Gennaio 28th, 2013 Riccardo Fucile
I DEMOCRATICI LOCALI CHE DIVENTANO DIRIGENTI DEVONO FARE UNA DONAZIONE ALLA CAUSA
Una galassia di poltrone che insieme valgono alcuni milioni di euro.
Questo è il microcosmo Montepaschi: centinaia di posti in consigli di amministrazione di capogruppo, controllate, partecipate grandi e piccole.
E poi ci sono le municipalizzate, enti e società pubbliche che negli anni hanno beneficiato dei soldi elargiti generosamente dalla Fondazione.
Per arrivarci però, occorre pagare l’obolo alla politica.
A scorrere la lista dei benefattori del Pd (prima Pci e Pds) senese, i nomi di funzionari e manager di Rocca Salimbeni si contano a decine, e il conto finale supera i due milioni di euro.
Si paga prima, per entrare nel ricco valzer degli incarichi, e dopo, quando si è dentro e si deve “contribuire al finanziamento del partito, versando alla tesoreria una quota dell’indennità ”, come recita il regolamento finanziario del Partito democratico di Siena (approvato nel 2008), svelato ieri dal quotidiano Libero.
Tutto legittimo, tutto regolare e documentato dalla tesoreria della Camera, dove in testa spiccano Giuseppe Mussari (680 mila euro) e il presidente di Mps capital service, Saverio Carpinelli (176 mila euro).
Si parte dai meno generosi come Marco Turchi, classe 1961 — figlio di Carlo, storico revisore dei conti del Pci locale -, attuale vicepresidente della Banca.
Nel 1993 versa poco più di 12 milioni di lire.
Poi una serie infinita di incarichi come sindaco revisore o presidente di società controllate da Mps.
Turchi è uno dei pochi cui risulta un unico versamento.
I nomi infatti, si ripetono.
Più generoso l’altro vicepresidente, Ernesto Rabizzi, ex presidente della provincia, che di euro ne ha versati 125 mi-la in due anni, a partire dal 2010.
E poi ancora, Riccardo Margheriti, senatore Pci che nel 1993 versa 13 milioni di lire alla federazione di Siena, nello stesso anno entra nel consiglio di amministrazione di Banca Verde (già credito agrario) del gruppo Monte dei Paschi, e di cui diventa presidente due anni dopo.
Seguono donazioni per un totale di 132 mila euro e diversi incarichi, tra cui un posto nel cda di Agrisviluppo spa, società finanziaria della banca senese
Una prassi consolidata in oltre vent’anni di egemonia.
I dati partono dal 1993 e raccontano un flusso di denaro di centinaia di migliaia di euro confluiti nelle casse del partito.
Versamenti spesso regolari, e con cifre che si ripetono.
A effettuare donazioni, anche plenipotenziari come Franco Bassanini, che di Rocca Salimbeni è stato vicepresidente, e che tra il 2002 e il 2005 ha versato più di 70 mila euro alla sezione locale del partito.
A scorrere la lista, sono in pochi i benefattori a non figurare tra le fila dei funzionari della Banca.
Per molti degli altri, si contano incarichi in società ed enti non direttamente collegati a Mps ma che spesso ricevono contributi dalla fondazione controllante.
Un esempio può essere rappresentato dal consorzio di tutela del Palio di Siena, da maggio 2009 ad aprile 2010 diretto da Anna Carli, priore della Contrada di Valmontone, che tra il 2004 e il 2006 ha donato al partito 16 mila euro.
Discorso simile per l’ex parlamentare Fabrizio Vigni, presidente di Sienambiente Spa. Per lui diverse donazioni all’attivo e un episodio curioso: è l’unico ad aver ricevuto soldi. Secondo il resoconto della Camera infatti, nel 1994 ha ricevuto 19 milioni di lire dal Pds di Siena.
Nella galassia delle controllate dal Monte paschi c’è anche Fabio Borghi, segretario provinciale della Cgil che di euro ne ha donati 70 mila.
Dopo due anni passati in Fondazione, nel 2003 Borghi è diviene consigliere di Mps, incarico che ha ricoperto fino all’arrivo di Alessandro Profumo.
