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RIXI, IL CANDIDATO SINDACO LEGHISTA DI GENOVA “PENDOLARE E PORTABORSE”: PIAZZATO DAL PARTITO IN REGIONE LOMBARDIA A CHIAMATA DIRETTA A 38.000 EURO L’ANNO PER 5 ANNI

Marzo 26th, 2012 Riccardo Fucile

LA NOSTRA INCHIESTA RIDICOLIZZA BOSSI CHE AVEVA SOSTENUTO: “RIXI E’ UNO BRAVO: HA LAVORATO A LUNGO A MILANO E LI’ MICA TI ASSUMONO SE NON SEI CAPACE”… PECCATO CHE IL SENATUR SI FOSSE DIMENTICATO DI DIRE CHE ERA STATA   PROPRIO LA LEGA A PIAZZARLO IN REGIONE CON CONTRATTO A TERMINE A 38.000 EURO L’ANNO, DAL 2005 AL 2009

Un esempio per i giovani genovesi costretti a cercare lavoro a Milano, uno che saprebbe certamente rappresentarli perchè conosce la difficoltà  di trovare un lavoro senza raccomandazioni, un giovane disposto ad accettare anche un misero stipendio pur di non scendere a compromessi e di far valere le proprie qualità , altro che quei meridionali che vengono al nord a rubare il lavoro ai locali, avvalendosi della spintarella degli “amici degli amici”.
Appena il partito lo aveva candidato sindaco di Genova, Rixi aveva già  così indicato chi avrebbe voluto rappresentare, perchè nessuno come lui identifica il “nuovo che avanza” nella politica ligure, nessuno come lui sa “cosa vuol dire fare il pendolare”.
E pazienza se aveva esordito sbagliando la data del suo pendolarismo: “Ho fatto il pendolare dal 1996 al 2002, dopo la laurea in Economia e Commercio, come tanti giovani che a Genova non hanno trovato lavoro”,
Di fronte alla nostra osservazione che ciò non sarebbe stato possibile visto che si è laureato nel 1999, in una seconda intervista Rixi ha riposizionato il suo pendolarismo dal 2005 al 2009: “Certo che son stato pendolare. E certo che ho lavorato come funzionario a contratto alla commissione bilancio della Regione Lombardia. Quanto guadagnavo? Sono pronto a esibire la mia dichiarazione dei redditi”.
Lasciamo pure da parte il fatto che, visto che Rixi è stato anche consigliere comunale a Genova fino al 2007, non si comprende come potesse avere per tre anni, dal 2005 al 2007, il dono dell’ubiquità  (fare il consigliere comunale a Genova ti occupa almeno 2-3 giorni su 5).
Veniamo ai fatti provati e documentati, frutto delle nostre ricerche.
Rixi non era un funzionario a contratto della “regione Lombardia”, come da lui sostenuto, ma era stipendiato da “regione Lombardia – Consiglio regionale”: non a caso i due enti hanno due distinte partite Iva.
In Regione Lombardia si entra con regolare concorso e nessuno ti può più mandare via, mentre in “Regione Lombardia – Consiglio regionale” si entra su segnalazione dei partiti di riferimento, con un contratto pari alla durata della legislatura e con chiamata diretta.
In pratica è la prassi per cui ciascun partito e/o consigliere fa assumere i propri portaborse, alias collaboratori di fiducia.
Quindi Rixi è entrato su segnalazione del gruppo leghista alla Regione Lombardia e non per altri meriti oggettivi o per concorso.

E quando è scaduta la legislatura di 5 anni è cessato il suo contratto.
Visto che Rixi non risponde su quanto guadagnava, lo diciamo noi:   giusto per avere un’idea, circa 33.000 euro nel 2007, circa 35.000 euro nel 2008, circa 38.000 nel 2009, circa 12.500 euro per quattro mesi nel 2010 (poi scadette il contratto).
Il coordinamento del gruppo di “portaborse” o collaboratori del Carroccio dal 2005 al 2009 era affidato all’assessore Davide Boni, attualmente inquisito.

Rixi allora era vicino a quello che è stato definito il “cerchio magico” e la segnalazione del suo nome, è cosa risaputa nei corridoi di via Bellerio, ha origine nelle sue frequentazioni e nelle sue amicizie personali.
Fa sorridere che Bossi, intervenuto a Genova alla presentazione della candidatura di Rixi, si sia reso ridicolo sostenendo che “Rixi è uno bravo, ha lavorato a lungo a Milano e lì mica ti assumono se non sei capace”, dimenticando come e tramite chi Rixi avesse ottenuto quel lavoro a chiamata diretta.
O forse Bossi pensava che Rixi avesse vinto un concorso letterario alla Mondadori o avesse superato una dura selezione per fare l’assistente alla Bocconi?
In fondo in un Paese che aveva un “presidente operaio” può anche starci un “sindaco portaborse”: purchè non nasconda la verità  e non si ponga ad esempio per i giovani genovesi che un posto di lavoro lo vorrebbero trovare senza l’aiuto di quella Casta che solo a parole qualcuno dice di voler combattere.
A Genova, è risaputo, i giovani veri badano più al sodo che alle badanti.
Forse in padagna funziona diversamente.

argomento: Bossi, Costume, denuncia, la casta, Lavoro, LegaNord, Politica, radici e valori, Regione | Commenta »

RIFLETTENDO SULLA MORTE DI UN FRATELLO IN GIACCA BLU

Marzo 26th, 2012 Riccardo Fucile

IN RICORDO DI GIUSEPPE JACOVONE, AGENTE DELA POLIZIA DI STATO, MORTO FACENDO IL PROPRIO LAVORO A DIFESA DI UNA COMUNITA’ INDIFFERENTE

