OMICIDIO DI PALAZZO: BRUSCA TIRA IN BALLO MANCINO, LEGA E FORZA ITALIA
“C’ERA UN PEZZO DELLO STATO CHE TRATTAVA”….LE PAROLE DEL GIUDICE: “CHI MI UCCIDERA’ NON SARA’ LA MAFIA”
Mentre un gruppo di politici impauriti cercava rimedi per non essere ucciso, e le forze dell’ordine percorrevano la via del dialogo con chi aveva fatto saltare in aria un mese prima il giudice Falcone e la moglie su un chilometro di autostrada, un uomo in toga continuava a dare il senso di sempre al termine “lotta alla mafia”.
Dicendo “no”, in modo fermo e deciso, alla “dissociazione”, la via d’uscita da Cosa Nostra che il papello di Riina aveva ipotizzato, e molti politici e funzionari avevano accettato di discutere per placare la furia stragista. P
oco prima di essere assassinato, Paolo Borsellino discuteva con i funzionari della Dia del progetto di “dissociazione” dei mafiosi detenuti, manifestando apertamente la sua contrarietà ad un’ ipotesi che considerava “inammissibile”.
In particolare, il procuratore aggiunto di Palermo, pronunciandosi sull’iniziativa del boss Pippo Calò che, in carcere, si era fatto portavoce dei capi-mandamento sulla possibilità di prendere le distanze dall’associazione mafiosa, appariva addirittura “disgustato”.
Lo rivela in un lungo verbale del 5 novembre 2009 il pentito Gaspare Mutolo, spalancando per la prima volta il sipario su una delle ipotesi più inquietanti che si allungano dietro la strage di via D’Amelio.
Dice il pm Nicolò Marino: quello della dissociazione “è uno dei possibili moventi, dell’uccisione di Paolo Borsellino”.
Non è una novità da poco.
Nell’estate del ’92, a pochi giorni dal “botto” di Capaci, lo Stato valutava già la possibilità di stemperare la violenza dell’attacco di Cosa nostra con il varo di una normativa che, sulla scia di quanto già accaduto ai tempi del terrorismo, avrebbe consentito a numerosi detenuti mafiosi di ottenere benefici carcerari in cambio dell’abiura del vincolo di appartenenza all’organizzazione criminale, senza la necessità di accusare i propri complici.
La dissociazione, insomma, era già un orizzonte dello Stato trattativista, ben prima di quelle manovre che una decina d’anni dopo avrebbero impegnato il procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna nei colloqui investigativi con i boss provenzaniani.
Ma Borsellino – nei giorni in cui il generale del Ros Mario Mori, come annota lo stesso Mutolo “scendeva spesso a Palermo e aveva contatti all’interno di Cosa nostra per trattare”, considerava l’idea una follia.
“Il giudice appariva fortemente contrariato — sostiene Mutolo — e ripeteva che coloro che stavano solo pensando di accettare la dissociazione erano dei pazzi”.
Siamo al 1° luglio 1992.
La discussione, ascoltata per caso dal pentito, avviene a margine dell’interrogatorio al quale sono presenti i funzionari della Dia Francesco Gratteri e Domenico Di Petrillo. Quest’ultimo, sentito dai pm di Caltanissetta , conferma — a sorpresa – le clamorose affermazioni di Mutolo, ammettendo che “la dissociazione fu uno dei temi trattati in quel periodo”, e facendo risalire la propria conoscenza della questione proprio ai primi interrogatori di Mutolo.
“Ricordo — dice Di Petrillo – che (quel giorno, ndr) si parlò di dissociazione, in termini molto generici, e me lo ricordo perchè era un fenomeno che ho recepito in quanto materia affine a quella dell’antiterrorismo”.
L’ex procuratore aggiunto di Palermo Vitto-rio Aliquò, presente a quell’interrogatorio, appare più vago nel suo ricordo, ma non esclude “che nel corso dell’incontro con Di Petrillo si sia potuto parlare di qualcosa, ed in particolare della dissociazione di mafiosi”, anche se riguardo alla dissociazione, “luglio ’92 mi pare un po’ troppo prematura come data”.
E se l’allora capo della Dia Gianni De Gennaro (oggi al vertice del Dis, il dipartimento dei servizi segreti) e il suo braccio destro Gratteri escludono di aver mai sentito parlare del concetto di “desistenza”, per quanto riguarda i mafiosi, di diverso avviso è Edoardo Fazioli, che in quei mesi era vice-direttore del Dap guidato da Niccolò Amato. Fazioli ha dichiarato che nella seconda metà del ’92 si discusse all’interno del Dipartimento proprio della prospettiva di creare “aree separate di detenzione’ ‘ per mafiosi che avessero deciso di dissociarsi.
