Gennaio 4th, 2013 Riccardo Fucile
UDC, FLI (CON I PROPRI SIMBOLI) E “SCELTA CIVICA CON MONTI” ALLA CAMERA… LISTA UNITARIA AL SENATO…I CRITERI DI CANDIDABILITA’ SARANNO MOLTO SEVERI
Mario Monti, con un gesto agile e 45 minuti di ritardo rispetto all’orario fissato (le 18), toglie il drappo di broccato rosso che nasconde il simbolo con il nome della lista nata dalla galassia di forze politiche e civiche che lo sostengono.
Alla presenza di un centinaio di giornalisti accreditati e decine di troupe televisive assiepate nel romano hotel Plaza, luogo simbolo dei socialisti craxiani, ecco infine svelato l’arcano.
Si chiama “Scelta civica con Monti per l’Italia” il simbolo scelto dal Professore per gareggiare alle prossime elezioni politiche.
Graficamente essenziale: sfondo bianco, nastro tricolore e scritta in stampatello. Il logo è stato ideato dalla stessa agenzia pugliese, la Proforma, che cura la comunicazione di Nichi Vendola.
La lista al Senato sarà unica e non avrà la scritta “scelta civica” ma solo “con Monti per l’Italia”, mentre alla Camera ce ne saranno tre in coalizione fra loro.
Una, composta da esponenti della società civile, che non includerà parlamentari, con il logo di Monti nella sua dicitura completa.
Le altre due rispettivamente di Fli, con il nome Fini, e Udc, con il nome Casini.
Le liste centriste di Casini e Fini dovranno dunque correre senza il simbolo di Monti in calce sulla scheda.
Monti, che al Plaza si presenta da solo senza l’accompagnamento degli altri leader centristi, chiarisce poi che nei prossimi giorni saranno comunicati i criteri di candidabilità a cui saranno tenuti coloro che vorranno candidarsi nelle sue liste, criteri che “saranno più esigenti rispetto alla normativa attuale”.
Il premier uscente sottolinea che i criteri saranno riferiti a “condanne e processi in corso, conflitti di interesse, antimafia, limiti legati all’attività parlamentare pregressa con massimo due deroghe per ciascuna lista”.
La conferenza stampa si chiude dopo appena dieci minuti, senza che il Professore dia la possibilità ai giornalisti di porre domande.
Ma un tweet sul profilo del premier annuncia che domani alle 11 Monti risponderà “live” via Twitter alle domande.
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Gennaio 4th, 2013 Riccardo Fucile
IL “GRANDE SUD” CON PDL E LEGA PER RESTARE IN PARLAMENTO… QUEL MICCICHE’ CHE POCHI MESI FA I GRANDI STRATEGHI DI FLI AVEVANO APPOGGIATO COME CANDIDATO GOVERNATORE DELLA SICILIA
Il presidente della Regione Campania, Stefano Caldoro conferma che il partito di Gianfranco Miccichè “Grande Sud” sarà alleato di PdL e Lega Nord alle prossime politiche: “Stiamo decidendo e ci saranno altre riunioni nei prossimi giorni”.
Alleati del Carroccio, nessuna contraddizione?
“La Lega esprime una legittima difesa del territorio del Nord, ma secondo me sbaglia le proposte, come quella di trattenere il 75% delle imposte pagate dai cittadini lombardi sul territorio non sta in piedi e non è utile al Paese”.
Sui nomi Caldoro non si sbilancia ma già spunta il nome di Clemente Mastella che ha partecipato alla riunione insieme al segretario del PdL Angelino Alfano, il Presidente della Regione Calabria Giuseppe Scopelliti e lo stesso Miccichè: “Io non discuto, poichè chi ci starà riterrà di starci, chiaramente noi (i presidenti di regione in carica, ndr) daremo una mano ma non saremo coinvolti direttamente però stiamo qua a discutere di un’offerta politica migliore”
Candiderete voi Marcello Dell’Utri, dopo che sia Berlusconi che Alfano hanno dichiarato che non sarà ricandidato?