Poi è passa alla presidenza di Mps Leasing & Factory e di Mps Gestione crediti. In passato è stato seduto in almeno quattro cda dversi.
Anche questa (il cumulo delle poltrone), una prassi diffusa a Siena.
Carlo Di Foggia
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 28th, 2013 Riccardo Fucile
LE IPOTESI SUGLI SCENARI POST ELETTORALI
In campagna elettorale, si sa, menarsi fendenti di santa ragione è fisiologico, e prescinde dai rapporti politici esistenti.
Per questo può succedere che nei giorni in cui la polemica giunge alle vette più alte, i protagonisti della competizione, benchè avversari, si parlino.
Se non altro perchè si conoscono da una vita.
Come Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini.
In campagna elettorale, si sa, la polemica è la norma, ma se si depone il fioretto e non si risparmiano i colpi contro il competitore si può anche arrivare a un punto di non ritorno. È esattamente questo il quadro in cui si gioca la partita tra il Pd e Monti.
Bersani non aveva intenzione alcuna di infilzare il presidente del Consiglio con un colpo a sorpresa: «Gli replicherò solo se insiste, altrimenti parlerò di quello che interessa al Paese».
Però, adesso che il confronto televisivo si avvicina (sarà a febbraio, con tutti i candidati premier, da Monti al segretario del Pd, a Berlusconi, passando per Ingroia, Grillo e Giannino), Bersani minaccia di rispondere pan per focaccia se l’inquilino di palazzo Chigi proseguirà nei suoi attacchi.
Il presidente del Consiglio ogni volta che incontra un esponente del Pd non nega mai la frase di rito: «Dopo le elezioni ci parleremo, ci vedremo».
Nel frattempo però sembra aver imbracciato la katana di Uma Thurman in «Kill Bill».
La super spada dei samurai, per intendersi.
Ed è per questo motivo che, nel pieno degli insulti e delle accuse della campagna elettorale, Bersani e Casini si sono parlati.
Sono entrambi due politici di lungo corso: sanno che dopo la guerra si può anche siglare un armistizio, ma sanno anche che se si va troppo là poi arretrare è più difficile.
Il segretario del Pd ritiene che se l’intenzione di Monti è quella di tirare troppo la corda si possa arrivare a un punto di non ritorno.
E lo pensa anche Casini.
Bersani ha chiesto al leader dell’Udc il perchè della «metamorfosi» del premier.
Colpa del guru americano, è stata la risposta, che per far guadagnare al presidente del Consiglio i voti di Berlusconi (ma anche quelli di Bersani) ha suggerito la linea dell’aggressione.
Però così dove si va, è stato l’interrogativo che hanno espresso entrambi. Da nessuna parte, è stata la risposta che si sono dati.
Il segretario del Pd non mente (non è suo costume nè sua abitudine) quando afferma: «Noi rimaniamo aperti a una collaborazione con i moderati».
Però dice la verità anche quando avverte: «Siamo disponibili al dialogo, ma il testimone resterà nelle nostre mani».
Nel senso che, anche nel caso in cui la vittoria del centrosinistra si limiti alla Camera, con un pareggio al Senato, la guida del governo dovrà andare ugualmente al candidato premier della coalizione vincente, ossia allo stesso Bersani.
Casini è in campagna elettorale, ufficialmente dissente, ma da politico intelligente qual è sa che difficilmente potrà essere diversamente.
Monti ne è conscio? Il numero uno del Pd sa che c’è chi vuole «una sua vittoria azzoppata», come si rende perfettamente conto che il successo a questo punto «non è scontato», però non è tipo da mollare come se niente fosse.
E infatti il suo ruolino di marcia lo ha fissato da tempo: anche se si vince si deve collaborare con i moderati «perchè il mito dell’autosufficienza» non esiste. Lo ha già dimostrato Prodi nel 2006.
Ma collaborare non vuol dire necessariamente governare insieme.
«Dipende dalle condizioni», è il ritornello del leader del Pd.