La dissociazione, insomma, era un argomento “caldo” che all’interno delle istituzioni, e ai massimi livelli, veniva discusso nel momento della massima offensiva di Cosa nostra contro lo Stato.
Del resto, lo stesso ministro della Giustizia Claudio Martelli ha descritto ai pm di Caltanissetta le “pressioni” ricevute nel ’92 da numerosi parlamentari — pur dopo l’attacco di Capaci — per “abbassare la guardia” e adottare una linea di contrasto più morbida.
Non troppo diversa la ricostruzione di Vincenzo Scotti, il ministro dell’Interno che diviene la vittima di un’improvvisa “rimozione” a fine giugno ’92, per far posto a Nicola Mancino, uomo della sinistra Dc (la stessa corrente dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino, indagato a Palermo per violenza e minaccia a corpo politico dello Stato, e ritenuto l’ispiratore della trattativa).
Rimozione dovuta, per lo stesso Scotti, proprio “alla lotta contro Cosa nostra ingaggiata col ministro Martelli”.
Rimozione dovuta, secondo la ricostruzione della procura di Palermo, alla necessità di posizionare al Viminale un uomo più malleabile per imprimere alla lotta alla mafia un orientamento più “morbido”.
La dissociazione, tra le richieste espressamente indicate nel “papello”, è dunque una delle chance che lo Stato intende giocare sul tavolo della trattativa, ed è un punto sul quale, con certezza, Borsellino oppose un netto rifiuto.
Quel “muro” di cui Toto’ Riina, a fine giungo ’92, si lamenta con Giovanni Brusca. Quel “muro” da “superare ad ogni costo”, con un altro “colpetto”, aggiungendo proprio che dietro la trattativa “c’è Mancino”.
Ma non solo.
Nelle sue ultime dichiarazioni, datate 8 febbraio 2011, infatti, Brusca tira fuori per la prima volta, i nomi dei politici che, secondo quanto gli avrebbe detto Riina, “si sono fatti sotto”, dopo Capaci, per trattare.
Si tratta di “contatti” istituzionali, che al capo dei capi avevano chiesto: “Per finire, cosa volete?”.
Brusca apprende da Riina che “a farsi sotto erano stati il movimento politico della Lega e un altro movimento politico, tramite Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri”. Un nome, quest’ultimo, mai fatto prima, perchè “si tratta di persone — dice Brusca — che ci avevano aiutato”.
Ministri, parlamentari, alti funzionari della Repubblica sono i protagonisti di una girandola di iniziative incrociate che — nell’infuocata estate del ’92 — si propongono di combattere la mafia stragista attraverso il dialogo.
Un uomo isolato, in toga, continua a camminare lungo i binari dello Stato di diritto, contando i giorni che lo separano alla morte.
Quell’uomo è Paolo Borsellino, costretto a fidarsi solo della moglie, alla quale affida tutta la sua disperazione.
“Chi mi ucciderà non sarà la mafia”, le rivela, alludendo al ruolo di “infedeli servitori dello Stato”.
Eppure il gip di Caltanissetta, a vent’anni da quella estate di sangue e di tradimenti, scrive oggi che non esistono prove che inchiodino responsabilità istituzionali a volto coperto, che “non esiste alcuna entità (servizi deviati, terzi o quarti livelli politico-criminali, organizzazioni terroristiche e via dicendo) in grado di imporre la sua volontà a Cosa nostra”.
E che “pertanto si può solo ipotizzare che, in determinate situazioni, l’organizzazione criminale mafiosa abbia ritenuto conveniente stipulare contingenti alleanze strategico-criminali con soggetti ad essa esterni, per un proprio esclusivo tornaconto”.
Niente mandanti esterni, insomma. Semmai, come dice Piero Grasso, solo “concorrenti”.
Borsellino muore, il 19 luglio 1992, consapevole dell’arrivo del tritolo, in quella via D’Amelio dove nessuno aveva pensato di istituire una “zona rimozione” per tutelare la sua vita. Muore tradito da un amico, forse in divisa.
Muore davanti al palazzo dove abita uno dei suoi carnefici, quel Salvatore Vitale che è tra i destinatari dell’ordinanza di custodia cautelare, che lo descrive come la “talpa” delle cosche.
Muore solo e di sola mafia.
Fino a prova contraria.
Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
(“da “Il Fatto Quotidiano“)
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