“Va bene, buona giornata” dice Caldoro allontanandosi .
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 4th, 2013 Riccardo Fucile
SUA LA CANZONE “A SERGIO”, DEDICATA A RAMELLI
Rispetto. Dolore e rispetto.
È questa la reazione degli amici di Roberto Scocco alla notizia della sua morte.
Roberto, noto a destra per le sue ballate alternative negli anni Settanta, è stato trovato morto un una torretta di Villa Lauri, a Pollenza, nelle Marche, terra di cui era originario: si sarebbe sparato con un fucile da caccia.
Poco prima, non lontano dalla villa, era stato ritrovato il suo furgone Doblò, all’interno del quale c’era anche il suo cellulare.
Roberto, che i giornali definiscono pubblicitario, ma che era soprattutto cantautore e poeta, era nato il 23 dicembre 1956 e gestiva il castello Pallotta di Caldarola.
La moglie e il fratello ne hanno denunciato la scomparsa in Questura perchè mancava da due giorni e sono così iniziate le ricerche.
Roberto lascia due figli e di 5 e 7 anni.
Da sempre impegnato in politica, a destra, dopo la svolta di Fiuggi si era candidato con la Fiamma tricolore alle comunali e in Regione.
Negli anni Settanta i giovani missini ascoltavano le sue canzoni in musicassetta, tra le quali “A Sergio”, dedicata a Sergio Ramelli, il giovane assassinato a sprangate dall’ultrasinistra a Milano, “La vendetta della civetta”, e soprattutto “Contadino”, uno dei suoi primi brani, nel quale auspica un recupero del rapporto tra l’uomo e la natura.
Ha partecipato ai campi Hobbit, i raduni della giovane destra, sempre negli anni Settanta, fu esponente del Fronte della Gioventù di Macerata, teneva concerti fortemente caratterizzati. Aveva anche un’impresa di grafica pubblicitaria e organizzava eventi e iniziative culturali.
A detta dei suoi amici, non era tipo da fare quel che ha fatto, perchè aveva una visione scanzonata e ottimistica della vita, scherzava sempre.
Fu lui l’autore della parodia dell’Avvelenata di Francesco Guccini, un cult del gruppo rautiano del Msi, modificata in funzione politica con i nomi di allora.
Diceva cose tipo “boia chi molla è il motto della colla”, e così via…
Ma non sempre scherzava.
Ultimamente aveva scritto così: «Ho lavorato sempre e tanto ma ho anche coltivato molte passioni cercando di non lasciare niente indietro…adesso non è il massimo ma vado avanti lo stesso e mi sento sempre più una roccia in mezzo alla tempesta…o uno scoglio?».
Antonio Pannullo
(da “il Secolo d’Italia“)
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Gennaio 4th, 2013 Riccardo Fucile
LOTTA INTERNA CON DELLA VEDOVA CHE VORREBBE IL LISTONE UNICO CON MONTI ED EVITARE DI FARSI CONTARE… NEL MIRINO GLI AFFARI FINANZIARI DI BOCCHINO
Anche se Benedetto Della Vedova dice che non ci sarà alcun problema nel superare la soglia di sbarramento, in realtà la preoccupazione dentro Futuro e Libertà per l’Italia è altissimi.
Fli sta raccogliendo le firme per presentarsi alla Camera in sostegno di Monti insieme con altre tre liste (al Senato ci sarà un’unica lista), ma la tentazione di lasciar perdere e finire dentro la grande lista dell’Agenda del Professore è tanta.
Anzi, tantissima.
Contarsi, per i finiani, sarà veramente un problema stavolta.
Dentro il partito è un braccio di ferro continuo.
Da una parte Italo Bocchino, che non vuole abbandonare il fortino, dall’altra Benedetto Della Vedova, uomo molto apprezzato da Monti, che da tempo medita la fusione in un nuovo centro che il presidente del Consiglio del governo dimissionario in questo momento rappresenta.
