Marzo 27th, 2013 Riccardo Fucile
“PER LA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA IL NOME SPETTA A NOI”
Lo spiraglio si apre appena. Pidiellini e leghisti lo lasciano intravedere a Bersani nell’ora scarsa di
confronto, il più delicato.
Uscita dall’aula in cambio di garanzie su Quirinale, riforme e salvaguardia di Berlusconi: niente conflitto di interessi, niente ineleggibilità .
Ma rientrati al partito, Alfano, Schifani e Brunetta si sentono ripetere dal loro leader in collegamento in viva voce da Arcore che «sulla presidenza della Repubblica questa volta non si cede, il nome deve essere nostro, non ne accetteremo uno loro condiviso».
Quella sul Colle è la principale ma non unica condizione dettata dal segretario Pdl e dal leader del Carroccio Maroni al premier incaricato.
Nella sala del Cavaliere, Bersani ha messo sul tavolo la disponibilità a un «pieno coinvolgimento sulle riforme».
Tutti insieme al tavolo della Convenzione, sorta di assemblea costituente. Con riconoscimento della presidenza allo stesso Pdl. Angelino Alfano candidato naturale alla guida.
Ma per lui, certo, nessuna vicepresidenza del Consiglio, come suggeriva Berlusconi.
Il governo di «minoranza» sarebbe formato da nomi indicati e scelti da Pd, Sel e montiani.
Convenzione che dovrebbe occuparsi della riforma complessiva dello Stato, non solo della legge elettorale.
Con l’introduzione del presidenzialismo in testa alla carta delle priorità del centrodestra. E poi legge elettorale, fosse pure un ritorno al Mattarellum, o a una qualche forma di ritorno alle preferenze, comunque un sistema che seghi le gambe a Grillo e al suo M5s.
Una qualche disponibilità a consentire la nascita di questo esecutivo dai numeri condizionati Alfano e Maroni l’avrebbero data.
Un governo che si occupi di «rilancio dell’economia, riapertura del rubinetto del credito alle imprese, una correzione sull’Imu e uno stop all’aumento dell’Imu», è la lista della «spesa» targata Pdl. Terreno sul quale i democratici sono pronti al confronto.
Quello sul quale un governo Bersani così nato – pena la sfiducia – non dovrà avventurarsi, è quello minato del conflitto di interessi, di una restrizione delle maglie sulla ineleggibilità e incompatibilità , con l’obiettivo di mettere in fuorigioco il Cavaliere.
Che farebbero deputati e senatori di centrodestra, dunque?
Uscirebbero dall’aula al momento della fiducia o deciderebbe per il «non voto» (l’astensione al Senato equivale a voto contrario, dunque sfiducia). Alfano con Bersani è stato assai schietto: «Non poniamo veti e condizioni. Tu puoi fare il governo che vuoi, con tutti gli otto punti che ritieni. Noi non pretendiamo nostri ministri, li sceglierai tu» è stata la premessa.
«Ma vogliamo indicare noi il presidente della Repubblica. Magari un nome che vada bene a voi, ma non accetteremo una rosa di nomi avanzata da voi, all’interno della quale scegliere. Se non accettate, per noi l’alternativa è il voto».
È la linea dura dettata da Arcore.
Anche Roberto Maroni, uscito dall’incontro e riferendo ai suoi deputati, è stato possibilista: «L’accordo penso che si possa fare. Oggi lo darei al 50 per cento. Noi vogliamo un governo a guida politica e Bersani capisce la mia lingua». Ma la strada resta in salita. Berlusconiani e leghisti si son dati con Bersani 48 ore di tempo, adesso ormai ridotte quasi a 24. Prima che il premier incaricato torni al Colle. Il Pd attende aperture e segni concreti di disponibilità dal Pdl. Berlusconi da Arcore ha invitato fino a sera i suoi a tenere il punto, a restare in trincea, a non cedere.
Vuole comunque tenere alta la tensione da campagna elettorale, con l’ultimo sondaggio che ancora ieri avrebbe dato il centrodestra oltre il 30 per cento.
Non a caso il Cavaliere è già alle prese con la pianificazione della nuova manifestazione di piazza il 13 aprile a Bari.
«Uscire o meno dall’aula a me non interessa, sono tecnicismi romani» è stato il suo commento telefonico in una giornata per il resto abbastanza concitata, sul piano personale e familiare.
