Marzo 14th, 2012 Riccardo Fucile
LE TESTIMONIANZE E LE STORIE DI ERITREI E SOMALI NEL FILM DOCUMENTARIO “MARE CHIUSO”, DURO ATTO DI ACCUSA AL GOVERNO ITALIANO… AVEVANO DIRITTO ALL’ASILO
«Ci state gettando nelle mani degli assassini… Dei mangiatori di uomini…».
Così gli eritrei fermati su un barcone supplicarono i militari italiani che li stavano riconsegnando ai soldati di Gheddafi.
Avevano diritto all’asilo, quegli eritrei: furono respinti prima di poterlo dimostrare.
C’è un video, di quell’operazione. Girato con un telefonino.
Un video che conferma le accuse che due settimane fa hanno portato la Corte dei diritti umani di Strasburgo a condannare l’Italia.
Quel video, miracolosamente sottratto alle perquisizioni dei gendarmi italiani e libici, messo in salvo e gelosamente custodito per due anni nella speranza che un giorno potesse servire, è oggi il cuore di un film documentario che uscirà domani.
Si intitola «Mare chiuso», è stato girato da Stefano Liberti e Andrea Segre e racconta la storia di un gruppo di profughi, in gran parte eritrei e cristiani, in fuga dalla guerra che da troppo tempo si quieta e riesplode sconvolgendo la regione.
«Non si è mai potuto sapere ciò che realmente succedeva ai migranti durante i respingimenti, perchè nessun giornalista era ammesso sulle navi e tutti i testimoni furono poi destinati alla detenzione in Libia», raccontano gli autori.
Lo scoppio della rivolta contro il tiranno libico, nel marzo 2011, cambiò tutto.
Migliaia di poveretti rinchiusi nei famigerati campi di detenzione di Zliten o Tweisha o nella galera di Khasr El Bashir riuscirono a scappare.
E tra questi «anche profughi etiopi, eritrei e somali vittime dei respingimenti italiani che raggiunsero in qualche modo il campo Unhcr delle Nazioni Unite per i rifugiati a Shousha in Tunisia, dove li abbiamo incontrati».
L’atto di accusa contro l’Italia per avere violato le regole del diritto d’asilo è una conferma della sentenza della Corte di Strasburgo.
Il processo, come noto, aveva un punto di partenza preciso: il 6 maggio 2009 a sud di Lampedusa, in acque internazionali, le nostre autorità intercettarono una nave con circa 200 persone di nazionalità somala ed eritrea tra cui bambini e donne incinte.
Tutti caricati su navi italiane e riaccompagnati a Tripoli «senza essere prima identificati, ascoltati nè informati preventivamente sulla loro effettiva destinazione».
Le regole, come inutilmente tentarono allora di ricordare l’alto commissariato Onu per i rifugiati, le organizzazioni umanitarie, molti uomini di chiesa e diversi giornali tra i quali Avvenire e il Corriere , erano infatti chiarissime.
La Convenzione di Ginevra del 1951 dice che ha diritto all’asilo chi scappa per il «giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche».
E l’articolo 10 della Costituzione conferma: «Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo».
Non bastasse, il direttore del Sisde Mario Mori, al comitato parlamentare di controllo, aveva chiarito com’erano trattati i profughi in Libia: «I clandestini vengono accalappiati come cani, messi su furgoncini pick-up e liberati in centri di accoglienza dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi…».
Oppure, stando alla denuncia dell’Osservatorio sulle vittime delle migrazioni «Fortress europe», venivano abbandonati a migliaia in mezzo al deserto del Sahara.
Per non dire della sorte riservata alle prigioniere. Spiegò un comunicato del servizio informazione della Chiesa: «Non possiamo tollerare che le persone rischino la vita, siano torturate e che l’85% delle donne che arrivano a Lampedusa siano state violentate». L’Osservatore Romano ribadì: «Preoccupa il fatto che fra i migranti possa esserci chi è nelle condizioni di poter chiedere asilo politico. E si ricorda anzitutto la priorità del dovere di soccorso nei confronti di chi si trova in gravi condizioni di bisogno».
Il film documentario di Liberti e Segre, attraverso testimonianze da far accapponare la pelle, ricostruisce appunto come il destino di tanti uomini, donne, bambini fu segnato dalla violazione di tutti i diritti di cui dovevano godere.
Basta mettere a confronto le parole di tre protagonisti di questa storia.
Muammar Gheddafi: «Gli africani non hanno diritto all’asilo politico. Dicono solo bugie e menzogne. Questa gente vive nelle foreste, o nel deserto, e non hanno problemi politici». Silvio Berlusconi: «Abbiamo consegnato delle imbarcazioni al fine di riportare i migranti in territorio libico, dove possano facilmente adire l’agenzia delle Nazioni Unite per mostrare le loro situazioni personali e chiedere quindi il diritto di asilo in Italia».
Un anziano somalo filmato in un campo profughi: «Era domenica quando ci hanno riportato a Tripoli. I libici ci hanno portati via con dei camion container e poi nel carcere di Khasr El Bashir. Ci hanno bastonato. Ci hanno picchiati. Ci hanno rinchiusi».
Una testimonianza confermata da Omer Ibrahim e Shishay Tesfay e Abdirahman e tanti altri. Del resto Laura Boldrini, la portavoce, ricorda che l’Alto commissariato Onu per i Rifugiati aveva denunciato l’impossibilità di svolgere laggiù, in Libia, sotto il tallone di un tiranno come Gheddafi che non riconosceva la convenzione di Ginevra, quell’attività prevista dagli accordi: «Non avevamo neppure accesso ai campi di detenzione.