Intanto l’altro ieri Fini ha tolto le delega a Bocchino e si è ripreso tutti i poteri.
Il deputato campano è il vero ostacolo a un apparentamento definitivo con Monti.
I suoi trascorsi mettono in difficoltà i revisori dei curricula per l’Agenda. Moavero, Toniato e, soprattutto, Enrico Bondi hanno in mano un dossier su di lui.
All’interno c’è il sequestro da parte della Procura di Roma di 2,5 milioni di euro di contributi al quotidiano Il Roma e un immobile di simile valore.
A questo si aggiunge il capitolo Finbroker, società finanziaria con sede a San Marino che nel 2001 versò allo stesso quotidiano più di 2 miliardi, probabilmente per risanare i conti.
Nel dossier Fli in mano a Bondi si parlerebbe, infine, di una cena tra Alfredo Vito, mister 100.00 preferenze, e Fini in un ristorante romano lo scorso 19 dicembre.
Cena, dicono, organizzata dal deputato finiano.
(da “il Portaborse”)
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Gennaio 4th, 2013 Riccardo Fucile
LEGGERE FLESSIONI PER PD E PDL, CROLLA GRILLO, NON SFONDA MONTI… COALIZIONE CSX AL 42%, COALIZIONE CENTRODESTRA+ LEGA 30%
Il 2013 inizia nel migliore dei modi per Pierluigi Bersani.
Il primo sondaggio del nuovo anno, realizzato da Nicola Piepoli a Capodanno e pubblicato in esclusiva da Affaritaliani.it, vede il Partito Democratico stabilmente in testa con il 33% dei voti (solo lo 0,5% in meno rispetto alla rilevazione del 17 dicembre).
Sinistra Ecologia Libertà ferma al 6%.
Altri di Centrosinistra al 3%.
Totale della coalizione guidata dal leader del Pd 42%.
Il Popolo della Libertà è stabile al 17% (era al 17,5), ma a questo dato andrebbero aggiunti i 2 punti raccolti dalla nuova formazione Fratelli d’Italia di La Russa, Meloni e Crosetto.
La Destra di Storace è in rialzo al 3%.
Totale della coalizione di Berlusconi 24%.
La Lega Nord, che in questo momento viene identificata come forza autonoma, si attesta al 6%.
Deludente avvio di 2013 per il presidente del Consiglio.
Il raggruppamento che fa capo a Mario Monti (Udc, Fli, Montezemolo e appunto la lista del premier) non va oltre il 12%.
Continua il crollo del Movimento 5 Stelle, che si attesta all’11% rispetto al 14 di due settimane fa.
Infine la lista Ingroia premier (più altri e la sinistra estrema) vale attualmente il 5%.
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Gennaio 4th, 2013 Riccardo Fucile
IL PD HA CAMBIATO PELLE, E’ DIVENTATO “UN PARTITO ALL’AMERICANA”…E RENZI COSTITUIRA’ UN ARGINE AL MONTISMO
L’intesa tra Bersani e Renzi non è (solo) un’operazione di immagine e di potere, e non è (solo) una mossa mediatica in vista della campagna elettorale.
Da ieri il Pd ha cambiato pelle, è diventato – per usare le parole del sindaco di Firenze – «un partito all’americana», dove «il timone è nelle mani di Pier Luigi, mentre io darò una mano».
È il suggello della sfida alle primarie, un punto di partenza e anche di arrivo, perchè chi è uscito sconfitto dalla sfida per la premiership accetta di collaborare con il candidato per Palazzo Chigi.
Ma al tempo stesso il patto pone fine «alle vecchie saghe», alla stagione dei complotti che hanno dilaniato in passato il centrosinistra.
«Mettermi contro Bersani sarebbe ridicolo», spiega Renzi.
E non è (solo) per una questione di «credibilità e di lealtà » che si pone al fianco del segretario.