Ossia se la vittoria del centrosinistra sarà piena non ci sarà un «do ut des»: nessun patto di governo con i centristi, piuttosto un patto istituzionale, per varare le riforme importanti, ratificato dall’assegnazione della presidenza di una delle due camere a un esponente del fronte moderato. Non solo.
Anche il presidente della Repubblica verrà scelto con il metodo della «condivisione» con il centro.
Dopodichè potrebbe anche accadere che Bersani decida di inserire nel suo gabinetto un ministro espressione dei moderati (anzi, non è affatto escluso), ma questo non significherebbe siglare una nuova intesa di governo perchè il segretario del Pd non vuole venire meno al patto sottoscritto con gli elettori abbandonando Vendola per il centro.
Ovviamente – e queste sono le «condizioni» da cui dipende ogni scelta come spiega Bersani – se al Senato il centrosinistra non avesse la maggioranza, allora l’alleanza di governo diventerebbe inevitabile.
Ma anche – o proprio per questo – Monti deve mollare la corda, perchè, avvertono al Pd, anche in questo caso la premiership deve andare a Bersani.
Altrimenti? Altrimenti si può sempre «votare di nuovo”
Maria Teresa Meli
(da “il Corriere della Sera”)
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Gennaio 28th, 2013 Riccardo Fucile
LE COMICHE: ZHARA YASHILI HA INVIATO UN FAX AL TRIBUNALE DI MILANO IN CUI ACCUSA LA DIFESA DEL CAVALIERE DI NON AVER AUTORIZZATO LA SPESA
Ennesima fumata nera al processo Ruby.
Questa mattina, infatti, era fissata la testimonianza della mamma di Karima El Mahroug.
La deposizione però è saltata perchè Zhara Yazhili (testimone chiamato dalla difesa del Cavaliere) ha fatto sapere, attaraverso un fax inviato al tribunale, che “voglio testimoniare ma la difesa di Berlusconi non mi ha pagato il biglietto aereo e io non posso permettermi di comprarlo. Avevo prenotato il volo di andata e ritorno e avevo chiesto l’autorizzazione della spesa allo studio Ghedini ma non ho avuto risposta così non ho confermato i biglietti. Ribadisco la mia volontà di partecipare all’udienza, ma mi devono pagare le spese”.
La difesa di Berlusconi, oggi rappresentata dall’avvocato Paola Rubini, stretta collaboratrice degli avvocati Ghedini e Longo, ha affermato in aula che probabilmente c’è stato un equivoco in quanto era stata data l’autorizzazione al pagamento del viaggio ma poi la signora non ha fatto più sapere nulla.
In sostanza i difensori erano convinti che oggi la madre di Ruby si sarebbe presentata in aula tant’è che per oggi hanno già convocato l’interprete.
Stizzita la reazione del sostituto procuratore Ilda Boccassini che ha sottolineato come “in un mondo globalizzato non si pensi di fare un biglietto on line. I biglietti on line potevano essere fatti dalla difesa, oggi invece ci arriva questa comunicazione. Valuterà il tribunale se c’è una necessità reale della difesa di sentire la testimone”.
I giudici sono ora in camera di Consiglio per decidere se la testimonianza della madre di Ruby, che vive in Sicilia, debba essere messa in calendario per la prossima udienza o cancellata.
Il 14 gennaio 2013 la stessa Ruby, dopo essere stata convocata in aula per testiminiare, aveva lasciato il tribunale dopo che i giudici avevano deciso, per un accordo tra le parti, di acquisire i verbali delle sue dichiarazioni e quindi di non sentirla in qualità di testimone e di parte offesa.
Il processo dove Berlusconi è imputato per concussione e prostituzione minorile, registra un’altra brusca fermata, dopo che il 21 gennaio 2013 i giudici hanno decsio che il processo, pur andando avanti, si concluderà dopo il voto del 24 e 25 febbraio 2013.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 28th, 2013 Riccardo Fucile
“GIUDIZI PRIVI DI VALORE SCIENTIFICO, SI INVENTA UN MUSSOLINI ANTICOMUNISTA”
“Berlusconi è scivolato su un bricolage di fantastoria: una mistificazione con finalità elettorali e demagogiche». Il professor Franco Cardini, storico dell’università di Firenze, stigmatizza la «lettura antiscientifica del fascismo offerta dall’ex premier».