A un certo punto ci chiusero, dicendo che non avevamo le carte in regola. Per poi riaprire col permesso di trattare solo le pratiche vecchie».
Ma è la storia di Semere Kahsay, uno dei giovani che stava su uno di quei barconi, il filo conduttore del film.
Eritreo, cristiano, in fuga dalla guerra, con tutte le carte in regola per godere del diritto d’asilo, nell’aprile 2009 riuscì a caricare la moglie incinta, un paio di settimane prima del parto, su un barcone per Lampedusa.
Poi, messi insieme ancora un po’ di soldi lavorando in Libia, si imbarcò per raggiungere la moglie e la figlioletta nata in Italia. Un viaggio infernale. Il barcone troppo carico. L’avaria. La fine della scorta di acqua. La paura. L’arrivo di un elicottero italiano. L’apparizione di una motovedetta: «Eravamo felici. Felici».
Poi la delusione. L’irrigidimento dei militari. Il ritorno a Tripoli. Il sequestro di documenti. La riconsegna ai libici. Il tentativo disperato e inutile di spiegare il suo diritto all’asilo. La prigionia. La guerra. La fuga verso la Tunisia. I nuovi tentativi per ottenere lo status di rifugiato.
Semere l’ha avuto infine, quell’asilo che gli spettava e che secondo il Cavaliere avrebbe potuto «facilmente» avere in Libia andando all’apposito ufficio.
Dopo due anni e mezzo d’inferno. E solo grazie alla guerra civile libica, alla fine di Gheddafi e all’aiuto per sbrigare le pratiche che gli hanno dato gli autori di Mare chiuso . Che l’hanno seguito passo passo fino al suo arrivo, agognato, in Italia.
Dove ha potuto infine ritrovare la moglie, vedere quella figlioletta mai conosciuta e regalarle, in lacrime, un chupa-chups.
Gian Antonio Stella
(da “Il Corriere della Sera“)
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Marzo 14th, 2012 Riccardo Fucile
INTERVISTA A DUDENHOFFER DOCNETE E DIRETTORE DEL CAR… I MOTIVI DEL BOOM NEL 2011 DI WOLKSWAGEN, AUDI, BMW… “MERCHIONNE SBAGLIA A CERCARE LO SCONTRO”
Il gruppo Volkswagen annuncia l’ennesimo record, con un giro d’affari cresciuto lo scorso anno del 25,6% a quasi 160 miliardi di euro, Audi festeggia il miglior anno della sua storia, con 1,3 milioni di auto vendute, mentre Bmw si prepara ad assumere altri 4.000 dipendenti.
L’industria automobilistica tedesca macina un successo dietro l’altro.
Come fa? E dove si differenzia da quella italiana?
Lo abbiamo chiesto al “Papa dell’auto” Ferdinand Dudenhà¶ffer, professore all’Università di Duisburg-Essen e direttore del Car — Center automotive research.
Professor Dudenhà¶ffer, cosa si nasconde dietro gli ultimi successi di Volkswagen?
L’industria automobilistica tedesca è posizionata globalmente. Gli utili di VW non vengono dall’Europa, bensì per la maggior parte dalla Cina, nonchè, in parte, dall’America Latina, dagli Stati Uniti e dall’Europa settentrionale. Nell’Europa meridionale, invece, Volkswagen continua ad avere problemi e lo si vede da Seat (marchio del gruppo Volkswagen, ndr), che resta in rosso, per cui non è tutto oro quel che luccica.
Anche il gruppo Fiat, dopo l’acquisizione di Chrysler, è posizionato globalmente.
Certo, anche se in questo caso Chrysler guadagna soldi, mentre Fiat no. Il punto decisivo è che i tedeschi investono molto nei prodotti, mentre Marchionne no, perchè non ha abbastanza soldi per farlo: i margini di guadagno di Fiat sono stati molto scarsi negli ultimi anni, Chrysler ha avuto il Chapter 11.
Quali sono gli altri punti di forza del sistema tedesco?
Il sistema tedesco è plasmato dall’engineering, dal prodotto: i tedeschi hanno un grosso interesse a investire nella tecnica, un po’ come Toyota, e investono effettivamente tantissimo sul prodotto. Nel lungo periodo tali investimenti rendono. Credo che sia proprio questo l’aspetto decisivo: puntare sul prodotto, perchè alla lunga si vince solo con esso. VW ha puntato per vent’anni soltanto sul prodotto, BMW lo fa da oltre vent’anni e Mercedes ha ricominciato a farlo in modo più sostenuto da circa dieci anni. Nell’industria automobilistica le operazioni finanziarie possono contribuire temporaneamente a una certa ripresa, ma il “core” sono gli investimenti nei nuovi prodotti, nella qualità e negli stabilimenti.
Che ruolo giocano le relazioni tra aziende e lavoratori nel mondo automobilistico tedesco? I dipendenti di VW incasseranno un bonus-record di 7.500 euro lordi.
Bene, ma in questo caso è perchè gli utili di Volkswagen sono molto elevati. In linea di principio in Germania i dipendenti hanno imparato a moderare le loro richieste in tempi difficili, mentre in tempi in cui gli utili sono buoni le aziende versano extra-bonus. Ciò porta alla comprensione reciproca tra aziende e lavoratori e non allo scontro, come fa a volte Marchionne.