C’è una evidente convergenza di interessi tra i due, tra chi cioè si gioca le proprie carte nei prossimi mesi e chi mira ad avere le stesse chance nei prossimi anni.
Perciò Bersani ha invitato l’altro ieri a colazione il «rottamatore», che si è detto pronto a pagare il conto, «a patto che tu mi spieghi la metafora del tacchino sopra il tetto», pronunciata dal segretario del Pd durante il confronto in tv per le primarie.
Davvero Renzi stenta a comprendere «il bersanese», tanto che più volte – durante la conversazione – ha dovuto interrompere l’interlocutore: «Aspetta Pier Luigi, scusami. Questa non l’ho capita».
Epperò su un punto i due si sono subito intesi, quando il leader dei democratici ha chiesto al sindaco di Firenze di mobilitarsi: «Lo devi fare nell’interesse della ditta».
La parola «ditta» ha sempre fatto storcere il naso a Renzi, e non solo per una questione semantica.
Tuttavia il messaggio era comprensibile.
A Bersani serve «un argine al montismo» – così ha detto – in campagna elettorale, e l’ex sfidante – che alle primarie ha incarnato la novità – è attrezzato alla guerra di frontiera: «Matteo, fatti sentire sui temi dell’innovazione».
Renzi ha accettato, andrà in tv e nelle piazze, pronto a riproporre alcuni punti del programma con cui lanciò la sfida per palazzo Chigi al segretario: «Anche perchè certe cose che Monti ha inserito nel suo documento, le ha riprese dal mio. E non erano di Ichino…».
Il passaggio del giuslavorista democratico nelle file del premier uscente è stato al centro di commenti poco lusinghieri durante il pranzo, ed è proprio a Ichino che Renzi avrebbe più tardi indirizzato pubblicamente una frecciata, sostenendo che «c’è troppa gente abituata a scappare con il pallone quando perde. Io no».
Ma quando il professore se n’è andato con il Professore, Bersani ha intuito il progetto politico e mediatico che si celava dietro l’operazione, il tentativo di relegarlo nel recinto di un vetero-laburismo condannato all’attrazione fatale con la sinistra estrema, l’idea di dare in Italia e all’estero l’immagine di una coalizione e di un candidato premier «unfit» per palazzo Chigi.
Il «rottamatore» serve proprio a rompere quello schema, e lui sa che la sua funzione sarà quella di «strappare voti nel campo avverso», cercando di drenarli «a Monti e a Berlusconi»: «Perchè così si vince».
Con Renzi in campo il segretario del Pd lancia un messaggio al premier che mira a «silenziare le estreme», prefigurando quasi una spaccatura del fronte democratico dopo le elezioni.
Con il patto di ieri, invece, un partito «all’americana» è un partito che non si rompe, è un modo – secondo Bersani – per far capire che «non c’è e non ci sarà nessuna ipotesi di scissione nel nostro schieramento, tantomeno nel nostro partito».
Una tesi ribadita dal sindaco di Firenze, che giura di non volere incarichi nè di fare il capocorrente, e che tuttavia ha garantito sulla lealtà dei suoi parlamentari: «Saranno più bersaniani di Bersani».
Certo, se da una parte l’intesa di ieri consente di consolidare quel patrimonio accumulato con le primarie, dall’altra c’è il rischio che i messaggi renziani finiscano per alimentare tensioni con l’ala «sinistra» del Pd.
«Ma io non silenzierò nessuno», avvisa Bersani. Che rivolgendosi a Monti, aggiunge: «A un leader non spetta tacitare, tocca svolgere un ruolo di sintesi».
C’è dunque un motivo se ieri il leader del Pd era soddisfatto, se l’accordo sui numeri con Renzi è stato raggiunto in poco tempo.
Il segretario inserirà una ventina di candidati nel listino, che si aggiungeranno agli altri cinquanta usciti vincenti dalle recenti parlamentarie.