Una riunione con i suoi avvocati civilisti per cercare di trovare una nuova intesa in termini economici con l’ex moglie Veronica Lario ed evitare così il giudizio d’appello di Milano nella causa di separazione non consensuale.
Altre tensioni invece maturano a Roma, al gruppo della Camera. Ieri mattina ha fatto la sua comparsa nei locali del Pdl a Montecitorio Renato Farina, ex deputato ora ingaggiato dal nuovo capogruppo Renato Brunetta per curare i rapporti con la stampa. Stanza e segretaria (e lauto compenso da consulente) per lui, nonostante la sospensione dall’Ordine dei giornalisti dopo lo scandalo che lo ha svelato quale informatore dei Servizi col codice “Betulla”.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)
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Marzo 27th, 2013 Riccardo Fucile
SPIRAGLI PER L’INTESA, BERLUSCONI STUDIA L’USCITA DALL’AULA
Fra numeri, date, scadenze e quorum che stanno in bella vista sulla scrivania del premier incaricato, Pierluigi Bersani tira fuori il succo dell’accordo in extremis che serve ad avviare il suo esecutivo.
Domani torna al Quirinale: o ha in mano l’intesa o getta la spugna. «Non parlatemi di governissimi – dice ad Alfano e Maroni quando vengono ricevuti nella sala di Montecitorio –. È una formula che per me significa una sola cosa: pretendere l’impossibile per non fare il possibile».
Parliamo invece, spiega il leader democratico, della Convenzione per le riforme istituzionali. La chiama «Costituente », senza tanti giri di parole.
«In quella sede tutte le forze politiche devono avere una responsabilità . Io e il governo ci mettiamo al servizio di questa grande operazione di cambiamento. Si lascia inalterata la prima parte della Costituzione e si modica la seconda. Con il contributo di tutti».
Questa è la proposta. Che in concreto, il giorno dell’eventuale voto di fiducia a Bersani, si realizzerebbe con l’uscita dall’aula di Pdl e Lega al Senato.
La soglia della maggioranza si abbassa, il governo ottiene i voti necessari.
E il miracolo si compie.
Il segretario del Pdl e il governatore lombardo ascoltano. Bersani ha appena cominciato il suo ragionamento. «Un mio fallimento è possibile, l’ho messo nel conto. Ma levatevi dalla testa che se si arriva a un secondo giro, il Pd porta di nuovo la croce. A questo, non ci stiamo. Posso consentire la nascita di un altro esecutivo, ma subito dopo, ve lo dico chiaro, noi prendiamo le distanze. Ci mettiamo alla finestra e al primo provvedimento che non piace al Pd, stacchiamo la spina. Se si torna a votare, il mio partito un piano B ce l’ha. E voi?».
Bersani sa che esiste un solco tra la Lega e Berlusconi.
«Il Cavaliere punta sparato alle elezioni, ma Roberto si è già messo di traverso.
Non vuole tornare alle urne e spinge da giorni per consentire la partenza del governo». Infatti Maroni fa pressioni su Alfano perchè il Pdl accetti l’offerta di Bersani: la presidenza della Convenzione a un uomo del centrodestra, il nuovo capo dello Stato che non sia ostile al Cavaliere, la grande occasione di partecipare alla costruzione della Terza repubblica con un occhio attento al federalismo (questo dal suo punto di vista).
Con il Carroccio, il Pd ha messo giù le basi della legge costituzionale che darebbe vita alla “Costituente”.
Una legge che affida al Parlamento la decisione finale sul testo della nuova Carta, senza emendamenti: o si approva o si respinge.
Un percorso non breve, ma con qualche certezza sull’esito finale.
Da qui si parte.
Ventiquattro ore di tempo per riuscire, dopo la giornata in cui le carte sono state scoperte.
«Il governo avrebbe la sua autonomia – spiega Bersani –. Lavorerebbe sugli 8 punti e voi dovreste consentire la sua nascita, con le forme parlamentari possibili. Ci vuole fantasia. Ma le larghe intese non esistono. L’abbiamo già visto con Monti, questo film. Con il Pdl e la Lega non possiamo stare insieme. Niente inciuci. Riforme e Palazzo Chigi sono due binari diversi. Così rimangono».
Il punto chiave, il terzo binario, è il nuovo inquilino del Quirinale, poche storie. Bersani detta la linea: «Se nasce un governissimo, il Pd si sente disimpegnato, questo è evidente. E faremo valere le logiche dei numeri nell’elezione del presidente della Repubblica. Ci muoviamo su un nome nostro, i numeri dicono che possiamo farlo da soli. O quasi».