Non lo fai per una questione di soldi ma lo fai e basta, perchè è quello che senti ed è ciò che è giusto fare ed è per questo forse che è morto Giuseppe Iacovone, Agente scelto della Polizia di Stato, caduto ad Isernia a seguito di un incidente stradale mentre inseguiva un SUV che si era dato alla fuga.
Non lo fai perchè vuoi le medaglie o qualche soldo in più, a fine mese sempre 1300 euro sono, ne ammanetti 5 o 10,   o nessuno non cambia nulla ma questa vita ha un senso e non può non averlo.
Per quanto assurdo sembri quando ti lanci dietro a un folle che scappa con una macchina a tutta velocità  non ci pensi minimamente al tuo stipendio, alla tua vita, alla tua famiglia a quello che lasceresti: ti lanci, lo insegui e capita che muori perchè quella è la tua vita e quello era ed è il tuo dovere.
Ci possiamo pure arrabbiare ma lo sappiamo dal primo giorno, le statistiche poi parlano chiaro, gli esponenti delle forze dell’ordine numericamente non muoiono nel fragore o con l’onore delle armi ma muoiono banalmente   per colpa dei potenti cavalli a motore quali sono le moderne autovetture.
Quello che però mi fa arrabbiare è il silenzio, la capacità  di questo sistema di informazione immerso nel disinteresse della pubblica opinione che non si preoccupa di chi siano davvero i poliziotti tranne se li arrestano per qualche nefandezza, sono violenti o quando fanno scalpore e generano chiacchierare scandalizzate nei bar… ma quando muoiono nell’interesse della collettività  durante l’espletamento del servizio ecco che i media si fanno di nebbia e a parte solo qualche lancio di agenzia striminzito limitandosi a darne il triste annuncio in sordina e senza poi così tanto rispetto.
Ed è quindi nel silenzio dei canali di informazione che ci lascia Giuseppe a soli 28 anni, troppo pochi per una vita, ma abbastanza per i suoi cari, i suoi amici e i suoi colleghi per non onorarlo come sarebbe giusto.
Restituiteci o meglio dateci il beneficio della morte bianca, i nostri non sono considerati morti bianche,   perchè in Italia lo sbirro deve mettere in conto anche di morire ma non importa come, se muore fa parte del mestiere ma nella più assoluta indifferenza la sua dipartita quasi non esiste nelle cronache al contrario di ben più blasonati ergastolani come Bernardo Provenzano di cui il dolore del figlio ha “inspiegabilmente” trovato molta più enfasi rispetto a come muore un servitore dello stato.
Chissà  perchè poi ?
Ma dove andrà    a finire una società  che celebra i delinquenti e seppellisce gli eroi quotidiani ?
Giuseppe ci lascia quindi   con questo dubbio oltre che con il dolore, la rabbia e lo scoraggiamento di valere sempre meno in mezzo alla strada e davanti ai media come uomini, persone e operatori della forza pubblica.

(da “paroleingiaccablu”)

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LO STATO TRA COMUNI E COSCHE

Marzo 26th, 2012 Riccardo Fucile

DA QUANDO E’ STATA VARATA LA LEGGE NEL 1991, BEN 217 ENTI LOCALI SONO STATI SCIOLTI PER INFILTRAZIONI MAFIOSE… NUMERI DESTINATI A SALIRE

I numeri dei Comuni sciolti per infiltrazione mafiosa contribuiscono a chiarire il livello di penetrazione delle organizzazioni criminali nel nostro Paese.
Attualmente sono 22 gli enti locali che non hanno un sindaco, una giunta democraticamente eletta a guidarli, ma una commissione prefettizia che è intervenuta per restituire credibilità  allo Stato, inquinato da condizionamenti e infiltrazioni malavitose.
L’iter per l’azzeramento è semplice.
Il Prefetto invia una commissione di accesso presso l’ente, verificata la compromissione degli organi politici, il governo dispone lo scioglimento con decreto del presidente della Repubblica. Una triade di commissari gestisce il Comune fino a nuove elezioni.
Dei 23 comuni a guida prefettizia, 3 si trovano al nord: due sono in Liguria, Bordighera e Ventimiglia, entrambi in provincia di Imperia, e uno in Piemonte, il comune di Leinì.
Enti locali condizionati dal potere delle ‘ ndrine insediate da anni nel nord del nostro paese. Leinì fa parte dei 7 Comuni sciolti per mafia nell’ultimo Consiglio dei Ministri che ha azzerato anche Pagani e Gragnano, in Campania; Bova Marina e Platì in Calabria; Salemi e Racalmuto in Sicilia.
In tutto, dal 1991 — anno di introduzione della legge — i Comuni sciolti per condizionamento mafioso sono stati 217, numero che comprende anche le 4 Asl, aziende sanitarie locali, azzerate perchè asservite al potere criminale.
Le mafie, in combutta con il potere politico, controllano appalti, posti di lavoro e pianificano la devastazione del territorio.
Un numero, quello dei comuni sciolti, destinato a salire, visto che sono 9 le commissioni di accesso attivate presso altrettanti Comuni per verificare eventuali condizionamenti.
Quella più clamorosa si è insediata a Reggio Calabria, roccaforte elettorale e politica dell’attuale governatore della regione Giuseppe Scopelliti.
Un fenomeno, le mani dei clan sui Comuni, che ha caratterizzato prevalentemente le regioni del mezzogiorno (Campania in testa).
Al nord, fino al dicembre 2010, erano state sciolte solo 2 amministrazioni: Bardonecchia, in provincia di Torino, nel 1995, e Nettuno, in provincia di Roma, nel 2005.
“I casi degli ultimi tre scioglimenti al nord — spiega Enzo Ciconte, docente di Storia della criminalità  organizzata all’Università  Roma Tre — sono un buon segnale. Vuole dire che si comincia a cercare, finora non si era fatto nulla. Conveniva far passare l’idea che le mafie non esistessero. Per molti era meglio non parlarne per non deturpare il volto della regione, l’immagine del nord onesto e ricco”.
Una disattenzione, figlia anche della volontà  politica.
Gli scioglimenti sono decisi dai governi.
“Un caso macroscopico — continua Ciconte — è stato Fondi, in provincia di Latina, che il governo Berlusconi non ha voluto sciogliere. C’era il rischio di creare un caso analogo con Salemi. Hanno cercato di fare la stessa operazione, ma il governo Monti è intervenuto”.
Salemi, in provincia di Trapani, era il comune guidato da Vittorio Sgarbi, sciolto nell’ultimo Consiglio dei ministri per condizionamento della mafia. “Le mafie non guardano destra o sinistra — conclude Ciconte — si infiltrano anche perchè in questa fase le organizzazioni criminali portano denaro liquido, drenano l’economia”.
Uno studio di Legautonomie Calabria dimostra che il colore politico non conta nelle infiltrazioni dei Comuni.
Il Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso ha più volte ribadito che ci sono zone del paese dove lo stato fatica ad infiltrarsi: il dato dei Comuni sciolti due volte ne è la riprova.
Sono 36 quelli che hanno bissato l’azzeramento in questi 21 anni di applicazione della legge. Enti locali che sembrano segnati dal malaffare e dall’incuria politica.
Un caso è quello di Casal di Principe, nel casertano, due volte sciolto per mafia, dove c’è la possibilità  di invertire la rotta.
L’ex primo cittadino Renato Natale ha deciso di candidarsi chiedendo ai partiti di farsi da parte e lasciare vincere la società  civile.
Un segnale in terra di camorra perchè lo stato torni a infiltrarsi.