E discutendo di liste a tavola i due erano convinti che «sul piano del rinnovamento daremo lezioni a tutti»: «Quando saranno note le liste collegate a Monti, si vedrà quali sono le più nuove tra le loro e le nostre».
Il patto di ieri chiude il cerchio nei Democratici e dà il via alla campagna elettorale, durante la quale Bersani vestirà i panni del pompiere: non vuole giochi pirotecnici nè intende andare allo scontro diretto con il Professore, «a meno che non sia lui a trascinarmi».
Lascerà a suoi il compito di lavorarlo ai fianchi, com’è accaduto anche ieri, con il governatore della Toscana Rossi che ha spiegato come il premier uscente «rischi di trasformarsi in un politico mediocre».
Il segretario-candidato agirà invece «solo di rimessa». Tanto ha capito chi sia stato a suggerire a Monti di aprire un fronte offensivo con il Pd: «È farina del sacco di Casini».
E sorride ricordando l’ammonimento del leader Udc, secondo cui «Pierluigi» non andrà a palazzo Chigi se non riuscirà ad avere la maggioranza anche al Senato: «Questo è la solita, vecchia teoria politica di Pier Ferdinando. Comanda chi ha meno voti…».
Non c’è dubbio che alle prossime elezioni sia in gioco il bipolarismo, che Bersani vuole «salvaguardare».
Perciò incalzerà il Professore quotidianamente, invitandolo a spiegare con chi si schiererà «in Italia e in Europa», e chiedendo «rispetto» per il Pd, «perchè non può scoprire oggi i nostri difetti dopo essere stato appoggiato per un anno a palazzo Chigi».
Comunque non intende pregiudicare «gli eventuali rapporti futuri», ha spiegato ai suoi, come a segnare il destino di Monti e della sua avventura.
Certo, avrebbe preferito che il Professore rimanesse super partes, e con Renzi si è soffermato sulla scelta del premier di entrare in campo: avesse federato l’intero centrodestra sarebbe stato assai insidioso, mettendosi a capeggiare l’area centrista sarà funzionale al Pd.
In ogni caso entrambi hanno convenuto che «sta dilapidando un patrimonio».
Ma è soprattutto del Pd che i due ex sfidanti hanno parlato.
Ed è un segno dei tempi se un emiliano e un toscano hanno cambiato il volto di un partito a tra(di)zione post-comunista, dove era sempre toccato ai romani la cabina di comando.
Resta il problema di Renzi, che spesso fatica a capire il «bersanese».
La storia del «tacchino sul tetto», per esempio: il segretario del Pd ha ammesso di aver sbagliato a citare la metafora, «perchè non mi volevo riferire a un tacchino ma a un piccione».
«Si vabbè, Pier Luigi. Ma che vuol dire?».
Francesco Verderami
(da “il Corriere della Sera”)
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Gennaio 4th, 2013 Riccardo Fucile
LA PROCURA CHIEDE I NOMI DI CHI PARTECIPO’ ALLA CATTURA DEL BOSS
Da alcune settimane, i magistrati che indagano sulla trattativa fra mafia e Stato hanno riaperto in gran segreto uno dei capitoli più travagliati dell’antimafia, la cattura del capo dei capi Totò Riina. Vent’anni dopo, si fa avanti tutta un’altra storia rispetto alla versione ufficiale sempre ribadita dai vertici del Ros: «Il covo del latitante fu subito perquisito e l’archivio del capomafia venne inizialmente nascosto in una caserma dei carabinieri», questo scrive l’anonimo ben informato che a fine settembre ha messo in allerta il sostituto procuratore Nino Di Matteo e i suoi colleghi del pool.
In dodici pagine c’è una verità che presto potrebbe riscrivere la storia della trattativa fra le stragi del ’92-’93: poche ore dopo l’arresto di Riina, scattato in una delle piazze più note di Palermo, i carabinieri del Ros avrebbero perquisito la villa covo del boss senza avvertire i magistrati, portando via le carte del capo di Cosa nostra.