L’avvertimento deve arrivare forte a Berlusconi.
C’è una rosa del Pd, con Franco Marini in testa, che può essere condivisa dal Pdl.
Ce n’è un’altra che cercherebbe consensi e sostegno da altre parti, tagliando fuori il centrodestra.
«Però non si può discuterne adesso o fare degli scambi. Detto questo, sui temi istituzionali si discute, nessuno vuole escludere il Pdl. E la scelta del presidente della Repubblica sta in questo campo».
L’apertura a tutto campo sulla Convenzione verrà offerta oggi anche al Movimento 5stelle.
Ma è dal centrodestra che Bersani si attende, questo pomeriggio, un pronunciamento pubblico, un sì alle riforme istituzionali condivise. Sarebbe il viatico con cui strappare a Giorgio Napolitano il mandato pieno.
«Domani salgo al Colle e porto quello che posso portare – spiega ancora il segretario del Pd –. Se non ci sono le condizioni, al capo dello Stato dirò che non è il caso di andare in aula. Ma se il quadro cambia nelle prossime ore, allora il governo nasce». Un governo alle sue condizioni, certo.
«Il coinvolgimento politico del Pd finisce con il mio incarico. Ci si inventa qualcos’altro? In quel caso teniamo le mani libere. Su questo punto sto fermo, non cedo. Questo è il mio inizio e la mia fine per quello che riguarda un progetto che sia politico».
Un ultimatum rivolto al centrodestra ma anche a una parte dei democratici.
«Dentro le larghe intese – dice ancora il segretario – io e il Pd non ci staremo mai. Non farò fare al mio partito la fine del Pasok, dei socialisti greci».
Sono i toni e le parole di chi sta giocando la partita della vita.
E che coinvolge tutti secondo Nichi Vendola. «Il Paese sta esplodendo, la disperazione è ovunque. Se questo governo non nasce, tra un mese dovremo girare con i giubbotti antiproiettile».
Goffredo De Marchis
(da “La Repubblica“)
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Marzo 27th, 2013 Riccardo Fucile
IL LEADER DEI GIOVANI TURCHI DEL PD BOCCIA OGNI FUTURA MOSSA DEI RENZIANI
Matteo Orfini, leader dei Giovani Turchi, si va verso un accordo con il Pdl?
«No, nulla è cambiato da questo punto di vista. La nostra proposta è chiara: da un lato la disponibilità a discutere con le forze parlamentari e sociali delle grandi riforme istituzionali di cui il paese ha bisogno; dall’altro la proposta di un governo di cambiamento sulla base degli otto punti che abbiamo presentati che sono non trattabili e non derogabili. Quindi un governo Pd-Pdl è inimmaginabile».
Neppure ponendo dei “paletti”?
«Non è misteriosa la ragione per cui non si può fare: è che non si risolvono i problemi del paese mettendo insieme forze politiche alternative che hanno visioni diverse sulle soluzioni di quei problemi. Certamente il Pd chiede di consentire l’inizio della legislatura e la nascita di un governo».
Ad oggi c’è uno stallo: Bersani rischia di fallire?
«Lo stallo c’era il giorno dopo le elezioni, ma il Pd ha preso l’iniziativa disegnando una possibile via di uscita, anzi l’unica via uscita: la nascita del governo Bersani e la grande convenzione per le riforme».
Il Pd esplode se il segretario non ce la fa?
«Lavoriamo perchè non fallisca e non discutiamo delle subordinate».
Però ci sono. Un governo istituzionale, del presidente, appoggiato da tutte le forze, sarebbe inevitabile in seconda battuta?
«L’impianto non può mutare: non si può pensare alla nascita di una maggioranza tra noi e Berlusconi anche per il dopo. Quello che abbiamo escluso per l’oggi, lo escludiamo anche per il domani».
Nel Pd i renziani ritengono possibile l’unità nazionale a sostegno di un governo “del presidente”.
«Nel partito si discute. Ma è curioso che chi oggi esclude l’ipotesi del governo con il Pdl, la consideri domani un’ipotesi possibile. Sarebbe contro la logica».
Se Napolitano decidesse in questo senso, i Democratici cosa farebbero?
