Gennaio 22nd, 2013 Riccardo Fucile
CENTROSINISTRA IN VANTAGGIO IN CAMPANIA E PUGLIA, CENTRODESTRA IN LOMBARDIA, VENETO E SICILIA: MA I DIVARI SONO MINIMI
Come ormai tutti gli osservatori hanno riconosciuto, l’esito delle prossime elezioni si giocherà sul numero dei seggi senatoriali assegnati a questo o a quel partito.
Per ciò che riguarda la Camera dei deputati, infatti, il responso delle urne è sin qui netto: la coalizione di centrosinistra ottiene in tutti i sondaggi di opinione la netta maggioranza.
È vero che il centrodestra di Berlusconi appare, in queste ultime settimane, in ascesa – anche se secondo alcuni il trend si è esaurito – ma la distanza che lo separa dal centrosinistra è a tutt’oggi ancora relativamente ampia, tale da essere difficilmente recuperata (anche se, come suggerisce Ricolfi su La Stampa di ieri, forse una quota di elettori «nasconde» la propria preferenza per il Cavaliere, che quindi sarebbe sottostimato nei sondaggi).
In questo momento è comunque ragionevole ipotizzare che Bersani conquisterà il ricco premio di maggioranza (55% dei seggi) che la legge elettorale assegna a chi raccoglie il maggior numero di consensi.
Mentre per il Senato, come si sa, il meccanismo è completamente diverso e prevede l’attribuzione del premio di maggioranza su base regionale: chi vince in ciascuna Regione (con l’esclusione di Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Molise) ottiene il premio (più o meno ampio a seconda della popolazione e, quindi, dei seggi senatoriali attribuiti) di quella regione.
Accumulando così seggi in Senato.
Il numero di questi ultimi dipende dunque dal numero di Regioni che si conquistano, con le più popolose che contano di più.
I seggi decisivi
Bersani ha affermato di puntare alla vittoria in tutte le Regioni, in modo da assicurare alla sua coalizione la maggioranza di seggi anche in Senato.
Si tratta di un evento possibile, ma tutt’altro che certo: è vero che in alcune regioni la vittoria del centrosinistra è praticamente sicura, ma in diverse altre l’esito è più indefinito o appare in questo momento favorevole al centrodestra.
Di qui la grande importanza, agli effetti del risultato finale, della competizione nelle regioni che tuttora «in bilico» e che sono in buona misura anche quelle che assegnano più seggi.
Alcune sono tradizionalmente appannaggio del centrodestra, come il Veneto. Effettivamente questa regione vede ancora la coalizione di Berlusconi in vantaggio. Ma il divario si è ridotto in queste ultime settimane, a causa, probabilmente, dell’accordo Lega-Pdl.
Fino a qualche tempo fa, la differenza tra centrodestra e centrosinistra era molto ampia, secondo alcuni, pari al 10% e anche più.
Ma, di recente, si è manifestata un’insofferenza di una quota di elettori leghisti nei confronti del partito, a causa dell’alleanza con il Pdl.
Ciò che ha portato alcuni a disertare il Carroccio e ad orientarsi verso altre liste. L’effetto è che oggi la distanza in Veneto tra centrodestra e centrosinistra risulta pari a meno di 4 punti.
Il dato è sostanzialmente confermato anche da una rilevazione in corso da parte di Ilvo Diamanti (al quale, sembra, emerge una differenza ancora più modesta) e da un sondaggio (citato dal Gazzettino Veneto di venerdì e confermato dallo stesso Maroni) della Swg che stima il divario centrodestra/centrosinistra relativamente esiguo. Malgrado questo trend, comunque, appare altamente probabile che i 14 seggi (comprensivi del premio di maggioranza) del Veneto siano assegnati al centrodestra.
Ciò rende ancora più rilevante la lotta in altre tre regioni molto popolate quali la Campania, la Sicilia e la Lombardia.
Nella prima il centrosinistra è avanti, benchè, anche qui, secondo alcuni istituti, il divario sia relativamente modesto.
La rilevazione Ispo lo colloca a poco più del 4%. Ma quella Ipsos del Sole 24 Ore dell’8 gennaio la limita a 2 punti percentuali.
La stessa distanza stimata in questi giorni da Euromedia.