«Si tratta di carte scabrose», spiega adesso l’anonimo autore, che dice di essere stato testimone diretto di quei giorni del gennaio ’93: indica una caserma del centro dove sarebbe stato nascosto l’archivio di Riina.
E poi traccia addirittura il percorso preciso per arrivare a una stanza in particolare. «Ma lì le carte sono rimaste poco, poi sono state portate via», aggiunge.
Dove, è un mistero.
Una cosa, però, è certa: scorrendo quelle 12 pagine – suddivise in 24 punti – sembra emergere che il misterioso autore dell’anonimo è stato lui stesso un carabiniere, probabilmente un sottufficiale dei reparti territoriali o del Ros, perchè indica con precisione nomi, cognomi e addirittura soprannomi dei militari e degli ufficiali che avrebbero partecipato a vario titolo alle indagini per l’arresto di Totò Riina.
E adesso i magistrati di Palermo hanno chiesto ai funzionari della Dia di identificare tutti i carabinieri citati. Sono una trentina.
Presto, potrebbero essere ascoltati uno dopo l’altro dai magistrati.
Al momento, le 12 pagine sono conservate nel cosiddetto “registro 46” della procura di Palermo, quello che custodisce gli anonimi. Il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, che coordina l’inchiesta sulla trattativa, si limita a dire: «Abbiamo delegato accertamenti alla polizia giudiziaria».
Il procuratore Francesco Messineo aggiunge: «Su alcuni fatti, l’anonimo fornisce dettagli inediti. Stiamo cercando i riscontri».
I magistrati non escludono neanche l’ipotesi che dietro l’anonimo ci possano essere più persone, magari ex appartenenti a uno stesso reparto.
Dell’anonimo si occupano pure i magistrati della procura di Caltanissetta, che hanno aperto ufficialmente un’inchiesta dopo avere ricevuto una «comunicazione » dai colleghi palermitani.
E non solo per il riferimento all’agenda rossa del giudice Borsellino («È stata portata via da un carabiniere »), ma anche per le parole inquietanti sui magistrati di Palermo («Siete spiati da qualcuno che canalizza verso Roma le informazioni che carpiscono sul vostro conto»).
Dal Guatemala, l’ex procuratore Antonio Ingroia fa sapere: «In effetti, negli ultimi tempi ho avuto la sensazione netta di essere controllato, proprio per le mie indagini».
Nella lettera non si parla solo di magistrati spiati, ma anche di «un magistrato della procura» di cui i pm della trattativa «non dovrebbero fidarsi».
È un altro mistero intorno a questa lettera senza firma.
L’anonimo autore poi lancia la sua ultima certezza: «La trattativa con la mafia c’è stata ed è tuttora in corso».
Ecco perchè tanta attenzione sui magistrati.
Lui, l’uomo del mistero, suggerisce che nel torbido dialogo fra Stato e mafia potrebbero essere coinvolti anche altri politici della prima repubblica, oltre Mancino, Dell’Utri e Mannino.
Sono otto i nomi adesso al vaglio della procura.
Salvo Palazzolo
(da “La Repubblica“)
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Gennaio 4th, 2013 Riccardo Fucile
DA LI’ PARTI’ L’INDAGINE SULLA TRATTATIVA CON LA MAFIA…MAI UFFICIALMENTE PERQUISITO E SORVEGLIATO, IN REALTA’ RIPULITO E SVUOTATO DI TUTTO
L’indagine sulla trattativa era partita da lì e dopo vent’anni torna sempre lì: al covo di Totò Riina. È il grande mistero palermitano.
Mai ufficialmente perquisito e mai ufficialmente sorvegliato. In apparenza abbandonato, in realtà ripulito e svuotato per cancellare il passato di un boss.
È quel covo che segna il confine fra un prima e un dopo in tutte le inchieste poliziesche dell’antimafia in Sicilia.
Oggi, dopo tanto tempo, si riparla della villa nel quartiere dell’Uditore di Palermo con un anonimo che racconta retroscena su ciò che accadde in una fredda mattina dell’inverno del 1993.
