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IN UN VIDEO GIRATO SUL BARCONE, LA PROVA DI COME I PROFUGHI FURONO FATTI TORNARE INDIETRO E RICONSEGNATI A GHEDDAFI

LE TESTIMONIANZE E LE STORIE DI ERITREI E SOMALI NEL FILM DOCUMENTARIO “MARE CHIUSO”, DURO ATTO DI ACCUSA AL GOVERNO ITALIANO… AVEVANO DIRITTO ALL’ASILO

«Ci state gettando nelle mani degli assassini… Dei mangiatori di uomini…».
Così gli eritrei fermati su un barcone supplicarono i militari italiani che li stavano riconsegnando ai soldati di Gheddafi.
Avevano diritto all’asilo, quegli eritrei: furono respinti prima di poterlo dimostrare.
C’è un video, di quell’operazione. Girato con un telefonino.
Un video che conferma le accuse che due settimane fa hanno portato la Corte dei diritti umani di Strasburgo a condannare l’Italia.
Quel video, miracolosamente sottratto alle perquisizioni dei gendarmi italiani e libici, messo in salvo e gelosamente custodito per due anni nella speranza che un giorno potesse servire, è oggi il cuore di un film documentario che uscirà  domani.
Si intitola «Mare chiuso», è stato girato da Stefano Liberti e Andrea Segre e racconta la storia di un gruppo di profughi, in gran parte eritrei e cristiani, in fuga dalla guerra che da troppo tempo si quieta e riesplode sconvolgendo la regione.
«Non si è mai potuto sapere ciò che realmente succedeva ai migranti durante i respingimenti, perchè nessun giornalista era ammesso sulle navi e tutti i testimoni furono poi destinati alla detenzione in Libia», raccontano gli autori.
Lo scoppio della rivolta contro il tiranno libico, nel marzo 2011, cambiò tutto.
Migliaia di poveretti rinchiusi nei famigerati campi di detenzione di Zliten o Tweisha o nella galera di Khasr El Bashir riuscirono a scappare.
E tra questi «anche profughi etiopi, eritrei e somali vittime dei respingimenti italiani che raggiunsero in qualche modo il campo Unhcr delle Nazioni Unite per i rifugiati a Shousha in Tunisia, dove li abbiamo incontrati».
L’atto di accusa contro l’Italia per avere violato le regole del diritto d’asilo è una conferma della sentenza della Corte di Strasburgo.
Il processo, come noto, aveva un punto di partenza preciso: il 6 maggio 2009 a sud di Lampedusa, in acque internazionali, le nostre autorità  intercettarono una nave con circa 200 persone di nazionalità  somala ed eritrea tra cui bambini e donne incinte.
Tutti caricati su navi italiane e riaccompagnati a Tripoli «senza essere prima identificati, ascoltati nè informati preventivamente sulla loro effettiva destinazione».
Le regole, come inutilmente tentarono allora di ricordare l’alto commissariato Onu per i rifugiati, le organizzazioni umanitarie, molti uomini di chiesa e diversi giornali tra i quali Avvenire e il Corriere , erano infatti chiarissime.
La Convenzione di Ginevra del 1951 dice che ha diritto all’asilo chi scappa per il «giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche».
E l’articolo 10 della Costituzione conferma: «Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà  democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo».
Non bastasse, il direttore del Sisde Mario Mori, al comitato parlamentare di controllo, aveva chiarito com’erano trattati i profughi in Libia: «I clandestini vengono accalappiati come cani, messi su furgoncini pick-up e liberati in centri di accoglienza dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi…».
Oppure, stando alla denuncia dell’Osservatorio sulle vittime delle migrazioni «Fortress europe», venivano abbandonati a migliaia in mezzo al deserto del Sahara.