(da “Il Fatto Quotidiano“)

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IL TOUR DI MONTI IN ASIA

Marzo 26th, 2012 Riccardo Fucile

DALLA COREA DEL SUD AL KAZAKISTAN PER FAVORIRE GLI SCAMBI COMMERCIALI CON L’ITALIA E RIDARE CREDIBILITA’ AL NOSTRO PAESE

Un «roadshow» – lo ha definito lui stesso così – per promuovere l’immagine dell’Italia in Oriente.
Otto giorni per illustrare ai principali partner commerciali e finanziari asiatici lo stato di avanzamento della nuova Italia, quella guidata dai tecnici ai quali è stato affidato il risanamento del Paese.
«Occorre continuità  tra operazioni di ammodernamento dell’economia e presentazione al resto del mondo ai fini di investimento finanziario e industriale, oltre che di accresciuto prestigio dell’Italia», ha spiegato Mario Monti. Detto fatto.
Il premier parte con la riforma del lavoro sospesa in Parlamento – e non avrebbe voluto andasse così – ma comunque con una carta in più: l’arrivo di Vincenzo La Via alla direzione del Tesoro, fino a ieri direttore finanziario della Banca mondiale, membro del Financial Stability Board e noto negli ambienti che contano della finanza globalizzata.
Il Presidente del Consiglio ha optato per una permanenza lunga, otto giorni e cinque tappe tra Corea del Sud, Giappone, Cina e Kazakistan per completare il giro di contatti ad alto livello iniziato in Europa e proseguito negli Stati Uniti.
E’ l’ultimo tassello del mosaico politico-economico con il quale – dice Palazzo Chigi – «il governo risponde alla domanda di Italia che proviene da tutto il mondo».
Un facile slogan per spiegare la curiosità  degli stranieri per il «nuovo corso» dell’Italia di Monti.
La prima tappa in Corea del Sud per la seduta inaugurale della Conferenza sulla sicurezza nucleare di Seul.
Ci saranno tutti: da Obama a Sarkozy a Hu Jintao.
Un’assise di importanza pari all’Assemblea generale Onu, durante la quale si affronta il tema della proliferazione nucleare e i dossier iraniano e nordcoreano.
Ma anche un’occasione per allacciare o rafforzare rapporti bilaterali strategici come quello col primo ministro indiano, Manmohan Singh, con cui Monti affronterà  la vicenda giudiziaria dei due Marò e della petroliera Enrica Lexie.
Il giorno successivo, prima del suo intervento al summit (sarà  il quarto a parlare) Monti incontrerà  il presidente coreano Lee Myung-bak per individuare iniziative utili a rafforzare i rapporti già  rodati tra i due Paesi – come dimostrano gli 8,47 miliardi di dollari di interscambio – ma anche a stimolare gli investimenti in Italia divenuti fiacchi dopo la caduta delle Tigri asiatiche.
Seconda tappa a Tokyo, dove il premier tenterà  di sbloccare l’impasse commerciale col Giappone il cui interscambio risulta sottotono rispetto alle potenzialità , specie alla luce del fallimento del «free trade agreement» tra Ue e il Paese nipponico.
Il primo appuntamento è con il ministro delle Finanze Jun Azumi, poi ci sarà  il premier Noda, una colazione col board di Keidanren (la Confindustria giapponese) e incontri con banche e istituzioni finanziarie nazionali.
Da segnalare l’intervento presso il quotidiano economico Nikkei Shimbun, con cui Monti rinnova un appuntamento già  visto a Londra al Financial Times e a New York, con NY Times e Bloomberg.
Il 30 marzo è quindi previsto lo sbarco in Cina, la locomotiva economica d’Oriente la cui velocità  di crescita ha registrato sintomi di rallentamento negli ultimi tempi.
Ma pur sempre un partner strategico dell’Italia, sia per i forti investimenti nel nostro debito (la Cina detiene almeno il 10% dei titoli), sia per il fatto di essere il mercato privilegiato di oltre 1500 imprese nostrane.
Ed è proprio con la comunità  italiana il primo appuntamento mentre il giorno successivo il premier incontrerà  il primo ministro Wen Jiabao al palazzo dell’Assemblea Nazionale del Popolo.
L’agenda dei due giorni prevede contatti con gli ambienti finanziari cinesi e i vertici della scuola del Partito Comunista mentre non è ancora confermato il meeting col governatore della Banca Centrale.
In un’ottica di lungo periodo, tuttavia, l’appuntamento più interessante è il 1 aprile a Boao nell’isola di Hainan (la Davos d’oriente) con il vicepremier cinese Li Keqiang, destinato a breve a succedere allo stesso Wen.
Dopo l’intervento al «Boao Forum for Asia» Monti ripartirà  alla volta dell’Italia facendo prima tappa ad Astana, in Kazakistan, per uno scalo tecnico e una stretta di mano col presidente Nursultan Nazarbayev.
Un incontro lampo ma di rilevanza strategica visti i rapporti geo-energetici che legano i due Paesi e ultima tappa del «Roadshow» d’Oriente.