«Napolitano ha il dovere di dare un governo al paese, perchè questo è ciò che la Costituzione chiede al presidente. Le forze politiche valutano. Ma non credo che il Pd possa mutare atteggiamento. Un governo, quale che sia, sostenuto da una maggioranza Pd-Pdl, non è utile al paese».
(da “La Repubblica”)
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Marzo 27th, 2013 Riccardo Fucile
LA SORELLA DI MASSIMILIANO E LA MOGLIE DI SALVATORE NELLA TRIBUNA DEGLI OSPITI A MONTECITORIO: TRA LE MANI LA BANDIERA DEL BATTAGLIONE SAN MARCO
«Riportate a casa mio marito». Ha urlato tutta la sua rabbia verso l’emiciclo dei parlamentari Giovanna Ardito, la moglie del marò Salvatore Girone presente in aula durante il dibattito alla Camera sul caso dei militari italiani in India.
Stringe tra le mani la bandiera del Battaglione San Marco.
Con lei c’è anche Franca Latorre, sorella di Massimiliano
I parenti dei due marò pugliesi sotto processo in India, accusati di aver ucciso due pescatori indiani, non mollano, non vogliono mollare: «I nostri ragazzi – dice Franca Latorre con voce concitata, parlando al telefono con l’Ansa – devono tornare rapidamente qui».
«La politica – aggiunge la sorella del marò – deve essere unita. Non possiamo abbandonarli. Devono tornare», ripete.
Il boato delle dimissioni del ministro degli Esteri Giulio Terzi in disaccordo con le decisioni del governo, le affermazioni del ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, lo stupore del presidente Napolitano di fronte a dimissioni non preannunciate, non hanno per nulla impaurito le due donne, che oggi sono andate alla Camera per seguire il dibattito riguardante i loro cari.
«La crisi politica non è una cosa che ci fa piacere», dice Franca Latorre solo pochi minuti dopo aver ascoltato l’annuncio delle dimissioni di Terzi.
«Comunque – aggiunge – i ragazzi devono tornare a casa, subito, rapidamente. L’unione fa la forza e la politica si deve unire».
Il terrore della pena di morte, lo spettro di una pena comunque severa, l’atmosfera sempre più tesa che circonda i due fucilieri in India fa battere il cuore alle persone che sono più care a Salvatore e a Massimiliano: i due marò venerdì hanno lasciato la Puglia per tornare in India con gli occhi pieni di lacrime.
«Siamo soldati, – hanno detto – ubbidiamo».
Ma l’inquietudine nei loro cuori e nelle loro case, a Torre a Mare (Bari) e a Taranto, è ora veramente tanta, sembra aver superato ogni argine.
Per questo Vania Girone urla nell’aula di Montecitorio, tra lo stupore generale e della stessa Boldrini, per questo Franca Latorre con il cuore in gola ripete: «Bisogna riportarli qui, subito».
E la sorella del fuciliere non ha dubbi quando ai politici rivolge oggi lo stesso appello che qualche giorno fa ha lanciato via internet Massimiliano: «L’unione fa la forza. Bisogna guardare avanti e bisogna far presto, rapidamente, subito. La volontà politica rispetto a questa vicenda deve essere unica».
«I ragazzi – dice la donna – sono innocenti e devono tornare a casa».
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Marzo 27th, 2013 Riccardo Fucile
“LA CACCIA ALLE STREGHE E’ SOLO UN MODO PER CERCARE DI SERRARE LE FILA”
Giuliano Santoro, da studioso del grillismo, ritiene fondata la denuncia sulle infiltrazioni dei troll nel
blog di Grillo?
«Si tratta di una specie di caccia alle streghe. Leggo la sua uscita come un segnale di debolezza: Grillo comincia a fare i conti con il dissenso. Vede, questi messaggi contrari alla linea ufficiale contraddicono la sua idea della rete come un’entità unica, il famoso “popolo del web”.
Ora, “il popolo del web” non esiste, è una sua costruzione ideologica, la rete è semplicemente uno spazio pubblico nel quale agiscono varie forze, che talvolta confliggono tra loro. Questa vicenda lo dimostra una volta di più».
Ma perchè giudica l’affondo una debolezza?
«Volendo schematizzare finora il blog di Grillo funzionava così: il comico-leader detta l’agenda e gli spettatori-lettori la condividono su Facebook, che è un formidabile moltiplicatore di contenuti, un luogo dove solo una piccola minoranza produce contributi originali. Gli altri si limitano a commentare con un “mi piace”. Ecco, i tanti commenti critici verso gli ordini calati dall’alto sovvertono questa passività »
Grillo incita alla caccia all’infiltrato. Ma com’è possibile scovarlo?