Allo stato attuale, dunque, i 16 seggi campani (comprensivi, anche in questo caso, del premio di maggioranza) dovrebbero andare al centrosinistra. Ma la competizione è aperta.
La sfida nell’isola
In Sicilia la lotta appare ancora più serrata.
Secondo la nostra rilevazione, il centrodestra è avanti di 1 punto. Ma è necessario ricordare nuovamente che, in questo genere di sondaggi, vi è un margine di approssimazione statistica superiore a questo divario.
Appare dunque arduo effettuare una stima.
Anche i sondaggi degli altri istituti hanno risultati variabili e con differenze di consenso tra i due schieramenti egualmente modeste.
Ipr colloca il centrosinistra davanti per solo mezzo punto (34% vs 33,5%).
Ed Euromedia li stima alla pari (31,4 per il centrosinistra e 31,6% per il centrodestra). Molto dipenderà dalla partecipazione al voto.
Che, per vari motivi, è stata assai modesta alle ultime regionali (che hanno visto la vittoria del centrosinistra), ma che dovrebbe essere maggiore per le prossime politiche, anche a causa del clima di mobilitazione che sembra caratterizzare l’isola e della attrazione esercitata da alcune liste di natura prevalentemente locale.
Tutto ciò comporta l’impossibilità di assegnare oggi il premio di maggioranza (ben 9 seggi).
Il margine ridotto
Sulla Lombardia – che distribuisce complessivamente ben 49 seggi sui 315 complessivi del Senato e che quindi è determinante nella formazione delle maggioranze – i sondaggi sono altrettanto contraddittori.
Secondo la nostra rilevazione, il centrodestra è in vantaggio di circa 2 punti (poco meno di quanto rilevato una settimana fa), ottenendo quindi i decisivi 27 seggi senatoriali.
Ma, tenendo conto anche qui del margine di approssimazione, la distanza risulta assai modesta.
Tanto che le due coalizioni vengono invece stimate alla pari da quasi tutti gli altri istituti di ricerca (Ipsos, Ipr, Euromedia, Lorien).
A meno di improvvisi colpi di scena, qui la competizione si giocherà all’ultimo voto. Conteranno in particolare i voti di quanti dichiarano tutt’ora di essere indecisi.
Non a caso, la Lombardia è stata definita l’Ohio italiano.
Si può probabilmente affermare che l’esito di questa regione determinerà o meno la maggioranza per il centrosinistra al Senato.
Vale la pena, infine, di considerare il caso della Puglia, anche se in questa regione il vantaggio del centrosinistra pare più netto: quasi 4 punti percentuali.
Secondo diversi osservatori, infatti, anche qui il divario è troppo esiguo da dare certezze.
In conclusione, la situazione complessiva del Senato appare oggi ancora molto incerta. Diversi elementi inducono a pensare che per Bersani non sarà facile godere di una maggioranza autonoma.
Renato Mannheimer
(da “il Corriere della Sera“)
argomento: elezioni | Commenta »
Gennaio 22nd, 2013 Riccardo Fucile
L’APPELLO A PORTARE I FINANZIAMENTI ALL’1,9% DEL PIL… IN USA AL 2,8 E NELL’AREA OCSE AL 2.38
Mettiamo il caso che Harvard fosse in Italia… «Magari!», direte voi. 
Mettiamo comunque che fosse in Italia: avrebbe senso fissare un tetto massimo ai suoi progetti di ricerca per dare soldi anche agli atenei di Baroniate o Villaclientela?
È quanto chiede una dura petizione firmata da 2.067 docenti e ricercatori. Affiancati da un secondo documento firmato dai presidenti dei maggiori istituti scientifici che sferza tutti i politici: si impegnino a dare alla ricerca almeno l’1,91% del Pil.
Cioè quanto la media europea tra la Finlandia e Cipro.
Obiezione: ma c’è la crisi!
Lasciamo rispondere a Obama: «C’è chi dice che non possiamo permetterci di investire in ricerca, che sostenere la scienza è un lusso quando bisogna dare priorità a ciò che è assolutamente necessario. Sono di opinione opposta (…). Per reagire alla crisi oggi è il momento giusto per investire molto più di quanto si sia mai fatto».