Francesco Semprini

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MONTI ATTACCA DA SEOUL: “NON MI INTERESSA DURARE, MA LAVORARE BENE”

Marzo 26th, 2012 Riccardo Fucile

POI CITA LA FAMOSA FRASE DI ANDREOTTI: “MEGLIO TIRARE A CAMPARE CHE TIRARE LE CUOIA” PER CONFERMARE CHE IL SUO SCOPO NON E’ QUANTO STARE IN SELLA, MA QUELLO DI GOVERNARE AL MEGLIO

“Non punto alla durata, ma a fare un buon lavoro”: Mario Monti cita la celebre frase di Giulio Andreotti   – “meglio tirare a campare che tirare le cuoia” — al summit sulla sicurezza nucleare in corso a Seul per chiarire a tutti che non ha intenzione di seguire nè l’una nè l’altra strada indicata nel motto del sette volte presidente del Consiglio.
Come a dire a chi è rimasto in Italia, e in special modo al Partito democratico: se la riforma del lavoro non va bene così, allora non è di me che avete bisogno.
Monti non sembra preoccupato dall’altro fondamentale aforisma attribuito ad Andreotti: “Il potere logora chi non ce l’ha”.
Anche perchè il presidente del Consiglio sa che il suo potere, in questo momento, è quello di lasciare i partiti al giudizio delle urne.
Con quel che ne consegue.
Per mostrare ulteriormente la sua diversità , aggiunge che non serve agitare lo spettro di una crisi sulla riforma del mercato del lavoro, perchè “rifiuterei il concetto stesso di crisi” e perchè c’è un altro elemento che il professore mette sotto agli occhi della politica: ”Se il Paese, attraverso le sue forze sociali e politiche, non si sente pronto a quello che secondo noi è un buon lavoro, non chiederemo certo di continuare per arrivare a una certa data”.
Un messaggio chiaro e forte quello di Monti: i Paesi sede di fondi sovrani e istituzioni private che investono anche nel nostro Paese hanno “il palpabile desiderio di capire se, come e quanto intensificare i loro investimenti in Italia”, timorosi del ritorno di “vecchi vizi”, come l’invadenza della politica nell’economia.
E’ vero che “alla fine di questo test, quando la politica tradizionale tornerà  non sarà  quella tradizionale” ma, se non bastasse, Monti avverte che ”finora il Paese si è mostrato più pronto di quello che immaginassi e se qualche segno di scarso gradimento c’è stato è andato verso altri protagonisti del percorso politico. Ma non verso il governo”.
I partiti sono il problema, dunque.
E i partiti rispondono prontamente alla chiamata.
Per primo Angelino Alfano, complici le voci di sondaggi poco lusinghieri per il Pdl e l’opportunità  di rispedire la palla nel campo del Pd e dei sindacati, si affretta a dare ragione al presidente del Consiglio: ”Monti ha detto che per lui è importante fare un buon lavoro e non tirare a campare. Siamo d’accordo: o si fa una buona riforma o nessuna riforma”.
E sulla stessa linea si colloca Pierferdinando Casini. I
l leader dell’Udc si dice certo che ”quello di Monti è l’ultimo governo di questa legislatura”. Mentre Gianfranco Fini da Londra aggiunge: “Il tema della mobilità  in uscita va affrontato anche nel settore statale”.
Nel gioco del cerino l’ultimo della fila rimane il Pd di Pierluigi Bersani.
Il segretario, pur reduce dalla sostanziale unanimità  consegnata alla sua relazione davanti alla direzione nazionale, è di fronte a un bivio.
Da un lato la necessità  di contenere lo scontento dell’elettorato che non gli perdonerebbe l’avallo della riforma dell’articolo 18 così come è uscita dal confronto con le parti sociali. Dall’altro la necessità  di tener fede a quel “senso di responsabilità ” verso il Paese che lo stesso Bersani ha ribadito ancora oggi davanti ai big del suo partito.
C’è poi il terzo fronte tutto interno.
Che lo vede perennemente nel guado tra l’anima democristiana del Pd, pienamente soddisfatta dal governo dei tecnici, e l’anima socialista che guarda fuori e strizza l’occhio a Vendola e alla Cgil.
E così Bersani cerca la sintesi, riportando in Parlamento il lavoro di modifica al testo della riforma del lavoro.
”Il Paese è prontissimo ad affrontare una situazione d’emergenza — dice il segretario dei democratici — ma per aiutarlo bisogna che ci sia un buon dialogo tra governo, Parlamento e forze politiche per non creare un distacco tra Paese e forze del governo”.
Poi Bersani cerca di gettare acqua sul fuoco: “Non sopravvaluto le parole dette oggi da Monti, gliel’ho sentito dire una ventina di volte, fa parte del ragionamento di una persona chiamata a risolvere dei problemi senza essersi candidata, lui pone il tema di capire se ci sono le condizioni. Io gli rispondo: ci sono le condizioni”.
E se i partiti litigano a distanza, Monti incassa elogi dall’altra parte del pianeta.
Dopo i bilaterali con i primi ministri di Singapore e Canada, Monti spiega di essersi “reso conto di quanto seguano da vicino gli sviluppi della situazione italiana e di quanto la vedano da vicino”.
Poi anche il professore cita un termine schizzato in testa al vocabolario della politica in questi giorni: quello del quid, anche se in accezione diversa da quella usata da Berlusconi con Alfano.
Sì, perchè Monti osserva che “poi viene sempre la domanda sul ‘quid’ dopo il 2013. Io dico sempre che sono convinto, come molti, che la fase particolare che sta vivendo la politica in Italia si sta rivelando una cartina di tornasole che mostra ai partiti stessi una crescente maturità  dell’opinione pubblica e una disponibilità  da parte dei cittadini a sopportare senza eccessive reazioni sacrifici anche pesanti perchè ne hanno compreso più che in passato la necessità ”.
Un patrimonio da difendere perchè ”sono convinto che quando tornerà  la politica tradizionale non sarà  più quella tradizionale perchè avrà  fatto tesoro di quanto questo test sta rivelando sulle percezioni e gli stati d’animo degli italiani, diventati più esigenti verso chi governa e responsabilmente comprensivi di non dover essere solo destinatari di promesse generiche sul futuro ma anche di sacrifici se nel loro stesso interesse a lungo termine”.
A buon intenditor.