Scrive dell’archivio del capo dei capi trafugato, nascosto con il suo carico di «carte scabrose» in una caserma prima di farlo sparire per sempre.
L’autore della lettera fornisce su se stesso particolari estremamente precisi per accreditarsi come attendibile, ricorda gli avvenimenti come un protagonista che li ha vissuti, riferisce su precise azioni di reparti investigativi speciali e territoriali, insomma fa capire di essere un testimone oculare.
Come per l’arresto di Totò Riina.
Quella che ai giorni nostri viene definita l’inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia ha la sua origine proprio nella cattura del boss di Corleone dopo 24 anni e 6 mesi di latitanza, dalla mancata irruzione nella casa dove si nascondeva, dalle contradditorie e ambigue dichiarazioni dei carabinieri del Raggruppamento operativo speciale che presero Riina il 15 gennaio 1993.
È allora che cominciano ad allungarsi le ombre su quella che fu presentata come una «spettacolare operazione» di polizia giudiziaria ma che manifestava visibilmente – da subito – alcune «anomalie». I carabinieri – allora il Ros era comandato dal generale Antonino Subranni e il suo vice era il colonnello Mario Mori, tutti e due nel 2012 indagati «per attentato a un corpo politico» nell’inchiesta sulla trattativa – arrestarono Riina e per 19 lunghissimi giorni nessuno al di fuori di loro seppe più nulla di quello che stava succedendo dentro quel covo.
Formalmente dovevano tenere sotto controllo la villa, nei fatti poche ore dopo l’arresto sospesero clamorosamente ogni sorveglianza.
La cronaca di quei giorni è riassunta in quattro date.
15 gennaio 1993, il Ros convinse il procuratore capo Gian Carlo Caselli (il magistrato si era insediato a Palermo alle 10 di quel mattino) a non perquisire il covo per tenerlo d’occhio, ma nello stesso pomeriggio abbandonò la sorveglianza «senza preavvertire alcuno ».
27 gennaio 1993, il vicecomandante del Ros Mario Mori comunicò al procuratore aggiunto Vittorio Aliquò che «l’osservazione del covo di via Bernini stava creando tensione e stress al personale operante».
30 gennaio 1993, il procuratore capo Caselli scoprì che «le attività di osservazione del complesso di via Bernini erano state invece dismesse poche ore dopo l’arresto del latitante Riina Salvatore».
2 febbraio 1993, i magistrati e i carabinieri dell’Arma territoriale entrarono in una villa «dove lo stato dei luoghi, pareti, mobili, rivestimenti, era ormai radicalmente diverso da quello proprio dei luoghi abitati».
Perchè il Ros aveva lasciato il campo? Perchè non aveva avvertito i procuratori?
«Un disguido», si sono sempre difesi.
Una manovra diversiva per permettere un blitz clandestino dentro il covo di Totò Riina, è sempre stato il sospetto dei magistrati.
N’è nata un’inchiesta dove la procura ha evidenziato tutti i «buchi neri» nella versione del Ros, poi il processo è finito con un’assoluzione per tutti. Ma subito dopo n’è cominciato un altro.
Da una mancata perquisizione a una mancata cattura.
Dal covo di Totò Riina ai 43 anni di latitanza dell’altro Corleonese, Bernardo Provenzano. Secondo le tesi dei pm siciliani, Riina fu venduto e in cambio sarebbe stata garantita la libertà al ricercato numero uno d’Italia.
Un altro sospetto che si è trasformato in un secondo processo, con imputati per favoreggiamento a Cosa Nostra sempre il colonnello Mario Mori e il suo vice Mauro Obinu. Pezzi di trattativa.
Cosa torna e cosa non torna in questa ricostruzione?
Qualsiasi mossa abbiano fatto quelli del Ros intorno al covo, l’hanno fatta perchè comandati. Non hanno deciso in autonomia in via Bernini e non hanno favorito per loro scelta – se mai verrà provato – la fuga di Provenzano.