La sua strategia è un errore?
Credo di sì: si può entrare in rotta di collisione con qualcuno per affrontare problemi davvero gravi, ma Marchionne è già da 3-4 anni in permanente rotta di collisione, questo è un errore.
Cosa potrebbe imparare dal numero uno di Volkswagen Martin Winterkorn?
In primo luogo potrebbe imparare a dare maggior peso all’engineering invece che ai dati finanziari, cioè ad ascoltare di più gli ingegneri. In secondo luogo che la strada da fare è molto lunga: non è una corsa dei 100 metri, bensì una maratona. E in terzo luogo Marchionne parla molto di “mergers”, ma in realtà non si trova poi nessun costruttore — tranne Chrsysler, che era insolvente — che voglia intraprendere la strada di una fusione con lui. E questo credo dipenda un po’ anche da lui: forse non è molto prevedibile per gli altri costruttori.
Winterkorn guadagna più di tutti gli altri manager tedeschi: 17,4 milioni di euro. Un compenso giustificato?
Difficile da dire: ha fatto un ottimo lavoro, ma è una cifra veramente molto alta, secondo me sarebbe meglio limitare tali compensi.
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Marzo 14th, 2012 Riccardo Fucile
“ANCHE TRA NOI CI SONO I BALUBA CON LA BARBA VERDE E LE CORNA: FANNO PARTE DELLA PANCIA, MA NEL NOSTRO MOVIMENTO C’E’ ANCHE IL CERVELLO E IL CUORE”…. POI CONCLUDE: “LA LEGA E’ UN PARTITO DEMOCRATICO, MA C’E’ UNO CHE COMANDA: CHI DISSENTE SE NA VA O VIENE CACCIATO”
La xenofobia della Lega Nord? Il razzismo? A volte è stata solo tutta scena.
Il Carroccio in passato “ci ha marciato”, con l’obiettivo di “raggiungere consensi”.
Ad affermarlo è stato l’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni, rispondendo, durante una lezione di giornalismo all’Università dell’Insubria di Varese, alla domanda di uno studente su alcune dichiarazioni dell’europarlamentare Mario Borghezio e di altri esponenti del partito.
“Non dico che la Lega abbia sempre lanciato messaggi non equivoci — ha sottolineato Maroni — e a volte qualcuno di noi ha esagerato ed è stato malinteso”.
Secondo Maroni “anche nella Lega ci sono i ‘baluba’, quelli con la barba verde e le corna”.
“Fanno parte della pancia — ha aggiunto — ma nel nostro movimento c’è anche il cervello e il cuore. Il mio obiettivo è quello di correggere i pregiudizi neiconfronti della Lega, perchè difendere la propria identità territoriale non significa essere razzisti”.
Rispondendo a un’altra domanda degli studenti ha detto che “la Lega è un partito democratico, ma come in ogni organizzazione complessa c’è un capo che comanda”.
Quindi “chi ritiene di subire decisioni che non condivide o esce o viene cacciato” e “ultimamente prevale più la seconda strada che la prima”.
“Anche a me è capitato di prendere strigliate — ha concluso — perchè quando penso che una cosa è sbagliata lo dico accettando le conseguenze”.
La fase due della Lega insomma pare iniziata.
Anche perchè oltre all’autocritica su alcune posizioni razziste Maroni ha anche rilanciato il pieno sostegno al sindaco di Verona, Flavio Tosi, nell’occhio del ciclone da tempo nel suo partito.
Ma la sorta di ‘mea culpa’ sul passato non solleva le forze politiche, anzi. “Ammettere di aver lucrato voti su razzismo e xenofobia è di una gravità estrema, soprattutto se lo fa l’ex ministro dell’Interno” dice l’Idv, alla quale fa eco il Pd: “E’ del tutto inutile che provino a rifarsi la pelle: sono e restano un partito razzista”.
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Marzo 14th, 2012 Riccardo Fucile
LE OPINIONI DI MENTANA, VIROLI E ANNUNZIATA SULLA SITUAZIONE POLITICA CHE SEMBRA RITORNATA CONFLITTUALE
Enrico Mentana
Bersani sa benissimo che l’articolo 18 sarà toccato.
Alfano sa altrettanto bene che la legge anti-corruzione si farà .
Al leader del Pd fa un gran piacere che non si riformi la Rai, così potrà continuare additarla ad esempio del perdurante conflitto di interessi dell’ormai ex premier.
E al segretario del Pdl non importa nulla del matrimonio gay, che non è certo all’ordine del giorno.
Perchè allora si agitano così? Perchè litigano e lanciano veti e proclami?
Entrambi fanno i bulli prima delle riunioni con Monti nel disperato tentativo di modificare l’immagine che fin qui hanno dato: i due partiti boa del centro-destra e del centro-sinistra allineati e coperti a sostegno dello stesso governo, appiattiti dietro a un gruppo di professori chiamati per paradosso a fare i supplenti. Alfano e Bersani, ma anche Casini e Fini, si sono accorti che a due mesi scarsi dal test delle elezioni amministrative, i loro partiti rischiavano di diventare invisibili, magari a vantaggio di chi, specularmente, sta cavalcando ogni battaglia anti-governativa anche per mettersi in mostra.
Ma almeno Di Pietro e Vendola questo lavoro l’hanno sempre fatto, e per la Lega è un ritorno alle origini…
Lucia Annunziata
Il bivio del Prof: finire o governare
I partiti giocano alla campagna elettorale a spese del governo Monti.