«Non vedo come potrebbe, da un punto di vista pratico. Il suo invito rappresenta piuttosto un messaggio politico, un modo per serrare le fila, respingere il nemico esterno. È l’ennesimo tentativo di colpevolizzare il dissenso. Lo scrive lui stesso nel suo post di domenica, quando parla di «divisori venuti per separare ciò che è oscenamente unito». I dissenzienti, sono, in questa logica, i fautori di una guerra che cerca di rompere l’unità fittizia e autoritaria che c’è nei 5 Stelle».
Reggerà questa unità oppure al Senato si spaccheranno, votando la fiducia a un governo Bersani?
«Penso che nel breve periodo l’unità non si romperà . Anzi, i loro auspici si stanno realizzando, visto che c’è il rischio concreto di un governissimo. Il che confermerebbe il loro frame: da un lato ci sono i partiti, che sono tutti uguali, e dall’altro ci sono i 5 Stelle. Per questo, se solo provi a ragionare, anche usando un pensiero autonomo dai partiti, ti zittiscono con un “allora ti paga il Partito democratico”».
Cosa l’ha colpita dei loro primi passi in Parlamento?
«La capacità incredibile di concentrarsi sui dettagli, di spostare cioè l’attenzione su questioni simboliche ed emotive, a scapito di quelle materiali e razionali».
Può fare un esempio?
«Si parla di “rendicontare le caramelle”, e s’ignora l’importantissimo vertice dei primi ministri di Bruxelles. Insomma, si punta di continuo alla pancia degli elettori, senza spiegare come uscire dalla crisi».
Concetto Vecchio
(da “La Repubblica“)
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Marzo 27th, 2013 Riccardo Fucile
L’APPARTAMENTO PONTIFICIO E’ PRONTO, MA PER ORA IL PAPA PREFERISCE CONTINUARE AD ABITARE NELLA SUA SUITE DEL DOMUS SANTA MARTA
“Papa Francesco resta a vivere nel pensionato Domus Santa Marta e non si trasferisce, almeno per ora, nell’Appartamento Pontificio”.
Lo ha annunciato il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi.
“Papa Francesco pensa di voler vivere in modo normale”, ha spiegato Lombardi precisando che la Domus Santa Marta ospita abitualmente una cinquantina di prelati in servizo presso i dicasteri della Santa Sede.
“Questa mattina il Papa ha celebrato la messa davanti agli ospiti abituali della Domus Santa Marta e ha fatto capire loro che è sua intenzione rimanere con loro”, ha chiarito ancora il direttore della Sala stampa vaticana.
A 14 giorni dall’elezione, ha ricordato, “siamo in una situazione di inserimento e sperimentazione, per così dire.
Rispettiamo la sua scelta, anche se l’appartamento pontificio è pronto”.
“Intanto – ha precisato sempre Lombardi – si è trasferito alla 201, cioè nella suite che avrebbe dovuto ospitarlo subito dopo l’elezione dello scorso 13 maggio. E le stanze che erano state riservate ai cardinali elettori sono state riprese dai normali abitatori”.
Papa Francesco, ha commentato ancora il portavoce vaticano, “sperimenta questa convivenza: è una situazione di esperimento, manifesta questo desiderio di continuare a essere presente nella stessa casa che sta abitando dall’inizio del Pontificato. E dove ora sono tornati i sacerdoti e vescovi che vi risiedevano prima, tra i quali c’è anche il cardinale Giovanni Coppa”.
“Su quanto durerà questa convivenza non faccio previsioni di lungo periodo”, ha concluso padre Lombardi aggiungendo però che papa Francesco per gli incontri “usa ormai sistematicamente l’Appartamento delle udienze alla Seconda Loggia”.
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Marzo 27th, 2013 Riccardo Fucile
IL PRIMO CITTADINO DI LEINI’ AL PROCESSO MINOTAURO DOVE E’ IMPUTATO DI CONCORSO ESTERNO: “NESSUNA INFILTRAZIONE, UN IMPRENDITORE NON CHIUDE MAI LA PORTA”
“Se c’è un paese che non ha infiltrazioni mafiose nè mafiosi è Leinì”. 
Lo ha dichiarato oggi ai magistrati di Torino Nevio Coral, ex sindaco di Leinì, durante il maxiprocesso “Minotauro” contro la ‘ndrangheta che lo vede imputato per concorso esterno in associazione mafiosa.