Per non dire della sorte riservata alle prigioniere. Spiegò un comunicato del servizio informazione della Chiesa: «Non possiamo tollerare che le persone rischino la vita, siano torturate e che l’85% delle donne che arrivano a Lampedusa siano state violentate». L’Osservatore Romano ribadì: «Preoccupa il fatto che fra i migranti possa esserci chi è nelle condizioni di poter chiedere asilo politico. E si ricorda anzitutto la priorità  del dovere di soccorso nei confronti di chi si trova in gravi condizioni di bisogno».
Il film documentario di Liberti e Segre, attraverso testimonianze da far accapponare la pelle, ricostruisce appunto come il destino di tanti uomini, donne, bambini fu segnato dalla violazione di tutti i diritti di cui dovevano godere.
Basta mettere a confronto le parole di tre protagonisti di questa storia.
Muammar Gheddafi: «Gli africani non hanno diritto all’asilo politico. Dicono solo bugie e menzogne. Questa gente vive nelle foreste, o nel deserto, e non hanno problemi politici». Silvio Berlusconi: «Abbiamo consegnato delle imbarcazioni al fine di riportare i migranti in territorio libico, dove possano facilmente adire l’agenzia delle Nazioni Unite per mostrare le loro situazioni personali e chiedere quindi il diritto di asilo in Italia».
Un anziano somalo filmato in un campo profughi: «Era domenica quando ci hanno riportato a Tripoli. I libici ci hanno portati via con dei camion container e poi nel carcere di Khasr El Bashir. Ci hanno bastonato. Ci hanno picchiati. Ci hanno rinchiusi».
Una testimonianza confermata da Omer Ibrahim e Shishay Tesfay e Abdirahman e tanti altri. Del resto Laura Boldrini, la portavoce, ricorda che l’Alto commissariato Onu per i Rifugiati aveva denunciato l’impossibilità  di svolgere laggiù, in Libia, sotto il tallone di un tiranno come Gheddafi che non riconosceva la convenzione di Ginevra, quell’attività  prevista dagli accordi: «Non avevamo neppure accesso ai campi di detenzione.
A un certo punto ci chiusero, dicendo che non avevamo le carte in regola. Per poi riaprire col permesso di trattare solo le pratiche vecchie».
Ma è la storia di Semere Kahsay, uno dei giovani che stava su uno di quei barconi, il filo conduttore del film.
Eritreo, cristiano, in fuga dalla guerra, con tutte le carte in regola per godere del diritto d’asilo, nell’aprile 2009 riuscì a caricare la moglie incinta, un paio di settimane prima del parto, su un barcone per Lampedusa.
Poi, messi insieme ancora un po’ di soldi lavorando in Libia, si imbarcò per raggiungere la moglie e la figlioletta nata in Italia. Un viaggio infernale. Il barcone troppo carico. L’avaria. La fine della scorta di acqua. La paura. L’arrivo di un elicottero italiano. L’apparizione di una motovedetta: «Eravamo felici. Felici».
Poi la delusione. L’irrigidimento dei militari. Il ritorno a Tripoli. Il sequestro di documenti. La riconsegna ai libici. Il tentativo disperato e inutile di spiegare il suo diritto all’asilo. La prigionia. La guerra. La fuga verso la Tunisia. I nuovi tentativi per ottenere lo status di rifugiato.
Semere l’ha avuto infine, quell’asilo che gli spettava e che secondo il Cavaliere avrebbe potuto «facilmente» avere in Libia andando all’apposito ufficio.
Dopo due anni e mezzo d’inferno. E solo grazie alla guerra civile libica, alla fine di Gheddafi e all’aiuto per sbrigare le pratiche che gli hanno dato gli autori di Mare chiuso . Che l’hanno seguito passo passo fino al suo arrivo, agognato, in Italia.
Dove ha potuto infine ritrovare la moglie, vedere quella figlioletta mai conosciuta e regalarle, in lacrime, un chupa-chups.

Gian Antonio Stella
(da “Il Corriere   della Sera“)

This entry was posted on mercoledì, Marzo 14th, 2012 at 23:53 and is filed under Costume, criminalità, denuncia, Giustizia, governo, Immigrazione, LegaNord, PdL, Politica, radici e valori. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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