Hanno ricevuto ordini. Dall’alto.
Fino a quando non si scoprirà chi ha dato quegli ordini, l’inchiesta sulla trattativa resterà incompiuta.
Cosa c’è di veramente inedito nell’ultimo anonimo?
L’indicazione su chi avrebbe sottratto l’archivio di Riina.
Fino a ieri sapevamo che erano stati alcuni mafiosi.
Adesso qualcuno ci informa che quel tesoro è finito in una caserma.
Attilio Bolzoni
(da “La Repubblica“)
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Gennaio 4th, 2013 Riccardo Fucile
RICORSI, PROTESTE E POLEMICHE TRA SCHEDE FOTOCOPIATE, NUMERO DI VOTI SPROPOSITATO, RITARDI SOSPETTI… NEANCHE VENDOLA SI SALVA DALLA PARTITOCRAZIA
Ricorsi, proteste e polemiche sotto traccia.
Le parlamentarie di Sel in Campania si lasciano dietro una scia di veleni che preoccupa Nichi Vendola.
Una scia coperta — per ora — dalla clausola di riservatezza che i candidati hanno dovuto sottoscrivere per partecipare alla competizione.
Ma qualcosa sta filtrando.
Un elenco di anomalie lungo e dettagliato.
A otto ore dalla chiusura dei seggi, a Portici, San Giorgio e Cremano e Procida, nella provincia di Napoli, ancora non erano pronti i risultati finali dello scrutinio.
Proprio i dati provenienti da questi comuni sarebbero stati decisivi per ribaltare alcune delle posizioni utili all’elezione, con il sorpasso al terzo posto di Aniello Iacomino ai danni di Tonino Scala.
In questi comuni si è registrato un anomalo ‘boom’ di affluenza: al primo turno delle primarie di novembre tra Portici e San Giorgio, popolose città del napoletano, in circa 1300 votarono Nichi Vendola, ma ben 2300 hanno poi partecipato alle parlamentarie del partito guidato dal Governatore della Puglia.
E in un seggio di San Giorgio hanno ritrovato 187 schede fotocopiate, estranee al pacchetto di schede assegnate secondo un criterio che avrebbe dovuto mettere al riparo dal fenomeno delle truppe cammellate: il numero dei voti di Vendola al primo turno delle primarie più un’aliquota di poco più del 20%.
In alcuni casi abbondantemente superata nel corso delle operazioni di voto. Solo che in certi seggi sarebbero arrivate schede fresche di rinforzo, e in altri no, tanto che a Castellammare di Stabia il seggio è stato chiuso con una mezz’ora di anticipo causa mancanza di schede.
Le schede fotocopiate sono state annullate dal computo di San Giorgio. Ma solo quelle.
E’ tutto nero su bianco in alcuni documenti e ricorsi preparati tra Napoli e Salerno, sui quali Sel dovrà pronunciarsi con urgenza: nella mattinata di oggi Vendola infatti riunisce la direzione nazionale per la composizione delle liste elettorali e nel pomeriggio dovrebbe presentare i capilista alla stampa.
C’è anche un corposo capitolo Salerno.
Nella città di Campagna, 15mila abitanti, il seggio Sel misteriosamente non è stato allestito.
Ad Olevano sul Tusciano invece non sono arrivate le schede.
Nella sede della Federazione Provinciale di Salerno — secondo un esposto del circolo Sel di Eboli — a mezzogiorno avrebbero votato solo 10 persone in tre ore, e poi fino alle 20 avrebbero votato in 480 (uno al minuto).
A Pagani, circa 30mila abitanti, il 25 novembre Vendola aveva ottenuto poco più di 200 voti.
Quindi il circolo avrebbe dovuto ricevere circa 260 schede.
Ne avrebbero inviate 500.
E infine i voti espressi alle parlamentarie sarebbero stati 694.
Vincenzo Iurillo
(da “il Fatto Quotidiano”)
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