(da “Il Fatto Quotidiano”)

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RIXI, IL CANDIDATO SINDACO LEGHISTA DI GENOVA “PENDOLARE E PORTABORSE”: PIAZZATO DAL PARTITO IN REGIONE LOMBARDIA A CHIAMATA DIRETTA A 38.000 EURO L’ANNO PER 5 ANNI

Marzo 26th, 2012 Riccardo Fucile

LA NOSTRA INCHIESTA RIDICOLIZZA BOSSI CHE AVEVA SOSTENUTO: “RIXI E’ UNO BRAVO: HA LAVORATO A LUNGO A MILANO E LI’ MICA TI ASSUMONO SE NON SEI CAPACE”… PECCATO CHE IL SENATUR SI FOSSE DIMENTICATO DI DIRE CHE ERA STATA   PROPRIO LA LEGA A PIAZZARLO IN REGIONE CON CONTRATTO A TERMINE A 38.000 EURO L’ANNO, DAL 2005 AL 2009

Un esempio per i giovani genovesi costretti a cercare lavoro a Milano, uno che saprebbe certamente rappresentarli perchè conosce la difficoltà  di trovare un lavoro senza raccomandazioni, un giovane disposto ad accettare anche un misero stipendio pur di non scendere a compromessi e di far valere le proprie qualità , altro che quei meridionali che vengono al nord a rubare il lavoro ai locali, avvalendosi della spintarella degli “amici degli amici”.
Appena il partito lo aveva candidato sindaco di Genova, Rixi aveva già  così indicato chi avrebbe voluto rappresentare, perchè nessuno come lui identifica il “nuovo che avanza” nella politica ligure, nessuno come lui sa “cosa vuol dire fare il pendolare”.
E pazienza se aveva esordito sbagliando la data del suo pendolarismo: “Ho fatto il pendolare dal 1996 al 2002, dopo la laurea in Economia e Commercio, come tanti giovani che a Genova non hanno trovato lavoro”,
Di fronte alla nostra osservazione che ciò non sarebbe stato possibile visto che si è laureato nel 1999, in una seconda intervista Rixi ha riposizionato il suo pendolarismo dal 2005 al 2009: “Certo che son stato pendolare. E certo che ho lavorato come funzionario a contratto alla commissione bilancio della Regione Lombardia. Quanto guadagnavo? Sono pronto a esibire la mia dichiarazione dei redditi”.
Lasciamo pure da parte il fatto che, visto che Rixi è stato anche consigliere comunale a Genova fino al 2007, non si comprende come potesse avere per tre anni, dal 2005 al 2007, il dono dell’ubiquità  (fare il consigliere comunale a Genova ti occupa almeno 2-3 giorni su 5).
Veniamo ai fatti provati e documentati, frutto delle nostre ricerche.
Rixi non era un funzionario a contratto della “regione Lombardia”, come da lui sostenuto, ma era stipendiato da “regione Lombardia – Consiglio regionale”: non a caso i due enti hanno due distinte partite Iva.
In Regione Lombardia si entra con regolare concorso e nessuno ti può più mandare via, mentre in “Regione Lombardia – Consiglio regionale” si entra su segnalazione dei partiti di riferimento, con un contratto pari alla durata della legislatura e con chiamata diretta.
In pratica è la prassi per cui ciascun partito e/o consigliere fa assumere i propri portaborse, alias collaboratori di fiducia.
Quindi Rixi è entrato su segnalazione del gruppo leghista alla Regione Lombardia e non per altri meriti oggettivi o per concorso.
E quando è scaduta la legislatura di 5 anni è cessato il suo contratto.
Visto che Rixi non risponde su quanto guadagnava, lo diciamo noi:   giusto per avere un’idea, circa 33.000 euro nel 2007, circa 35.000 euro nel 2008, circa 38.000 nel 2009, circa 12.500 euro per quattro mesi nel 2010 (poi scadette il contratto).
Il coordinamento del gruppo di “portaborse” o collaboratori del Carroccio dal 2005 al 2009 era affidato all’assessore Davide Boni, attualmente inquisito.  