Risultato: oggi l’America mette nella ricerca il 2,8% del suo Pil, contro l’1,26 dell’Italia.
E in Germania la Merkel ha lanciato la «Exzellenzinitiative» incrementando i fondi per la ricerca, in cinque anni, di 10 miliardi di euro.
Spiega una tabella elaborata su dati Ocse da Federico Neresini, curatore dell’Annuario scienza e società , che i Paesi che più investono in questo settore coincidono con quelli che meglio reggono all’urto dei colossi della manodopera a basso costo come Cina o India: se noi abbiamo 4 ricercatori ogni 1.000 occupati (la metà dell’Europa allargata: 7) la Norvegia ne ha 10,1, la Svezia 10,9, la Danimarca 12,6, la Finlandia e l’Islanda 17…
Lo stesso studioso dimostra che se dal 1981 al 1990, nella vituperata Prima Repubblica, siamo passati dallo 0,85% all’1,25 del Pil, da vent’anni non ci schiodiamo da quella miserabile percentuale.
E intanto, mentre facevamo i bulli ai vertici G7, gli altri acceleravano.
E gli Usa come detto salivano al 2,8% del Pil fornito alla ricerca, l’Europa dei 15 a 2,08, la Germania al 2,84, il Giappone al 3,26, la Svezia al 3,37, i paesi dell’Ocse al 2,38: il doppio di noi.
Non bastasse, per ogni euro che mette nel salvadanaio europeo destinato alla ricerca, l’Italia riesce a recuperare solo 60 centesimi a causa dei micidiali marchingegni burocratici: ogni progetto richiede una relazione in inglese di un centinaio di pagine con il prospetto delle spese, delle persone impegnate, dei carichi fiscali, delle combinazioni tra queste e quella legge nazionale e poi la privacy, l’impatto ambientale, le quote rosa…
Direte: sono problemi anche degli altri. Giusto, ma le migliori università europee (ce ne sono 39 nelle prime 100 della classifica mondiale Time Higher Education e Qs: nessuna italiana) sanno che per Einstein o Majorana certe difficoltà burocratiche potrebbero essere insuperabili e sgravano i loro ricercatori da questi impicci di commi e codicilli.
Noi no: ognuno deve fare da sè e conoscere sia la meccanica quantistica sia il decreto legislativo 626/’94 per la sicurezza sui luoghi di lavoro…
È in questo contesto che quei duemila docenti hanno scritto al governo contestando i criteri con cui saranno distribuiti i (pochi) soldi a disposizione della ricerca universitaria con il bando 2012 dei «Prin», Progetti di rilevante interesse nazionale.
Cioè «una delle poche fonti di finanziamento accessibili agli studiosi per sviluppare liberamente le proprie ricerche e pubblicarne i risultati».
Secondo loro questi criteri sono infatti di «inaudita gravità » per vari motivi.
Primo fra tutti: la legge prevede che la selezione nazionale dei progetti meritevoli di essere finanziati sia preceduta da una «preselezione» fatta al proprio interno da un comitato nominato in ogni università dal rettore.
Procedura che, tradotta dal linguaggio «buro-accademico», consentirebbe a certi rettori di dare spazio ai loro famigli sbarrando la porta a eventuali geni ribelli.
Per non dire di un altro criterio: i progetti scelti per essere girati alla valutazione finale di Roma devono tener conto non solo degli aspetti scientifici ma anche degli «”aspetti di natura strategica”, vale a dire politica o d’immagine, come le “possibili ricadute in termini di visibilità , attrattività , competitività internazionale” dell’ateneo o le eventuali “interazioni con soggetti imprenditoriali”».
Traduzione: e se certe università , scartando il leopardiano «Dialogo di Malambruno e Farfarello» preferissero uno studio sui dialoghi tra Fiorello e Marco Baldini per finire sui giornali e attrarre più studenti incuriositi dagli studi «frizzanti»?
Punto sul vivo, il ministro dell’Università e della ricerca Francesco Profumo risponde ricordando non solo di essersi impegnato nel ripescare le risorse inutilizzate del 2010 «firmando un bando Prin per 175 milioni (che recuperava tutte le risorse 2010 e 2011) e uno Firb (fondo investimenti ricerca di base) per altri 58 milioni e mezzo».