Cosa la inquieta nella «rivalutazione» di Mussolini?
«La strumentalità . Berlusconi loda il Duce perchè sta inseguendo un bottino di voti vacanti e non certo per aprire una riflessione culturale sul Ventennio. In politica l’uso della storia è fisiologico, l’abuso no. Anche Stalin e Hitler hanno fatto cose buone: la legislazione sociale e il Welfare del nazismo erano notevoli, ma ciò non significa nulla. E non attenua affatto le colossali colpe di quei totalitarismi. La storia non è giustificazionista e viene insegnata proprio per dare ai cittadini dei modelli. La riappropriazione della storia deve diventare progettualità nel tempo presente. La memoria, infatti, è la garante della nostra identità . Come diceva Platone, sapere è ricordare: se non ricordiamo, non sappiamo niente, non siamo niente. La memoria è un dovere. L’ex premier non è uno storico serio e fa dell’autobiografismo».
Cioè Berlusconi si paragona al Duce?
«Ha un complesso napoleonico ma, pur con il suo scarso senso dell’umorismo, capisce che solo i matti si identificano con Napoleone. E dunque si riconosce in un immaginario Mussolini visceralmente anticomunista, ignorando il ben più complesso rapporto tra il fascismo e l’Unione Sovietica. Inventa un Duce diverso dalla realtà per un cesarismo populista alla Perà³n. Al tempo stesso la memoria non va confinata in una giornata di celebrazioni: va trasformata in materia di studio e di meditazione, dai banchi di scuola ai mass media. La retorica invece è destinata a sclerotizzarsi e a cadere, col tempo, nel vuoto».
Perchè lo boccia in storia?
«Sono giudizi privi di valore scientifico. È lo stesso stravolgimento della storia inscenato dai leghisti con celti e Padania. Al contrario di questa paccottiglia, la memoria storica ha, in una società civile consapevole, la funzione altissima di contribuire alla progettazione d’un futuro migliore. Questo non vuol dire che non sia proibito esprimere valutazioni discordanti sul passato. Però serve serietà d’intenti e di metodo. Certo, Mussolini rispetto a Hitler non deteneva il potere totale perchè sentiva il fiato addosso della Chiesa, della corona, dell’esercito, della finanza della massoneria, però fu senza ombra di dubbio il dittatore che privò gli italiani della libertà . Se le tirannie del passato sono finite, il ventre che le ha partorite è sempre gravido di altri mostri: magari d’aspetto diverso. “L’uomo non ricorda nulla: ricostruisce di continuo”, ammoniva Lucien Febvre. La storia è razionalizzazione critica della memoria. Non è materia per giochi elettorali nè per giudizi-slogan».
(da “La Stampa“)
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Gennaio 28th, 2013 Riccardo Fucile
ANCHE MARONI FA L’IMBOSCATO…SGOMITANO I POLITICI E I CANDIDATI PER ACQUISIRE VISIBILITA’ AD OGNI COSTO
Le richieste si sono intensificate nelle ultime settimane. Politici, candidati al Parlamento, candidati alla Regione Lombardia.
In coda. Per esserci. Per ottenere un invito all’inaugurazione del Memoriale della Shoah di Milano. Per non mancare all’appuntamento.
I dirigenti della Fondazione si riuniscono. Si ritrovano sul tavolo le domande. Le vagliano. Intuiscono il pericolo.
Alla fine passa la linea che avevano stabilito dall’inizio, e che non è mai stata messa in dubbio: «La giornata ha un significato troppo profondo e non può in alcun modo trasformarsi in un appuntamento pre elettorale».
Il criterio è limpido: si invitano esclusivamente i rappresentanti delle istituzioni.
La direttiva (chiara, condivisa, necessaria per rispetto alla grave solennità del momento) crolla alle 9 e 40 di ieri mattina: all’ingresso del Memoriale compare Silvio Berlusconi, accompagnato dal coordinatore lombardo del Pdl Mario Mantovani, seguito dai suoi uomini di scorta, circondato dal suo staff, e come ovvio da alcuni giornalisti. In tutto fanno quasi trenta persone, tante da riempire l’atrio.