Al riparo del fatto che tanto il Governo non può cadere, si fa un po’ di battaglia politica per rimobilitare un elettorato disilluso. Ponendo condizioni all’esecutivo, ma senza metterne in discussione l’impianto.
Un po’ come quando al sicuro sotto l’ “ombrello Nato” (fantastica definizione fatta propria anche da Enrico Berlinguer) nel dopoguerra in Europa molti giocarono a fare gli antiamericani.
Ma nelle agitazioni attuali della politica c’e’ anche un pezzo di realta’ solida e potenzialmente devastante per il governo dei tecnici.
Assetto televisivo (Rai) e giustizia, i nodi in cui siamo arenati dal 1994, non sono evidentemente aggirabili.
Così come non lo è la richiesta da parte del paese di avere un riconoscimento, una relazione con l’attuale esecutivo.
I tecnici sono così arrivati, forse persino prima di quanto ci si aspettasse, a un bivio: decidere se rimanere solo una esperienza “ombrello” (e lentamente estinguersi) o se pienamente (e politicamente) governare.
Maurizio Viroli
La tregua sta per scadere
Della tregua che fino ad oggi ha retto fra i partiti politici e il governo Monti, si potrebbe dire, con le celebri parole di Ernesto Calindri, “non dura, dura minga, non può durare”.
I segni di tensione e conflitto che emergono da varie parti paiono confermare la diagnosi.
Le ragioni che inducono a pensare che il sostegno dei partiti al Governo Monti non possa protrarsi ancora a lungo sono principalmente due.
La prima, è che la tregua è nata dalla paura degli uni (Berlusconi e i suoi) di andare incontro ad una sconfitta disastrosa; e dalla paura degli altri (Pd) di non vincere le elezioni. Appena gli uni o gli altri valuteranno di poter vincere, addio governo Monti.
La seconda, è che la ragion d’essere di ogni partito è governare, e non è pensabile che un partito lasci per lungo tempo ad altri l’onere e l’onore del potere esecutivo.
Se lo facesse, dovrebbe inevitabilmente fronteggiare serie defezioni e conflitti interni. In presenza dell’opposizione aperta di uno dei due partiti maggiori, Monti, se incoraggiato dal Quirinale, potrebbe decidere di rassegnare le dimissioni e di presentarsi alle elezioni.
Se fosse disposto a compiere un tale passo, probabilmente vincerebbe, tanto è profondo e diffuso, nell’opinione pubblica, il disprezzo per i partiti politici.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 14th, 2012 Riccardo Fucile
CARABINIERI PER TRE ORE NEGLI UFFICI DEL PDL… CORRUZIONE E FINANZIAMENTO ILLECITO DEI PARTITI LE IPOTESI DI REATO NEI SUOI CONFRONTI… E LA LEGA STUDIA COME SCARICARE BONI
I carabinieri del Noe di Milano sono stati ieri mattina per circa tre ore negli uffici del Pdl al consiglio regionale della Lombardia, dove hanno acquisito documenti.
Lo si è appreso da fonti del Pirellone, anche se non è chiaro su quale inchiesta stiano facendo luce i militari.
Ciò che è certo è che i carabinieri si sono recati nell’ufficio del consigliere Angelo Giammario, che risulta indagato dalla Procura di Milano con l’ipotesi di corruzione e finanziamento illecito dei partiti.
All’alba. del resto, le forze dell’ordine avevano eseguito un’altra perquisizione proprio nella casa del consigliere regionale del Popolo della Libertà .
Nell’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo e affidata al pm Giordano Baggio, ci sarebbero altri indagati.
La vicenda non sarebbe legata a quelle per cui sono indagati il presidente del Consiglio regionale Davide Boni e l’ex assessore Nicoli Cristiani.
L’esponente del Pdl è vicepresidente della Commissione Ambiente della Regione Lombardia e membro della commissione Sanità , mentre in passato è stato sottosegretario regionale ai rapporti con Milano.
Nel 2006, come riporta il suo sito personale, è stato designato da Formigoni come rappresentante della Regione nel Cda dell’università Bocconi. Giammario, 50 anni, originario di Molfetta (Bari), è stato nel 1997 anche consigliere comunale a Milano.
“Non commento notizie non ufficiali”: il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, si è limitato a rispondere così ai cronisti che, al termine di una conferenza stampa sulla conciliazione al Pirellone, gli hanno chiesto della presenza dei carabinieri negli uffici del Pdl in Consiglio regionale.
Di fatto, il caso Boni continua a causare malumore negli ambienti del Carroccio.
Ed è ancora a rischio la sua permanenza sia alla presidenza sia nel gruppo della Lega. Nel fortino di via Bellerio, infatti, i vertici del partito stanno ancora “valutando la situazione”.
Certo, se Boni dovesse lasciare i banchi del Carroccio si ritroverebbe a iscriversi al Gruppo Misto.
Che con lui salirebbe a due consiglieri: Boni e Filippo Penati.
Fu l’ex segretario politico di Pier Luigi Bersani, infatti, a creare il Gruppo Misto quando, anche lui indagato per tangenti, fu costretto a lasciare il Pd.
Sorte comune, dall’ufficio di presidenza al gruppo dei presunti tangentisti.