Ma insiste spiegando che la preselezione è necessaria per velocizzare le procedure riducendo «il numero dei progetti da sottoporre alla valutazione centrale (che due anni fa ha richiesto quasi due anni)» e spingere «le singole università a lavorare per operare una sintesi dei progetti che, a parità di punteggio assegnato dagli esperti Cineca, eviti il più possibile le disparità tra le diverse discipline di ricerca».
Il tutto in linea con la «responsabilizzazione della singola università ».
Quanto alla scarsità di soldi, proprio per le «incomprimibili esigenze di ogni comparto della pubblica amministrazione a partecipare solidalmente alla riduzione del debito» ha «voluto assegnare un numero maggiore di risorse attraverso bandi competitivi» per «allenare» i ricercatori in vista dell’«appuntamento del 2014, quando comincerà la partita serrata per guadagnarsi le ingenti risorse messe a disposizione dall’Europa, quasi 80 miliardi di euro».
Rispondono i promotori della contestazione, come Vittorio Formentin dell’Università di Udine, che in ogni caso per il 2012 sono stati stanziati (tra Prin e Firb) 69 milioni contro i 196 del 2009 e proprio il richiamo all’Europa è una plateale contraddizione.
«Ho contribuito anch’io a fare le regole dell’European Research Council alle quali Profumo si richiama e posso assicurare che dalle altre parti non funziona così – conferma Salvatore Settis, che sedeva tra i 21 membri del consiglio con un altro italiano, Claudio Bordignon –.
Mettere un tetto ai progetti che una università può proporre è una pazzia.
A nessuno verrebbe mai in mente, in America, di stabilire che Yale o Princeton possono avere al massimo 41 o 76 progetti perchè poi bisogna finanziarne 12 di un ateneo dell’Oregon e 16 di uno dell’Arkansas.
Se paradossalmente meritassero di fare bottino pieno farebbero bottino pieno. Contano solo le eccellenze. I migliori vincono. Punto».
«L’Italia sta facendo l’esatto contrario di quanto facciamo in Europa», ribadisce Bordignon, «L’Erc ha avuto un successo enorme distribuendo 7 miliardi e mezzo in sette anni proprio perchè non ha mai sacrificato e non sacrificherà mai un solo progetto alle esigenze distributive».
Per capirci: fermo restando che ogni università nostrana, anche nella più sperduta delle balze prealpine o del Sud profondo può ospitare giovani straordinari che magari hanno intuizioni straordinarie da sviluppare, ha senso stabilire a priori che la Sissa di Trieste può preselezionare al massimo 11 progetti e l’«Aldo Moro» di Bari 33 oppure la scuola superiore Sant’Anna di Pisa 5 e l’Università del Molise 6 e la «Insubria» varesina 8?
Siamo sicuri che dietro questa logica più che l’obiettivo di dare spazio alle eccellenze non ci sia quello di spartire una povera pagnotta rinsecchita dando una briciola a testa?
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera”)
argomento: Lavoro | Commenta »
Gennaio 22nd, 2013 Riccardo Fucile
L’AZIENDA A TECNICI E PARTITI: “SE CHIUDIAMO È COLPA DEI GIUDICI”… IL PD CHIEDE AL PROCURATORE DI CANDIDARSI, MA LUI RISPONDE NO
Tutto, per il momento, torna alla normalità a Taranto.
Città dell’acciaio, dei due mari e della realtà capovolta.
Perchè qui chi chiede lavoro ha torto, chi invoca il diritto a non essere avvelenato da polveri e fumi deve tacere, chi cerca di imporre il rispetto della legge anche ad un colosso dell’economia nazionale viene ammonito al rispetto di norme fragili e contraddittorie.
E chi invece è accusato di aver avvelenato l’aria e la terra, l’acqua e il cibo fino a provocare malattie e morte, alla fine ha ragione su tutti ed impone una sola verità . La sua.
Perchè l’Ilva dà lavoro e pane, è il pilastro dell’economia della Puglia e l’acciaio è una produzione strategica per l’Italia intera.
E poi c’è la campagna elettorale, le piazze aperte, il potere che chiede nuove legittimazioni: non si può andare alle urne con 12mila famiglie senza stipendio , esasperate e l’incubo che chiuda tutto, Taranto, Genova e le altre città dell’acciaio. E allora lo sciopero è sospeso, il lavoro riprende nel-l’attesa di nuovi eventi.
