverini ha teorizzato che il sindacato dovesse tornare alla sue radici, e non ha scelto nessuno della segreteria.
C’erano almeno sei dirigenti più bravi di me.
Lo dice con elegante ipocrisia?
No, lo dico perchè mi piace essere sincero.
Luca Telese blog
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