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Marzo 14th, 2012 Riccardo Fucile
ORA I PARTITI SI FINGONO INDIGNATI PER QUEI CONSIGLIERI CHE “TIMBRAVANO” LA PRESENZA PER AVERE IL GETTONE DA 100 EURO E DOPO POCHI MINUTI SI SQUAGLIAVANO: COME SE NON FOSSE UNA COSA RISAPUTA… EPPURE NESSUNO HA MAI CHIESTO IL CONTRAPPELLO
Saltano come tappi. Salta il muto. Salta il canaro. Salta ‘O praticone. Il tassista è più di là che di qua.
E i capigruppo? Tremano come foglie, molti sono a rischio, tutti sono finiti nel tritacarne.
‘O praticone, il muto e il canaro sono, rispettivamente, il primo, il secondo e il terzo classificato nel gran premio “Prendi i soldi e scappa”, svelato ieri da Repubblica: quella abitudine malsana di incassare cento euro lordi in cambio di pochi secondi di presenza in commissione comunale.
Per evitare nuove crisi isteriche – dopo quelle, numerosissime, degne di una pellicola di Almodovar e registrate in rapida successione ieri mattina a Palazzo Tursi – diciamo subito che si tratta di soprannomi che i tre diretti interessati – Aldo Praticò del Pdl, Vincenzo Vacalebre dell’Udc e Andrea Proto dell’Italia dei Valori – si portano dietro da anni.
‘O praticone è solo una storpiatura del cognome vero (Praticò).
“Il muto” nasce dall’abitudine del consigliere comunale Vincenzo Vacalebre (già con l’Ulivo, poi nell’Udc) di stare sempre e comunque zitto.
Per dire, in dieci anni di commissione (è stato consigliere sia sotto il regno della Vincenzi che con il Pericu II) non ha mai aperto bocca.
Del terzo soprannome, il canaro, Andrea Proto – animalista della prima ora, approdato alla Sala Rossa con una manciata di voti – è assolutamente orgoglioso: fondatore prima del periodico “Le cose” e poi di una fortunata catena di negozi per animali, Proto è il paladino dei cani e dei gatti (“loro non votano, ma tu sì” era il suo cavallo di battaglia).
Praticò, Vacalebre e Proto non verranno ripresentati dai loro partiti.
E i due successivi piazzati in classifica (il quarto, Valter Centanaro del Pdl e il quinto, Francesco De Benedictis dell’Idv) sono molto in bilico.
Per non parlare del Pd, ieri mattina sull’orlo di una crisi di nervi, primo partito a decidere, ufficialmente, la linea dura nei confronti dei suoi consiglieri “furbini” (ne parliamo qui accanto).
Il gettone del disonore, ieri mattina, ha scavato un solco profondo tra buoni e cattivi. Nei cattivi sono finiti i tre recordman del “Mordi e fuggi” (Praticò, Vacalebre e Proto), il leader dei tassisti Valter Centanaro e i capigruppo di Italia dei Valori Franco De Benedictis e della Lega Nord Alessio Piana.
Nei buoni una trentina di consiglieri comunali che fanno diligentemente il proprio lavoro (Sel, Rifondazione, Verdi, quasi tutto il Pd, parte del Pdl).
In mezzo una decina di consiglieri sparsi (Danovaro, Federico, Mannu, Tassistro. Porcile, Malatesta del Pd, Dall’Orto dei Verdi, Costa del Pdl, Murolo del gruppo di Musso) beccati con le mani nella marmellata ma – come dire? – qualche volta.
E veniamo alle tardive reazioni dei partiti.
Giovanni Paladini, segretario di Italia dei Valori, confermerete Andrea Proto e Franco De Benedictis?
“Una premessa. Repubblica ha fatto benissimo, mi dispiace molto e sono particolarmente umiliato dal fatto che nel mucchio ci siano finiti due dei miei. La nostra politica è completamente diversa: è fatta di sacrificio, è fatta di gente che lavora per gli altri, non che ruba il gettone. Giovedì sera discuteremo delle candidature: su Andrea Proto non c’è nemmeno da discutere, su De Benedictis vedremo cosa ha da dire. Ma personalmente sono incavolatissimo”.
Rosario Monteleone, confermerete Vacalebre?
“No. Quel modo di far politica, voi lo avete chiamato “Prendi i soldi e scappa”, è quello che ho avversato dal primo giorno in cui mi sono messo a fare politica. E’ difficilmente giustificabile, quel modo di comportarsi: sei stato eletto per partecipare, non per incassare il gettone di presenza”.
Più complicato ottenere dichiarazioni ufficiali, sulla vicenda, in casa Pdl. L
e indiscrezioni dicono che nè Praticò nè Centanaro (rispettivamente numero uno e numero quattro nella hit parade dei fuggitivi) verranno ricandidati:
Praticò resterà proprio fuori, per il taxista Centanaro è pronta una corsia preferenziale nella lista “Per Vinai sindaco”, ma comunque non sotto la sigla Pdl.
Raffaele Niri
(da “La Repubblica“)
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Marzo 14th, 2012 Riccardo Fucile
A GENOVA GLI EX AN CRITICANO IL LORO STESSO CANDIDATO SINDACO PDL, REO DI AVER DISCUSSO CON L’IMAN SULLA MOSCHEA… “LIGURIA FUTURISTA” ATTACCA: “DUE GENOVESI SU TRE NON SONO CONTRARI A UN LUOGO DI CULTO ISLAMICO, FATELA FINITA COL FOMENTARE DIVISIONI, PENSATE PIU’ AI PROBLEMI REALI E MENO ALLE POLTRONE”
In merito all’incontro del candidato sindaco Pdl PierluigiVinai con l’imman Hussein Salam sul tema moschea e alla successiva presa di posizione di ex An, “Liguria Futurista”, nell’apprezzare il gesto di Vinai nei confronti della Comunità islamica genovese, ricorda:
1) E’ stata proprio Liguria Futurista ad aver stilato recentemente un documento sulla necessità di dialogo religioso interculturale tra le diverse comunità , intervistando sia l’imman che un esponente del mondo cattolico genovese.