All’inizio della cerimonia mancano quarantacinque minuti e l’ex presidente del Consiglio pretende di visitare il museo.
Così è andata in affanno l’organizzazione della giornata.
Ospite inatteso. Di certo ospite non invitato. In qualche modo, stando ai tempi, anche inopportuno: nel momento in cui Berlusconi arriva in Stazione Centrale, gli organizzatori stanno definendo gli ultimi dettagli del cerimoniale e gestendo i cambiamenti dell’ultima ora.
Invece (e lo fanno con la massima attenzione e rispetto) devono dedicarsi all’ex premier.
Che alla fine del suo giro, quando ancora la sala è mezza vuota, prende posto in prima fila, là dove dovrebbe sedersi Mario Monti e un posto per lui non è previsto.
Così le ragazze dell’organizzazione iniziano ad armeggiare con i cartellini sulle sedie per risistemare gli ospiti (all’ultimo secondo, una hostess scrive anche «Berlusconi» a penna su un cartoncino).
Il leader del Pdl non è l’unico ospite non previsto: nel corso della mattinata arriveranno anche Roberto Maroni, leader della Lega, e il suo sfidante per la presidenza della Lombardia, Gabriele Albertini.
Tutti e due, come anche il segretario della Cgil Susanna Camusso, eviteranno le dichiarazioni e limiteranno la loro presenza cercando di mantenere un contegno simile a quello di un qualsiasi cittadino.
Maroni ascolta gli interventi seduto in seconda fila, e solo per questo finisce nelle inquadrature di corriere.it che riprendono Berlusconi nei momenti in cui si assopisce, sonnecchia e si strofina una mano sugli occhi.
Tutto intorno, in platea ma soprattutto fuori, Milano si riunisce davanti al Memoriale della Shoah con una partecipazione inattesa.
In via Ferrante Aporti, su un fianco della Stazione Centrale, i milanesi si mettono in coda in una mattinata gelida di cielo grigio.
Le prescrizioni di sicurezza permettono una presenza massima di cinquecento persone all’interno, e per questo si crea qualche momento di calca.
Alla fine della giornata saranno circa tremila i milanesi passati vicino al «Binario 21», dal quale partivano i convogli verso Auschwitz.
Spiega Roberto Jarach, vice presidente della Fondazione Memoriale della Shoah: «L’inattesa affluenza, in proporzione nettamente superiore rispetto alle previsioni, ha creato qualche impaccio all’organizzazione e la registrazione. La risposta della cittadinanza è stata un eccezionale segnale di partecipazione e ci scusiamo sia con chi ha dovuto attendere molto, sia con chi è rimasto fuori o ha dovuto rinunciare alla visita».
L’attesa provoca insofferenza. Il fastidio si sfoga sulla politica.
Succede alla fine della mattinata.
Tra le persone in coda si fa strada l’idea che «noi siamo qui fuori perchè loro devono fare la solita passerella».
Fischi all’uscita per il presidente del Consiglio, Mario Monti. E altri fischi per Berlusconi, accompagnati da qualche urlo («Buffone»).
Nessuno in strada, in quel momento, conosce ancora le sue frasi su Mussolini.
Avrebbe dovuto essere la giornata del silenzio e delle parole sommesse della memoria.
Per ricordare che dei 605 ebrei deportati ad Auschwitz dal «Binario 21» il 30 gennaio 1944, tornarono a casa solo in 22.
Gianni Santucci,
(da “il Corriere della Sera“)
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Gennaio 28th, 2013 Riccardo Fucile
A POCHE SETTIMANE DALLE ELEZIONI POLITICHE, QUALI SONO LE TUE INTENZIONI DI VOTO?
All’interno della nostra home page, sul lato sinistro, troverai tutti i principali partiti che parteciperanno alle Elezioni politiche 2013.
Il tuo voto verrà immediatamente conteggiato e potrai controllare direttamente il buon esito della tua indicazione.