Il Comune alle porte del capoluogo piemontese di cui è stato dominus incontrastato per più di un decennio, prima come sindaco poi passando lo scettro al figlio Ivano, è stato sciolto per mafia dal governo Monti nel marzo 2012.
Secondo la procura Coral, arrestato nel giugno 2011 e oggi ai domiciliari, è stato una macchina da soldi per la ‘ndrangheta, che ha potuto così spartirsi appalti e subappalti nel Canavese e nei cantieri del suo gruppo industriale in cambio di pacchetti di voti.
Un “biglietto da visita” da usare in banca per ricevere credito.
Nell’aula bunker delle Vallette, l’imprenditore e politico di successo, noto anche come suocero e sponsor elettorale di Caterina Ferrero, ex assessore alla Sanità della giunta di Roberto Cota coinvolta in un’inchiesta su favori, mazzette e appalti, ha ripercorso con voce rotta la sua storia di self-made man, arrivato in Piemonte dal Veneto.
“Ho la terza media, ho iniziato giovanissimo, ho vissuto in una baracca di legno”.
Per lui, uomo di destra con una “particolarissima simpatia per Craxi”, l’avventura politica è iniziata quasi per caso, nel 1994, quando Forza Italia lo ha presentato come uomo nuovo dopo due anni di commissariamento del Comune, sciolto una prima volta nel 1992 per una mini tangentopoli che aveva portato in carcere alcuni assessori e il vice sindaco. “Ero il Grillo di tanto tempo fa, ma con i piedi per terra” racconta lui.
È orgoglioso, Coral, di quanto è riuscito a costruire a Leinì, che nei 10 anni della sua amministrazione è passato da 11mila a 15mila abitanti, con una crescita di circa 2-3 mila unità abitative.
Ed è riuscito a fondare un’Università su cui la Presidente della corte Paola Trovati gli ha chiesto chiarimenti: “Vede che lei non sa che c’è l’università ? Vede che quando noi di destra facciamo qualcosa, voi magistrati..”, le ha risposto Coral.
Gran parte dei lavori fatti a Leinì sono passati dalla Provana Spa, il “capolavoro” di Coral, una società “in house” che secondo la relazione d’accesso prefettizia ha rappresentato “il mezzo di cui quest’ultimo si è servito per concludere gli affari illeciti con i boss” e grazie al quale “è riuscito a pilotare (e sperperare) una mole impressionante di denaro pubblico derivante sia dalle casse del municipio che da sovvenzionamenti europei aggiudicati tramite l’Ente Regione Piemonte”.
Coral si è sempre mosso con disinvoltura nel mondo delle costruzioni.
“Facendo il Sindaco ho cercato di far vedere che noi imprenditori, credo che qui siamo tutti imprenditori ognuno nella sua misura, non è vero che siamo dei disonesti, abbiamo solo bisogno di lavorare ..” ha detto durante una cena elettorale ai suoi invitati.
Esponenti della ‘ndrangheta e pregiudicati, chiamati a sostenere la candidatura del figlio Ivano, suo erede nel ruolo di sindaco a Leinì, nel 2009 in corsa per una poltrona alla provincia.
Coral ha detto di non sospettare nulla della loro identità nè della presenza della ‘ndrangheta sul territorio di cui è stato sindaco.
“Nel 2003 è morto un mafioso nel quartiere Tedeschi, poi non ne abbiamo avuti altri”, ha detto. Di quanto fossero importanti certe relazioni era invece ben consapevole, perchè “la comunità calabrese è la nostra ricchezza” aveva ammesso alla cena.
Un appuntamento rivelatosi imbarazzante, che Coral giustifica con queste parole: “Proporre la cena è il modo di fare dell’imprenditore, che non chiude mai la porta”.
È il suo stile, dice.
Secondo la magistratura Nevio Coral dopo quella cena ha pagato 24mila euro per la campagna elettorale a favore del figlio Ivano presso le “famiglie” calabresi.
Ma le cifre dei suoi accordi, secondo le ricostruzioni, sembrerebbero essere state ben altre.
Si parla di centinaia di migliaia di euro, che lui nega risolutamente.
“Perchè noi non siamo una famiglia che ha bisogno di comprare i voti”, dice, e lui sa fare bene il suo mestiere.