2) Vinai si è semplicemente smarcato da quella che un ex missino come Staiti ha definito “becerodestra”, intenta a pescare nelle fasce più reazionarie dell’elettorato, per aprirsi invece al confronto, così come in precedenza aveva fatto il candidato Enrico Musso.
E quanto seguito abbiamo le tesi di certi ex An è dimostrato dalla trombatura alle scorse regionali e dal dimezzamento delle preferenze personali.
3) Ricordiamo che un recente sondaggio Swg ha stabilito che solo il 32% dei genovesi è contrario alla costruzione di una moschea, meno dei consensi che raccolgono Pdl e Lega insieme.
Siamo d’accordo invece con un referendum che coinvolga l’intera città , a condizione che, in caso di sconfitta, i “becero-destri” si ritirino definitavemente dalla scena politica, possibilmente senza farsi inserire in consigli di amministrazione con relativo lauto gettone di presenza.
4) Fermo restando che Liguria Futurista sarebbe più favorevole alla costruzione di una moschea in Darsena che diventerebbe, come all’estero, un centro di richiamo turistico, ci chiediamo se certi “critici” avrebbero sollevato le medesime pretestuose polemiche se si fosse trattato di erigere una sinagoga, invece che una moschea.
5) Ricordiamo infine che alle scorse elezioni regionali, nel quartiere di Oregina-Lagaccio, la Lega, che aveva cavalcato la crociata anti-moschea, aveva alla fin fine preso solo un paio di punti in percentuale in più di quanti ne avesse avuto in passato.
Segno evidente che la stragrande maggioranza degli abitanti del quartiere non è certo contraria alla costruzione della moschea ed ha cose più serie a cui pensare.
LIGURIA FUTURISTA
Ufficio di Presidenza
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Marzo 14th, 2012 Riccardo Fucile
NEL 1993 E’ DOVUTO FUGGIRE IN FRANCIA PER EVITARE L’ARRESTO… “BERLUSCONI ERA DIVENTATO FAN DI MANI PULITE ED E’ STATO SALVATO DA DI PIETRO, ALMENO FINO AL 1994”
Per trovare l’ultimo, dimenticato corriere delle tangenti della Prima Repubblica bisogna arrivare fin quassù, in Alta Savoia, panorama mozzafiato, con una corona di monti a fare la guardia alla valle che si apre in territorio francese, appena sbucati dal tunnel del Monte Bianco.
Roberto Buzio, 63 anni, dal 2004 è cittadino francese.
Molti quassù lo ricordano come il gestore di “Les Dà’mes de Miage”, un delizioso ristorante di Saint Gervais les Bains specializzato nei risotti italiani.
Ma ora ha riposto il cappello da chef e si occupa di compravendite immobiliari, insieme con la giovane moglie, che negli anni Ottanta in Italia partecipò come cantante a un’edizione del festival di Sanremo.
Tangenti pagate fino al 1992 ai partiti della Prima Repubblica da Silvio Berlusconi, attraverso Gianni Letta.
È questo che racconta, pur con mille cautele.
Perchè nella sua vita precedente, che non ha mai dimenticato, Buzio era — ripete con orgoglio — “un uomo politico” nell’Italia dei partiti: “Sì, sono stato per quindici anni il segretario di Giuseppe Saragat. E poi, dopo la sua morte, ho continuato a fare politica per il Psdi, il partito socialdemocratico”.
Nel 1993 di Mani pulite ha dovuto scappare dall’Italia, per evitare l’arresto. Ha cominciato la sua nuova vita in Francia.
Ma prima che tutto crollasse, ha fatto in tempo a sapere e vedere molte cose. “Antonio Cariglia, ultimo presidente del Psdi, mi chiese di andare da alcuni imprenditori a raccogliere contributi per il partito. Tra questi, c’era anche Berlusconi, che fino al 1992 ha sostenuto i partiti della Prima Repubblica. Ho ricevuto diversi contributi di Berlusconi dalle mani di Gianni Letta. L’ultimo, a ridosso delle elezioni dell’aprile 1992: avevamo capito che erano l’ultima spiaggia. Lo andai a ritirare in un ufficio nel centro di Milano. Quella volta non c’era Letta, ma un altro personaggio”.
Negli archivi di Mani pulite c’è la traccia di una tangente pagata da Letta a Buzio: 70 milioni di lire, versati nel 1989.
Anche Letta l’ha ammessa, in un interrogatorio ad Antonio Di Pietro. Ma tutto è coperto dalla provvidenziale amnistia che arrivò quell’anno. “Intanto non erano 70, bensì 200 milioni”, racconta oggi Buzio.
“E poi rivelammo solo quella, d’accordo con i nostri avvocati, perchè sapevamo che era annullata dall’amnistia. Ma i pagamenti continuarono fino al 1992. Erano parecchie centinaia di milioni. Non solo, nell’ambiente sapevamo che a riscuotere non era soltanto il Psdi: Berlusconi sosteneva tutto il pentapartito”.