Rixi allora era vicino a quello che è stato definito il “cerchio magico” e la segnalazione del suo nome, è cosa risaputa nei corridoi di via Bellerio, ha origine nelle sue frequentazioni e nelle sue amicizie personali.
Fa sorridere che Bossi, intervenuto a Genova alla presentazione della candidatura di Rixi, si sia reso ridicolo sostenendo che “Rixi è uno bravo, ha lavorato a lungo a Milano e lì mica ti assumono se non sei capace”, dimenticando come e tramite chi Rixi avesse ottenuto quel lavoro a chiamata diretta.
O forse Bossi pensava che Rixi avesse vinto un concorso letterario alla Mondadori o avesse superato una dura selezione per fare l’assistente alla Bocconi?
In fondo in un Paese che aveva un “presidente operaio” può anche starci un “sindaco portaborse”: purchè non nasconda la verità  e non si ponga ad esempio per i giovani genovesi che un posto di lavoro lo vorrebbero trovare senza l’aiuto di quella Casta che solo a parole qualcuno dice di voler combattere.
A Genova, è risaputo, i giovani veri badano più al sodo che alle badanti.
Forse in padagna funziona diversamente.

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LICENZIAMENTI, COME FUNZIONANO IN GERMANIA

Marzo 26th, 2012 Riccardo Fucile

RUOLO DECISIVO DI SINDACATI E GIUDICI… PREVISTO IL REINTEGRO, MA SOLO NEL 5% DEI CASI SI ARRIVA ALLA CAUSA

Qui lo chiamano Sozialstaat, e il Welfare tedesco – modello al centro del dibattito in Italia, in particolare con la richiesta del Pd e dei sindacati di adottarlo nella riforma del governo – è il più generoso tra le maggiori economie mondiali.
E tale resta anche dopo i tagli decisi dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder per raffrontare la crisi del Paese.
Il diritto del lavoro pone ai licenziamenti il paletto del negoziato con i sindacati. Il Welfare è di gran lunga la prima voce del bilancio federale.
Nella finanziaria 2011 ammontava al 37,17% del totale, e cioè per l`esattezza a 131 miliardi e 293 milioni.

I licenziamenti: la cogestione riduce i litigi, pochi i ricorsi alla magistratura

La legge tedesca prevede tre, tipi di cause di licenziamento possibile: motivi personali, motivi disciplinari o esigenze aziendali. La legge si applica a lavoratori con almeno 6 mesi di anzianità  e ad aziende con più di 10 dipendenti.
E’ obbligatorio consultare il Betriebsrat, cioè il consiglio di fabbrica, dove esiste, cioè nella maggioranza del- le aziende e soprattutto nelle grandi o comunque in quelle dei comparti-chiave e di eccellenza.
La Mitbestimmung, cioè cogestione, prevede inoltre la presenza di rappresentanti del sindacato nel consiglio di sorveglianza delle imprese, e questa è forse la più importante differenza qualitativa del sistema tedesco.
In caso di licenziamento uri lavoratore può sempre rivolgersi al tribunale del lavoro entro due settimane dal recapito della lettera.
Spetta al giudice competente scegliere tra l`indennizzo o il reintegro.
Comunque statisticamente solo il 5% dei lavoratori sceglie di fare causa per ottenere il reintegro.
Nell` 84% dei casi si opta, con intervento del giudice o trattativa con l`azienda, per il risarcimento.
Ammonta a una mensilità  lorda per ogni anno di anzianità , ma aumenta per gli over 50 con almeno 20 anni di anzianità .

I contratti: più numerosi quelli di categoria, nessun intervento della politica
I contratti di lavoro in Germania sono di solito negoziati per ogni categoria, tra i rappresentanti degli imprenditori del comparto industriale e quelli dei lavoratori.
Il principio base è quello della Tarifautonomie, cioè l`autonomia assoluta delle parti sociali da ogni intervento del potere politico.
Soltanto in casi estremi di vertenze che appaiono non componibili si ricorre alla Schlichtung, cioè alla mediazione indipendente, affidata a un autorevole personaggio (di solito un senior dellapolitica) ritenuto imparziale.
I contratti di categoria tuttavia non sono vigenti in tutta l`economia tedesca.
In Germania ovest, sono i156% del totale le aziende dove è in vigore un contratto di categoria, mentre all`est la percentuale scende al 38.
Contratti negoziati a livello aziendale sono in vigore nel 9% delle aziende dell`ovest e nel 13% all`est.
Senza contratto rigido lavora il 36% all`ovest e il 49% all`est, ma anche in questi casi ci si orienta verso il contratto di categoria nazionale.
I contratti aziendali nelle grandi aziende (vedi la Volkswagen) sono spesso piùvantaggiosi diquelli di categoria.
L`uscita dall`associazione imprenditoriale non esentai datori di lavoro dal risnetto del contratto finchè esso è valido a livello nazionale.