Puoi votare una sola volta, il sistema di controllo impedisce di esprimersi più volte, in modo da evitare taroccamenti.
In qualsiasi momento, collegandoti con il sito, potrai controllare l’andamento delle votazioni.
Vengono indicati sia i voti che la percentuale parziale ottenuta dai singoli partiti.
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Gennaio 28th, 2013 Riccardo Fucile
I CONTI AI PADAGNI NON TORNANO, MEGLIO QUANDO LI TENEVA BELSITO: CHI PARLA A VANVERA DI 16 MILIARDI IN PIU’, CHI DI 3…MA GLI ESPERTI LA CONSIDERANO UN BLUFF GRANDE COME UNA CASA
Trattenere sul territorio il 75 per cento della tasse pagate in Lombardia.
Roberto Maroni ne fa una bandiera elettorale, ma lo slogan rischia di trasformarsi in bufala.
Sin da subito, visto che i conti non tornano.
Non è chiaro innanzitutto su che cosa lui e Silvio Berlusconi si sono davvero accordati.
In caso di vittoria — garantisce il segretario della Lega — il Pirellone potrà gestire direttamente 16 miliardi di euro in più rispetto a prima e cita un articolo del Corriere della Sera secondo cui in Lombardia al momento torna indietro, sotto forma di servizi, il 66 per cento di quanto versato dai cittadini in imposte dirette, indirette e contributi vari, compresi quelli previdenziali (in tutto 173 miliardi).
Un’affermazione che però suona da smentita al Cavaliere: “Oggi viene restituito il 72-73 per cento”, è l’altra storia raccontata sulla bianca poltrona di Porta a porta.
Sulle basi dell’algebra berlusconiana, a conti fatti, per arrivare al 75 per cento promesso basterebbe trattenere dai tre ai cinque miliardi di euro in più.
Un bel po’ in meno della metà di quanto parla Maroni, che fino a due giorni fa, ospite di 24 Mattino su Radio 24, sparava addirittura un’altra cifra: 25-26 miliardi.
I numeri variano a seconda delle voci che si considerano per arrivare alla somma totale, si è giustificato Maroni in conferenza stampa, quando non sapeva più come uscirne.
Ma al di là delle cifre e dei sistemi di riferimento presi in considerazione, secondo diversi esperti quello a non essere realizzabile è proprio l’obiettivo finale: trattenere al Pirellone il 75 per cento delle tasse.
Se questo progetto viene varato in Lombardia — ragiona Floriana Cerniglia, docente di Scienza delle finanze dell’università di Milano Bicocca — lo stesso andrà fatto in tutte le Regioni.
Allo Stato centrale rimarranno da gestire appena un centinaio di miliardi di entrate tributarie, che non saranno più sufficienti a pagare istruzione, difesa, giustizia e interessi sul debito pubblico.
Tutte funzioni che a questo punto andranno imputate al bilancio delle singole regioni.
L’idea leghista è considerata irrealizzabile anche dagli stessi docenti citati nell’articolo del Corriere che Maroni ha preso come Bibbia.
Ne ha citato con orgoglio il titolo: “Il sogno della Lega vale 16 miliardi”.
Ma si è scordato di fare notare come prosegue il resto del pezzo.
Cioè con il parere di Tommaso di Tanno dell’università di Siena che reputa insensato trattenere sul territorio l’Iva: un’imposta associata a merce venduta anche al di fuori della Lombardia e magari prodotta in sedi extra regionali di un’impresa lombarda.
E con Paolo Parisi della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze Ezio Vanoni di Roma che aggiunge: “Chi vuole gestirsi la quasi totalità delle entrate tributarie allora deve rendersi anche autonomo nell’organizzazione dei servizi. Di fatto crea una realtà statuale a sè”.
Insomma, per Parisi, “qui non si sta parlando di federalismo, ma di secessione”. Un giudizio che Maroni ha squalificato come “giudizio politico”.
Eppure è anche l’aspetto politico a non tornare, oltre a calcoli e matematica.
La trovata del Carroccio infatti non è nuova.