Di più non vuol dire. Buzio anzi s’arrabbia se gli si chiede di specificare fatti, nomi, luoghi, cifre. “Siete come Di Pietro. Ma Di Pietro ha distrutto l’Italia, ha preso solo i ladri di polli, ha provocato la morte civile di migliaia di persone, ha rovinato la vita a quelli come me. Sì, ho ritirato contributi per il partito. L’ho fatto e lo rifarei: era una giusta ridistribuzione del reddito, erano soldi che gli imprenditori restituivano ai cittadini . Noi li abbiamo usati per fare politica”.
Non è un “pentito”, dunque, Roberto Buzio. Anzi.
Continua a essere orgoglioso del ruolo che ha avuto, a fianco di Saragat.
Ed è rimasto un implacabile nemico dei magistrati: “I pm di Milano hanno compiuto ingiustizie gravissime. E il gip Italo Ghitti ha disposto il mio arresto, il 26 febbraio 1993, senza uno straccio di prova, solo la parola di Enzo Papi, l’amministratore delegato di Cogefar Impresit, gruppo Fiat, che non conosceva neppure il mio nome: nei verbali mi chiama Burzio, invece che Buzio. Sosteneva di avermi consegnato 300 milioni per un appalto Enel. Macchè appalti Enel! Era il sostegno della Fiat al partito. Si può arrestare un uomo solo sulla base di chiacchiere? Io ho una storia, mio padre Luigi Buzio, prima di me, è stato senatore del Psdi. E io non sono finito a San Vittore soltanto perchè ero già qui in Francia”.
Poi gli avvisi di garanzia si moltiplicarono, Buzio trattò “la resa” tramite i suoi avvocati (“Chissà chi li ha pagati? Io ho dato loro solo qualche milione, chi avrà versato il resto?”), evitò il carcere.
Fu interrogato dai magistrati, poi vennero i patteggiamenti e le assoluzioni.
“Sono stato interrogato più volte, da Antonio Di Pietro e da Gherardo Colombo. E ho capito questo: delle tante cose che noi indagati dicevamo, solo alcune venivano sviluppate, altre erano invece lasciate cadere. Io già allora avevo accennato a Berlusconi, ma nessuno mi ha chiesto di approfondire. Berlusconi, diventato grande fan di Mani pulite, è stato salvato da Di Pietro, almeno fino al 1994. Se lo avessero indagato seriamente già nel 1992, la storia d’Italia sarebbe stata diversa. Ai pm ho riferito anche di un contributo promesso dal segretario di Gianni Agnelli a Roma: Di Pietro si segnò il nome su un foglietto, poi non ne fece niente. Ecco la mia rabbia: alcuni sono stati perseguitati, altri sono stati salvati”.
Buzio guarda fuori dalla finestra i monti, la valle, le luci che si accendono. “Se la sono presa con Domenico Modugno, a cui il mio partito aveva dato 500 milioni di lire per fare dei concerti durante la campagna elettorale. E hanno distrutto in un attimo chi come me aveva fatto politica tutta la vita. Non hanno invece perseguito i furbi che sono ancora oggi in azione. Cosa crede? Che non sarei potuto andare anch’io da Berlusconi, negli anni scorsi? Ora sarei deputato. Ma a me interessa ristabilire la verità storica. Lo farò, a ogni costo. Ho preferito fare il cuoco: Saragat, che conosceva bene la Francia, mi diceva: ‘In Francia rispettano due figure: il sindaco e lo chef’. Io ho fatto lo chef. Adesso non voglio vendetta, ma giustizia. Avrei tante cose da raccontare, sui furbi e sui riciclati”.
Così parla Roberto Buzio, irriducibile della Prima Repubblica.
Poi si richiude nel suo silenzio, mentre in Alta Savoia cade la notte.
Gianni Barbacetto
(da “Il Fatto Quotidiano”)
argomento: Berlusconi, Costume, denuncia, Politica, radici e valori | Commenta »
Marzo 14th, 2012 Riccardo Fucile
LA LEGGE 138/2011 PREVEDEVA LA RIDUZIONE DEI CONSIGLIERI DA 1.100 A 700 E DEGLI ASSESSORI DA 211 A 148, MA TUTTO E’ RIMASTO LETTERA MORTA
Quattrocento consiglieri e centocinquanta assessori regionali di troppo, 110 enti enti che sulla carta erano da abrogare ma che sono rimasti in piedi. Almeno per ora.
I furbetti della finanza pubblica hanno nome e cognome.
Sono le Regioni e le Province d’Italia che erano chiamate a una cura dimagrante ma che sono riuscite a evitare abilmente tutti i tagli, compresi quelli al numero delle poltrone, alle indennità , ai trattamenti previdenziali e al numero degli enti provincia.
Le riduzioni erano previste dalla manovra di Ferragosto e dovevano arrivare entro il 13 febbraio per essere applicate alle prime elezioni, le amministrative di maggio.
E invece tutto il corredo di tagli della legge 138/2011 è rimasto lettera morta.
A denunciarlo è un dossier del Sole24Ore che mette in fila numeri e metodi che hanno consentito agli enti regionali e provinciali di fare esattamente il contrario del dettato legislativo: mentre l’Italia dibatteva di ridurre costi e poltrone, Regioni e Province non solo non facevano nulla per adeguarsi, ma facevano crescere la spesa corrente come nulla fosse.
I conti sono presto fatti.
Le legge indicava alle Regioni di ridurre il numero dei consiglieri da 1.109 a 700.
A dover fare i sacrifici maggiori erano quelle con un numero di poltrone abonorme rispetto alle media.