Il vertice di venerdì sera a Palazzo Chigi con Monti, i ministri, i sindacati, la Regione, il Comune, la Provincia e l’Ilva, ha partorito un topolino di pericolose ovvietà .
La legge, quella approvata alla vigilia di Natale che autorizza l’Ilva a produrre utilizzando il materiale sequestrato dalla magistratura, va rispettata da tutti.
Ma il discorso è rivolto unicamente ai pubblici ministeri che il 26 luglio bloccarono 1 milione e 700mila tonnellate di coils e lamiere, perchè pro-dotte violando le norme che tutelano ambiente e salute.
“Solo con la completa applicazione della legge anche da parte della magistratura, e il conseguente sblocco dei lavorati e semilavorati ancora sotto sequestro, l’Ilva sarà in grado di rispettare i propri impegni a cominciare dal pagamento degli stipendi”, ammonisce il colosso genovese.
Che l’azienda non abbia ancora messo mano agli impegni imposti dalla nuova Aia (autorizzazione ambientale), sembra non interessare nessuno.
Dove sono i 4 miliardi che l’Il-va deve investire per “ambientalizzare” lo stabilimento e fare in modo che le emissioni di fumi e polveri non uccidano Taranto e i tarantini?
Nessuna risposta: tutti recitano il man-tra del rispetto della legge.
Il ministro Corrado Passera lo fa con un “cinguettìo” su twitter. “Sul blocco dei prodotti finiti e semilavorati, i magistrati stanno sbagliando. Non si difende così lavoro e ambente”.
Il ministro dell’Ambiente Corrado Clini, invece, si fa minaccioso. “La legge va rispettata, mi sembra che sia un modo educato ma molto fermo per ricordare gli obblighi che tutti hanno. Magistrati compresi”.
E tutti fanno finta di non sapere che il 13 febbraio la Corte costituzionale dovrà decidere sul conflitto di attribuzione aperto dai magistrati tarantini.
Se si riconsegnano gli impianti dell’area a caldo e si rende utilizzabile il materiale sequestrato consentendo la produzione, si dice in sintesi nel ricorso, si impedisce l’esercizio dell’azione penale e si interferisce con una indagine ancora in corso.
Tutti dimenticano che a giorni la gip Patrizia Todisco dovrà dire un sì o un no sul sequestro di coils e lamiere. Forse la decisione arriverà già domani.
Cosa accadrà martedì, quando si riunirà di nuovo il consiglio dei ministri per decidere su Taranto, e mercoledì quando il ministro Clini sarà in città , nessuno è in grado di prevederlo. Tutti puntano gli occhi sul palazzo di giustizia. Inutile chiedere lumi al procuratore Franco Sebastio.
“Non dico una parola”, ci risponde. E liquida con un sorriso un commento alla notizia di un suo no alla richiesta di candidatura che gli sarebbe arrivata dal Partito democratico.
Sulle rive dello Jonio si sta giocando una partita durissima.
”Se la magistratura proseguisse con questo atteggiamento non sarebbe una nostra scelta quella della chiusura ma una conseguenza dell’atteggiamento della Procura”.
Lo dice Bruno Ferrante, il presidente dell’Ilva. E’ stato un prefetto, il numero due della Polizia, sa quanto sono delicati gli equilibri tra i poteri dello Stato.
Nella grande inchiesta sull’Ilva è imputato di reati gravissimi insieme a tutto il vertice del colosso siderurgico.
I pm che “devono rispettare la legge altrimenti chiudiamo” gli contestano di non aver impedito la diffusione di “una quantità imponente di emissioni fuggitive nocive in atmosfera con grave pericolo per la salute pubblica”. Ipa, benzo(a)pirene, diossine, metalli, responsabili di “malattie e morte nei quartieri vicini allo stabilimento”, causa di “contaminazione” dei terreni e di avvelenamento da diossine di alimenti e capi di bestiame.
Succede a Taranto, dove ci sono due mari e una realtà capovolta.
Enrico Fierro
(da “il Fatto Quotidiano“)
argomento: Giustizia, Lavoro, sanità | Commenta »