Elena Ciccarello
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 27th, 2013 Riccardo Fucile
QUARANTENNI, RINNOVATORI MA DIVISI SUL FUTURO: LA CARICA DEI GIOVANI TURCHI ANTI-SILVIO
Diffidati dalla comunità armena – in nome del rispetto delle vittime del genocidio – e dalla presidente dell’Associazione Italia-Armenia (la collega di partito Sandra Zampa), i “giovani turchi” del Pd non sanno al momento come ribattezzarsi.
Tra le ipotesi: la “gauche” democratica; i “rinnovatori”; quelli di “Rifare l’Italia”; i T/q, ovvero i Trenta/quarantenni (e qui si sono lamentati un gruppo di scrittori omonimi).
Avvertono: «O Bersani o voto».
Nessuna subordinata, nè piano B, e soprattutto nessun accordo con il Pdl nè presente nè futuro. Lo ribadiscono in ogni occasione.
Matteo Orfini, Andrea Orlando, Stefano Fassina sono le figure-traino, ma da un anno a questa parte, da quando cioè sono nati come corrente filo Bersani (e contro la nomenklatura) con Francesco Verducci, la vicentina Alessandra Moretti, il torinese Stefano Esposito, la toscana Silvia Velo, si sono persi un po’ di pezzi.
E ormai è in atto una mini- diaspora.
Ci sono infatti quelli che pensano già al “dopo Bersani” (Orfini) e quelli che non ne vogliono sentire parlare (Moretti). Ma hanno acquistato sempre maggiore peso politico, in virtù del ricambio generazionale.
Il nome, affibbiatogli dai media, ma a loro molto gradito, doveva essere quello del movimento politico d’inizio Novecento nell’impero ottomano e ricordare il travaglio di rinnovamento che portò Kemal Ataturk al potere.
Non i primi nè gli ultimi a evocare quei giovani turchi: anche la nouvelle vague cinematografica di Truffaut, Godard, Chabrol si chiamò a un certo punto «les jeunes turcs».
Orfini dice che, se Bersani fallisse, si va al voto ma con un candidato premier nuovo: «Non si può avere due volte una chance come quella della premiership, non può essere Bersani ». Orlando nega si possa parlare del “dopo” nel momento di massimo sforzo del segretario.
Orfini è l’unico dalemiano della squadra, 39 anni, casa al Tufello, 3.300 euro di stipendio del partito come responsabile del Dipartimento Cultura fino all’altroieri.
Oggi i “giovani turchi”sono tutti parlamentari
Stefano Fassina nasce bersaniano, economista: a testa bassa ha attaccato Monti nei tredici mesi di governo del Professore.
Ha smantellato punto per punto l’Agenda montiana.
È stato la testa d’ariete della battaglia contro il sindaco “rottamatore” Renzi, che definì “il portaborse di Lapo Pistelli”.
Se n’è uscito avvertendo che non bisogna sabotare Bersani. Su Twitter Antonello Giacomelli, ex capo della segreteria di Franceschini, gli ha risposto: «Ma cos’è un’autocritica?».
Sono stati comunque loro a suggerire a Bersani i nomi di Laura Boldrini e di Pietro Grasso alle presidenze delle Camere.
Lo rivendicano.
In una riunione volante nell’aula di Montecitorio, durante una pausa dei lavori, reclutando anche Daniele Marantelli, hanno parlato con Bersani della strategia del cambiamento.
Teorizzano un confronto possibile con la Lega (e non con il Pdl). Lo ha detto Fassina.
Anche qui, scatenando un putiferio di tweet.
Hanno comunque giurato, come tutti nel Pd, che nelle 72 ore dell’arrampicata di Bersani in queste consultazioni, saranno prudenti.
«Fiducia fino all’ultimo al segretario – vanno ripetendo -. Poi però, ci chiariamo: e c’è soltanto il ritorno alle urne».
(da “La Repubblica“)
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Marzo 27th, 2013 Riccardo Fucile
LO STRANO CASO DI UN PARTITO CHE VINCE LE ELEZIONI, PUO’ DARE LE CARTE MA NON E’ UNITO… MENTRE IL CENTRODESTRA BERLUSCONIANO CHE LE HA PERSE SEMBRA DETTARE LE CONDIZIONI GRAZIE ALL’ILLUSIONISMO DEL SUO LEADER
Per la prima volta nella storia repubblicana un partito di sinistra ha vinto le elezioni politiche o
almeno è arrivato primo in termini di voti (i grillini imparino a contare e abbandonino la loro infantile arroganza) e detiene la maggioranza assoluta dei seggi nella camera più rappresentativa.