La Sicilia, ad esempio, doveva passare da 90 a 50 consiglieri, la Sardegna da 80 a 30. Niente di tutto questo.
Oggi, a sei mesi dalla legge, le uniche regioni che hanno ridotto le poltrone sono Veneto e Toscana che sono passate rispettivamente da 60 a 50 consiglieri e da 90 a 50.
Lombardia ed Emilia erano già in linea col provvedimento e infatti non hanno modificato la composizione dei rispettivi consigli.
Le altre, pur avendo consiglieri in eccesso, non hanno fatto proprio nulla.
Un problema per la finanza pubblica perchè ogni consigliere — con differenze territoriali forti — guadagna dai 6mila ai 15mila euro al mese.
Anche prendendo una media di 10 per le 409 poltrone che si voleva abolire il conto per i cittadini e per la finanza pubblica è di 4 milioni al mese.
Stesso discorso per gli assessori: sono 211 e il decreto indicava una riduzione a 148 con un risparmio di tre milioni.
Ma anche su questo fronte la situazione è rimasta la stessa: nessuna regione ha operato tagli e il record resta al Lazio che ancora ha 16 assessori al posto dei 10 previsti.
Così la beffa è servita e lo scotto più duro da pagare tocca a chi i tagli chiesti dal governo non potrà esimersi dal farli cioè ai comuni: è in corso un tavolo tecnico con Monti che si era lasciato con una sorta di “tregua armata” ma a questo punto, vista la disparità di trattamento tra enti, riprenderà decisamente armata.
Lo conferma il direttore generale dell’Anci Angelo Rughetti che a quel tavolo partecipa insieme ai rappresentanti dei comuni e definisce la vicenda come “cronaca di una morte annunciata”.
“Che nessuno avrebbe fatto le riduzioni indicate nel decreto era chiaro. La scappatoia è nella riforma del Titolo V della Costituzione che ascrive proprio alle Regioni la competenza legislativa in materia di indennità , spese, rimborsi e previdenza. Un caso unico in Europa perchè in genere è un soggetto terzo a disciplinare queste materie invece in Italia questa compentenza è risconosciuta in via eslusiva alle Regioni. Il risultato è che queste dovendo decidere per sè fanno quello che vogliono e lo Stato può emanare norme di carattere nazionale che per loro sono solo di indirizzo senza obbligo giuridico”.
E così è andata per le Regioni.
La questione però si fa economica e non solo politica.
Sia per le cifre in ballo, sia per i sacrifici che invece sono rischiesti con valore di legge ai comuni, ormai colpiti dalla sindrome di Calimero.
“Per noi, al contrario, il Dl 78 e il 138 hanno forza di legge e quindi le riduzioni di poltrone e indennità hanno effetto immediato. Alle prossime elezioni di maggio le amministrazioni si voterà per eleggere amminsitrazioni con un numero di consiglieri ridotti della metà , da 12 a 6 con l’aggravio che basterà che due consiglieri cambino idea su un piano regolarore che la maggioranza potrà saltare con conseguenze nefaste per l’aumentato potere dei singoli rispetto all’andamento generale della macchina pubblica”.
Ma che le cose sarebbero andate così c’era più di un sospetto quando la commissione guidata dal presidente dell’Istat Giovannini fu chiamata ad analizzare i costi degli enti locali.
“Noi abbiamo portato puntualmente i compensi netti e lordi degli amministratori locali, le Regioni non hanno portato nulla”.
Sempre con la scusa del federalismo e dell’autonomia. Il risultato è un divario crescente con la spesa dei comuni che si è ridotta (come pure gli investimenti) e quella di Regioni e Province che non solo è rimasta uguale ma è addirittura aumentata.
“Le spese dei comuni sono sotto controllo perchè l’aumento è standardizzato all’inflazione. Quella degli enti Provincia che si voleva abolire è aumentata di 6 miliardi. Quella delle regioni aumenta con un artificio: avendo competenze in materia sanitaria le Regioni riescono a qualificare com spesa sanitaria anche quello che non lo è e siccome è una voce incomprimibile hanno facile gioco nell’ottenere quanto chiedono, con un effetto moltiplicatore dei costi per la finanza pubblica”.
Insomma come e più di prima.
Se non bastasse quel decreto disatteso nei fatti è anche impugnato presso al Corte Costituzionale da tutte le Regioni, a scanso di equivoci.
Così sul tavolo del Governo resta solo la finanza locale dei comuni da tagliare. “Per questo al prossimo incontro con l’esecutivo porremo la questione della disparità di trattamento che va contro l’articolo 114 della Costituzione e contro i cittadini”, dice Rughetti.
Ma i comuni hanno effettivamente risparmiato? “Si, lo dice la Corte dei Conti. Nel 2010 la spesa per 8mila amministrazioni era di 70 miliardi, nel 2011 è scesa a 64,6”.
E poi c’è un punto irrisolto, la disparità tra trattamento economico e responsabilità : “I consiglieri regionali non hanno responsabilità amministrativa ma solo politica eppure guadagnano il doppio di un sindaco di città capoluogo di provincia. Un sindaco può essere chiamato in giudizio con profili di responsabilità penale, contabile e civile. E nel 90% dei casi ha compensi da fame. Questo sistema che privilegia alcuni e mette sotto torchio sempre i soliti non può più reggere. Questo diremo a Monti”.
Thomas Mackinson
(da “Il Fatto Quotidiano“)
argomento: Costume, Provincia, Regione | Commenta »