I precari: boom dei minijob da 400 euro è polemica sui lavori a termine
In Germania non esiste un precariato all`italiana, ma il numero di contratti a termine è decisamente aumentato negli ultimi dieci anni, a seguito indirettamente delle riforme varate da Schroeder.
E sono aumentati anche i lavori part-time e i cosiddetti minijob, cioè lavori anche per soli 400 euro mensili.
Da11991 a oggi, la percentuale di nuovi contratti di lavoro firmati che riguardano lavori a termine, è salita dal 32 al 45% del totale dei nuovi contratti.
Rispetto al totale dei contratti invigore, la percentuale dei contratti a termine è salita al 7,6%, un record storico.
Coinvolge circa 2,7 milioni di lavoratori, e in percentuale sono più donne che uomini. La percentuale di contratti a termine è molto alta (67%) nelle amministrazioni, meno in industrie come l`informatica (15%).
Le altre due situazioni svantaggiate che si sono diffuse negli ultimi anni sono i minijob e il cosiddetto Leiharbeit. I minijob, a bassa paga, con orari lunghi o scomodi, sono diffusi in settori a bassa qualifica come il commercio o i lavori pesanti.
Il Leiharbeit si applica invece al lavoratore che viene “affittato” da agenzie di collocamento per un periodo di tempo limitato. I sindacati chiedono con forza un limite a questa pratica.

Gli amortizzatori: previsto un doppio livello di tutele, un occhio di riguardo per gli over 55
I principali ammortizzatori sociali in Germania sono lo Arbeitslosengeld, che però viene pagato per un tempo limitato, e le varie voci dei sussidi e assegni di povertà .
La riforma introdotta da Schroeder (tra il 1998 e il 2005) ha infatti ridotto il tempo massimo in cui il sussidio di disoccupazione primario – quello finanziato dai contributi- viene pagato a 12 mesi.
Il periodo massimo però sale a 18 mesi per i lavoratori al di sopra dei 55 anni.
Il sussidio di disoccupazione ammonta per un padre di famiglia sposato o convivente con almeno un figlio a carico, al 67% circa della precedente retribuzione, per gli altri a circa il 60%.
Dopo, se non trovi lavoro, interviene un sussidio minore, pagato dall`erario, solitamente chiamato Hartz IV`, dal nome di Peter Hartz, ex amministratore Volkswagen che progettò la riforma.
La quale fonde in un unico pagamento i calcoli dei sussidi di disoccupazione e degli assegni-povertà  e previdenza.
Il lavoratore è obbligato ad accettare i lavori offerti dall`Agenzia federale del lavoro, pena il decurtamento degli ammortizzatori sociali.

Andrea Tarquini
(da “La Repubblica“)

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FORNERO: “POSSIBILI MODIFICHE IN PARLAMENTO MA SUI LICENZIAMENTI ECONOMICI NO AL REINTEGRO”

Marzo 26th, 2012 Riccardo Fucile

“IL DISEGNO DI LEGGE NON SI PUO’ SNATURARE, LE IMPRESE NON ABUSINO DELLA FLESSIBILITA'”..”LA CGIL NON CI HA MAI FATTO CONTROPROPOSTE”