La destra berlusconiana non ha ragioni per lamentarsi di questa distorsione della rappresentanza: il porcellum con il premio di maggioranza lo ha voluto lei.
Inutile che si metta a strillare che non è giusto che chi arriva primo si prenda tutto, ci doveva pensare prima quando ha confezionato quella legge elettorale a suo uso e consumo.
Il Pd è quindi il primo partito, quello che ha in mano quasi tutte le carte.
Il Pdl, al contrario, è precipitato al terzo posto perdendo circa la metà dei suoi voti e raccogliendo un risultato abissalmente lontano da quanto Forza Italia e Alleanza Nazionale insieme ottenevano.
La destra italiana, Lega compresa, non è mai stata così debole.
Anzi, al di sotto di questa quota difficilmente potrà scendere. Eppure si comporta da vincitrice.
E con questo si conferma la fantastica dote illusionistica del suo leader , capace di trasformare una cocente sconfitta in una simil- vittoria. Berlusconi riesce a farlo perchè trova compiacenti cantori in quella opinione pubblica che fino a qualche mese lo dipingeva quasi con disprezzo— si parlava addirittura, con atteggiamento maramaldeggiante, di “declino fisico” — mentre ora, spaventati del ritorno del Caimano si affrettano a cantare le lodi, salvo qualche piccola tirata di orecchie per un nonnulla come l’assalto al Palazzo di Giustizia di Milano
Ernesto Galli della Loggia nella sua recente requisitoria contro la classe dirigente nazionale avrebbe dovuto aggiungere anche la propensione al salto nel carro dei vincitori: una specialità in cui non temiamo confronti, purtroppo.
Ma la sensazione di una destra vittoriosa pur ridotta al lumicino viene anche dalle contraddizioni del Pd.
Solo un partito confuso e incerto può lasciar cadere nel dimenticatoio il risultato che ha raggiunto.
Che sia avvenuto per il rotto della cuffia e sia monco di una maggioranza in una Camera deve essergli ben presente per non cadere nel delirio di onnipotenza.
Però c’è un limite anche al masochismo. Il Pd vi si sta invece tuffando dentro. Gli manca la convinzione di sè.
Si sta ripetendo quanto era avvenuto nel 2008 quando l’ottimo e insuperato risultato di allora venne buttato alle ortiche e il partito si pianse addosso per non aver vinto, cioè per non essere arrivato primo.
Ora che il Pd ce l’ha fatta, di nuovo rischia la crisi di nervi.
Per arrivare al traguardo Bersani deve superare ogni tipo di ostacolo, ivi compreso quello che viene dalle sue file, dalla mancanza di sostegno effettivo al suo tentativo. Anche se nessuno ha il coraggio e l’onestà di dichiararlo apertamente nelle sedi proprie, e non nei salotti televisivi, a Bersani manca quello che sorregge Berlusconi: un partito unito, disposto a seguirlo fino in fondo.
Questa debolezza ha ridotto fin da subito le chance di successo del segretario del Pd. Se così non fosse, il partito avrebbe avuto buon gioco a dire che questa era l’unica possibilità per proseguire la legislatura: quando si ha il controllo di una Camera non si può forse governare ma certamente si può impedire di fare nascere ogni altro governo. Oggi invece assistiamo ad un Berlusconi che impone— o per lo meno cerca di imporre — le sue scelte ed è pronto con il suo 30% a scatenare le piazze e impedire alle camere di lavorare, mentre il Pd se ne sta come un agnellino tremante ad attendere che sorte gli toccherà , senza avere il coraggio delle proprie scelte.
A forza di essere responsabile e ragionevole come molti gli intimano di fare, il partito perde ogni credibilità .
Di fronte a tante e tali pressioni il Pd può reggere solo se si dimostra compatto e consapevole della propria forza e della gravità della sfida.
Se ritiene cioè di avere ancora un “senso” e quindi una mission.
O il Pd comprende che verrà giudicato dal suo elettorato – indipendentemente dalle valutazioni della cosiddetta classe dirigente – sulla capacità di reggere sulle proprie posizioni e di non cedere al ricatto del Signore di Arcore, oppure le sue spoglie saranno spartite tra grillini e altri che verranno.
Piero Ignazi
(da “La Repubblica”)
argomento: Partito Democratico, PD | Commenta »