Nel 2007 la regione Lombardia aveva approvato una proposta di legge al Parlamento in cui si prevedeva di trattenere al Pirellone l’80 per cento dell’Iva, tutte le accise e le imposte su tabacchi e giochi.
La proposta era poi stata inserita tra le promesse forti di Lega e Pdl nella campagna per le politiche del 2008.
Ma tutto è caduto nel dimenticatoio, nonostante per più di due anni abbia governato Berlusconi.
Questa volta l’obiettivo è addirittura più ambizioso di allora in termini di numeri. E la via per centrarlo rimane una e una sola: una legge ordinaria da approvare in Parlamento.
Nella negoziazione con lo Stato centrale — assicura Maroni — avremo il sostegno di Veneto, Piemonte e Friuli Venezia Giulia, con il peso del loro Pil e della loro popolazione.
Ma, con ogni probabilità , a Roma ci sarà una novità : una maggioranza di diverso colore politico.
E il “sogno” di oggi sarà più simile a una bufala.
La promessa leghista è bocciata senza appello anche da Confindustria, che sulla bandiera elettorale del Carroccio aggiunge il suo parere contrario a quello di diversi esperti.
“La percentuale di tasse che deve rimanere sul territorio potrà essere determinata solo quando un modello federale avrà stabilito quali sono le competenze delle regioni”, spiega Alberto Barcella, presidente degli industriali lombardi, durante un incontro sulle istanze delle imprese a cui hanno partecipato anche Umberto Ambrosoli, candidato del centrosinistra alla presidenza della Lombardia, e il leghista Andrea Gibelli, vicepresidente uscente della Regione.
Senza che prima ci sia un passaggio legislativo a livello nazionale, quindi, parlando di 75% “si fa un discorso che lascia il tempo che trova”.
Quello della Lega, insomma, si riduce a essere uno slogan: “In campagna elettorale — continua Barcella — si fanno proposte che possono essere attrattive per gli elettori, ma poi ci si scontra con la realtà del Paese”.
Tradotto: le solite palle leghista a uso e consumo di qualche gonzo padagno.
Franz Baraggino e Luigi Franco
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Gennaio 28th, 2013 Riccardo Fucile
IL BALZELLO VIENE FATTO PAGARE AI PRIMI SEI NELLA LISTA AL SENATO E AI PRIMI NOVE ALLA CAMERA… LA LEGA SI FIDA TANTO DEI SUOI CHE LI OBBLIGA A FIRMARE DAVANTI AL NOTAIO
Un gettone d’ingresso per diventare parlamentare.
È quello che chiedono il Pd e il Pdl ai loro candidati. E più precisamente ai primi sei nella lista al Senato e i primi nove della Camera.
Quasi fosse un balzello, un pegno da pagare perchè tanto quei soldi, a spese dei contribuenti, rientreranno attraverso lo stipendio.
La differenza della pratica bipartisan sta solo nelle cifre: il Pd chiede 35mila euro, il Pdl 25mila.
Ma la differenza è anche nel metodo di pagamento: i berluscones pretendono che la somma sia cash e assolutamente anticipata, nel partito di Bersani c’è invece la possibilità di rateizzare la cifra.
Più alta, ma pagata nei mesi di mandato attraverso una detrazione dallo stipendio di deputato a favore del partito.
Non ne fanno uno scandalo gli aspiranti onorevoli che lo chiamano “contributo alla campagna elettorale”.
“Ciascuno di noi versa la stessa cifra, poi ovviamente se non vieni eletto ti viene restituito fino all’ultimo centesimo”, chiarisce il Carlo Giovanardi, che alle prossime politiche corre per il Senato, dietro a Silvio Berlusconi e ad Anna Maria Bernini.
Un gigante del partito, mai messo in discussione e che ha precisato che per fare il parlamentare occorre soprattutto “esperienza”.
Giovanardi, che nell’ultimo governo Berlusconi è stato sottosegretario, è deputato dal 1992. La bellezza di 21 anni.
E un seggio sicuro anche alle prossime elezioni.
Nonostante le posizioni omofobe più volte espresse, sino alla negazione dell’Olocausto per i gay pronunciata proprio nella Giornata della memoria.