“Questa è una riforma seria ed equilibrata. Spero che i partiti capiscano: modifiche se ne possono fare, ma il governo non accetterà  che questo disegno di legge venga snaturato, o sia ridotto in polpette”.
Schiumati almeno in parte i veleni ideologici della prima ora, Elsa Fornero riflette sullo scontro in atto intorno al disegno di legge che riscrive le regole sui licenziamenti, sui contratti flessibili e sugli ammortizzatori sociali.
E lancia un appello alle Camere: “Questo provvedimento potrà  anche subire qualche cambiamento, ma chiediamo che il Parlamento sovrano ne rispetti l’impianto e i principi basilari. In caso contrario dovrà  assumersi le sue responsabilità , e il governo farà  le sue valutazioni”.
Insieme al presidente del Consiglio Monti, il ministro del Welfare è al centro delle polemiche.
Dopo la riforma delle pensioni, anche quella del lavoro la vede in prima linea, a fronteggiare le critiche.
Come quelle di Susanna Camusso, che a Cernobbio ha contestato a Fornero le sue “lacrime di coccodrillo”. “Non lo nego, ci sono rimasta male. Io avevo espresso il mio rammarico per la rottura con la Cgil. Ero stata sincera. Mi dispiace che il mio rammarico e la mia sincerità  siano state giudicate con tanto sarcasmo”.
Distonie personali, che nascondono dissensi politici.
I sindacati contestano il metodo: con lo strappo deciso martedì scorso e ratificato venerdì in Consiglio dei ministri, Monti e Fornero hanno di fatto chiuso l’era della concertazione, relegando le parti sociali a un ruolo di semplice consultazione. Il ministro non nega la portata della svolta, ma la argomenta.
“La linea l’ha tracciata il presidente Monti: le discussioni con le parti sociali si fanno, e sono doverose, ma a un certo punto devono finire, e il governo deve trarre le sue conclusioni, anche se qualcuno non è d’accordo. Su questo, da parte nostra, c’è assoluta fermezza. Il fatto che il premier abbia ribadito che l’approvazione del disegno di legge avviene “salvo intese” ha un significato meramente tecnico. Vuol dire che ci riserviamo di scrivere le norme nel modo più chiaro e più completo possibile. Non vuol dire invece che su certe norme sia ancora in corso una trattativa. Non vuol dire che la discussione è ancora aperta, e che per un’altra settimana riparte la giostra, e qualcuno è ancora in tempo per salirci sopra. Il provvedimento è quello, e non cambierà  fino al suo approdo in Parlamento”.
Ma i sindacati (a questo punto non più solo la Cgil ma anche la Cisl, la Uil e la Ugl) contestano soprattutto il merito. Cioè la riscrittura dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che nella sua nuova versione esclude la possibilità  di reintegro in caso di licenziamenti per motivi economici oggettivi. Anche su questo punto, Fornero rinnova la linea della fermezza.
“Abbiamo il massimo rispetto per il Parlamento, che valuterà  il disegno di legge e deciderà  se e come cambiare. Ma per quanto riguarda il governo, è chiaro che non accetteremo modifiche che snaturino il senso delle singole norme. E sull’articolo 18 il senso della nostra riforma è chiaro: nei licenziamenti per motivi economici oggettivi è previsto l’istituto dell’indennizzo, e non quello del reintegro. Si possono fare correzioni specifiche, ma questo principio-base della legge dovrà  essere rispettato”.
È proprio questo, tuttavia, il punto di frizione e di rottura maggiore con la Cgil, e anche con il Partito democratico.
Il ministro del Welfare capisce, ma non condivide. “Io non voglio accusare nessuno, ci mancherebbe altro. Dico solo che il Pd si è più volte dichiarato disponibile a una “manutenzione” sull’articolo 18, anche se noi non abbiamo mai capito cosa questo significhi nella pratica. Quanto alla Cgil, non ci ha mai fatto controproposte… “.
Il leader della Uil Angeletti, tuttavia, nei giorni scorsi ha rivelato un retroscena che fa riflettere.
I tre sindacati insieme avevano presentato al premier un pacchetto completo e già  blindato, che anche per i licenziamenti economici (oltre che per quelli disciplinari) prevedeva il cosiddetto “modello tedesco”, cioè la facoltà  del giudice di decidere tra il reintegro e l’indennizzo del lavoratore.
Monti avrebbe rifiutato l’offerta, confezionando un pacchetto che in realtà , a conti fatti, scavalca addirittura “a destra” il modello tedesco.
Perchè questa forzatura?
Fornero racconta una storia diversa: “La Cgil non si è mai spinta fin lì – sostiene – e quanto al modello tedesco noi non scavalchiamo nessuno. Le norme scritte in una legge ordinaria si interpretano, l’articolo 18 non è scritto nella Costituzione. Il nostro provvedimento prevede espressamente che le aziende non possano ricorrere strumentalmente a licenziamenti oggettivi o economici che dissimulino altre motivazioni. In questi casi, se il lavoratore proverà  la natura discriminatoria o disciplinare del licenziamento, il giudice applicherà  la relativa tutela. Non solo: il presidente Monti, nella stesura definitiva del ddl, si è impegnato a evitare ogni forma di abuso in questa materia. Dunque, nessuna macelleria sociale. Non distruggiamo i diritti di nessuno”.
Per questo, secondo il ministro del Welfare, il Parlamento nell’esame del provvedimento dovrebbe rispettarne l’equilibrio.
“Noi siamo sereni. Pensiamo di avere dalla nostra la forza e la bontà  delle argomentazioni. Come sempre, avremmo voluto fare di più. Ma le assicuro che anche noi tecnici abbiamo un cuore, e sentiamo fino in fondo il disagio che pesa sulla vita di tante persone. Non è solo la Cgil ad avere una coscienza rispetto ai lavoratori, agli operai, ai giovani, ai disoccupati. Con questo disegno di legge, per la prima volta dopo tanti anni, cerchiamo di creare le condizioni per aumentare l’occupazione, rimettiamo mano agli ammortizzatori sociali”.
L’ampiezza dell’intervento c’è, in effetti. Ma non si può nascondere la pochezza delle risorse. Con meno di 2 miliardi non si fa molto, per ridisegnare un sistema di tutele universali per tutti coloro che finora ne sono stati sprovvisti.
“È vero – ammette Fornero – su questo le do ragione. Ai precari avremmo voluto dare di più, ma un po’ d’indennità  con la mini-Aspi gliel’abbiamo pur data. Tra niente e un po’, le chiedo, cosa è meglio? La verità  è che anche in questa riforma, come nelle altre che abbiamo fatto, abbiamo dovuto e dobbiamo tenere conto di tanti interessi contrapposti e di altrettanti opposti estremismi. In tanti, troppi dimenticano che il Paese è in grandissima difficoltà , e le risorse a disposizione sono davvero poche. Per alcuni la grande riforma del mercato del lavoro è abolire del tutto l’articolo 18, per altri è abolire tutti i contratti flessibili. Noi ci muoviamo su questo sentiero, che è molto, molto stretto”.
Il sentiero è stretto anche dal punto di vista politico.
Bersani si prepara a un braccio di ferro parlamentare per modificare il provvedimento, Alfano giudica indebolito il governo per via della scelta rinunciataria del disegno di legge.
“Un decreto legge – obietta Fornero – sarebbe stato una forzatura, data la vastità  dei temi contenuti nel provvedimento. Ci sono regole precise, sulla necessità  ed urgenza, e le regole non possono essere bypassate. La legge delega avrebbe rischiato di avere tempi persino più lunghi del ddl. Per questo abbiamo optato per quest’ultimo strumento. Ma guai se questo venisse letto come un cedimento, che consente ai partiti di fare melina, di allungare i tempi e di annacquare la riforma. Sarebbe un disastro per l’Italia, anche sui mercati”.
Dunque, la riforma va approvata in fretta, e non va depotenziata. Ammesso che sia una riforma “potente” e capace di creare posti di lavoro, e non una battaglia simbolica per abbattere un tabù, o peggio un pretesto offerto alle imprese per difendere la competitività  licenziando i lavoratori invece che aumentando gli investimenti.
Il ministro del Welfare non si sottrae, e dopo aver esortato il Parlamento si rivolge anche agli industriali: “Non mi aspetto certo licenziamenti di massa, come effetto della nostra riforma. Purtroppo mi aspetto i licenziamenti legati alla recessione, che già  c’erano prima e che continueranno ad esserci, perchè la crisi non è affatto finita. Ma proprio per questo rinnovo l’appello ai nostri imprenditori: non abusate della buona flessibilità  che la riforma introduce. Sarebbe il modo più irresponsabile di farla fallire”.

Massimo Giannini
(da “La Repubblica”)

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