“Paga solo chi si trova in cima alla lista e che quindi ha buone chance di essere eletto, sicuramente non quelli in seconda fascia”, spiega Filippo Berselli, senatore e coordinatore del Pdl in Emilia Romagna, entrato in Parlamento la prima volta 30 anni fa con l’Msi.
Berselli, a sorpresa, non sarà candidato.
Ma lui l’ha presa con filosofia, e difende il partito e il gettone d’ingresso .
“Non vuol dire pagarsi il posto – spiega — ma fare un investimento, che, se si tiene conto degli stipendi da parlamentari, non è poi così elevato. In fondo, prima del Porcellum, quando c’era ancora il sistema con le preferenze, ognuno per guadagnarsi i voti doveva tirare fuori i soldi per spot, cartoline, santini, cartelloni e manifesti, andando a sborsare molto di più. Per questo oggi pagano tutti con il sorriso sulle labbra”.
E se non dispongono subito di quella cifra?
“Se la fanno prestare. Ne troveranno a bizzeffe di finanziatori. La pratica è stata introdotta nel 2006, non ci sono mai stati problemi”.
Berselli ironizza, ma nel suo partito, un altro escluso illustre, Fabio Garagnani, non ha preso bene la mancata candidatura : “Io avevo già pagato i 25mila euro e non mi hanno messo in lista”. Garagnani, perchè non sollevasse un caso, dopo tre giorni è stato rimborsato fino all’ultimo centesimo.
Uu sistema diventato ormai una tradizione.
“Diamo una mano al partito dai tempi del Pci — racconta Andrea De Maria, candidato alla Camera dopo aver sbancato alle parlamentarie di Bologna con oltre 10mila preferenze — Qui in Emilia Romagna la somma richiesta è 35mila euro, da versare nei cinque anni di legislatura con un prelievo dalle indennità da parlamentari. Non c’è niente di male”.
Nel partitone potrebbe essere concesso uno strappo alla regola ai candidati più giovani e con meno disponibilità .
Probabile che Bersani conceda loro uno sconto. “Quello che mi chiederanno verserò, sono le regole e le rispetto” dice convinto Enzo Lattuca, classe 1988, enfant prodige del Pd alle prossime elezioni.
“Al limite chiederò un prestito un banca. Non credo incontrerò difficoltà ”.
Contributi a rate anche nella Lega Nord.
Secondo quanto raccontato alla Procura di Forlì dalla ex-segretaria di Umberto Bossi Nadia Dagrada, dal 2000 il Consiglio federale del Carroccio obbliga i candidati a pagarsi il seggio in Parlamento, facendo firmare un’impegnativa davanti al notaio. L’accordo prevede 2000 euro al mese alla prima elezione, e 2400 euro alla seconda, da versare nei 60 mesi di legislatura.
Emiliano Liuzzi e Giulia Zaccariello
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Gennaio 28th, 2013 Riccardo Fucile
IN EMILIA CORRE PER FLI LA NIPOTE DEL DUCE: “FU UN GRANDE STATISTA”
È lontana dalla eleggibilità ma ha scelto di correre lo stesso anche Edda Negri Mussolini.
Sua madre, Anna Maria, è stata l’ultima figlia del Duce.
“Un cognome pesante” spiega, che ha scelto di utilizzare solo di recente, a fianco a quello del padre, “per sottolineare l’onestà di mio nonno. Noi non abbiamo mai mangiato grazie alla politica, solo con i suoi lavori da giornalista”.
Già sindaco in una lista civica a Gemmano, in provincia di Rimini, Edda Negri Mussolini ha aderito sin da subito a Fli, nonostante l’abiura del fascismo da parte di Fini.
“Su alcune cose sono d’accordo, su altre meno – distingue lei – mio nonno ha fatto degli sbagli, come le leggi razziali, ma è stato un grande capo di Stato. Grazie a lui abbiamo avuto l’architettura fascista, le leggi sociali a difesa dei lavoratori e delle donne e le bonifiche”.
Anche la nipote di Mussolini boccia Berlusconi: “Pure mio nonno è stato processato, ma non per aver rubato”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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