Ottobre 29th, 2014 Riccardo Fucile
“LA NORMA SULL’IRAP FAVORIRA’ SOLO LE GRANDI IMPRESE RIDUCENDOGLI I COSTI, MA NON AVRA’ ALCUN EFFETTO SULL’OCCUPAZIONE”
A un certo punto Susanna Camusso interrompe questa intervista, si alza, sigaretta in mano, e va verso
la bacheca del suo ufficio con affaccio su Villa Borghese.
Tra foto, messaggi, ricordi e volantini della Cgil, c’è un lancio di agenzia con una dichiarazione di Sergio Marchionne del 2 ottobre scorso.
Parla del mercato del lavoro, l’ad di Fca, della necessità di togliere «i rottami dai binari».
Ed è questo, spiega, il compito affidato a Renzi. Precisa: «L’abbiamo messo là per quella ragione lì».
Il segretario generale della Cgil si risiede: «Vede, quella dichiarazione non è mai stata smentita. A me colpisce molto che un cittadino svizzero che ha spostato le sedi legale e fiscale della Fiat all’estero possa dire del nostro presidente del Consiglio “L’abbiamo messo là ” e che lo possa fare senza suscitare alcuna reazione».
Cosa vuol dire, segretario?
«Questo spiega l’attenzione del governo nei confronti dei grandi soggetti portatori di interessi particolari».
Il governo dei “poteri forti”?
«Quelle parole di Marchionne illustrano meglio di qualsiasi altro ragionamento perchè questo governo non ha alcuna disponibilità a confrontarsi con chi, come i sindacati, rappresenta interessi generali, non corporativi».
Ma il governo non copiava, secondo la Cgil, i documenti preparati dalla Confindustria? E Confindustria non rappresenta tutte le imprese?
«Il governo copia le proposte delle grandi imprese di Confindustria ».
Dove sono in Italia le grandi imprese?
«La Fiat, le partecipate dal Tesoro… Ce ne sono e sanno fare lobby».
Eppure Squinzi ha detto che il taglio dell’Irap è “un sogno” che vale per tutte le aziende.
«Constato che per come è la norma dell’Irap favorirà prevalentemente le grandi imprese riducendo i loro costi. Ma non avrà alcun effetto sull’occupazione».
La Cgil, dunque, non rinuncia all’idea di cambiare la legge di Stabilità
«Non rinunciamo affatto all’idea di poter cambiare la Stabilità come le riforme che sono state presentate. Non si può pensare di cambiare la pubblica amministrazione tagliando i posti di lavoro e non tagliando le 30 mila stazioni appaltanti dove si annidano gli interessi dei poteri forti, quelli che paralizzano l’attività della pubblica amministrazione. Faccio un altro esempio: il Tfr è salario differito, i fondi integrativi sono frutto della contrattazione. Questo governo vuole aumentare le tasse sul Tfr e penalizzare la previdenza integrativa. E i sindacati non avrebbero titolo a discuterne? Aggiungo, in generale, che una politica economica espansiva non può ridursi al taglio delle tasse e della spesa. Come dimostra la ripresa americana sono necessari gli investimenti anche pubblici».
Con quali risorse?
«L’abbiamo già detto: serve una patrimoniale. Ce l’ha anche la Germania»
Ma il governo ha detto che con voi non contratta.
«Mi pare che la parola contrattare sia diventata un’ossessione di questo governo. Noi non abbiamo dubbi che le leggi vadano discusse e approvate in Parlamento. Siamo talmente convinti che ci preoccupa l’ampio uso che si fa del voto di fiducia. E poi questo governo non può certo dire che non ci siano state trattative extraparlamentari come per esempio sulla legge elettorale, sulle riforme istituzionali o sulla riforma delle giustizia con l’ordine degli avvocati. Non ci si confronta solo con chi ha una rappresentanza generale. Anche se il ministro Poletti quando ha aperto l’incontro di lunedì non ha escluso la possibilità di un intervento del governo per emendare, eventualmente, la legge di Stabilità . Poi l’incontro è finito in un altro modo. Non so perchè. E non so nemmeno perchè su alcuni giornali sia stato raccontato un incontro diverso da quello al quale ho preso parte io. Continuo a pensare che sia stato surreale il fatto che i ministri non si siano espressi sulle nostre osservazioni. Si ascoltano le corporazioni, ma non chi rappresenta il lavoro. E il lavoro è stata la grande domanda della manifestazione di sabato».
A cosa è servita quella manifestazione?
«Ha cambiato tante cose. Intanto, con lo stupore di molti, si è visto che il sindacato non è fatto solo di pensionati, ma anche di giovani, di precari, di disoccupati. Si è visto che includiamo e che non dividiamo come fa il governo».
Dopo le critiche di Renzi, segretario del Pd, alla Cgil, lei rinnoverà la tessera al partito?
«Non rispondo a questa domanda perchè dietro di essa c’è la stessa logica che ha portato a guardare la manifestazione di sabato come un’iniziativa all’interno del dibattito del Pd. Invece quella era una piazza del lavoro».
Lei comunque è un’iscritta al Pd: c’è il rischio di una scissione? Cosa pensa di Landini leader di un nuovo partito di sinistra?
«Sono il segretario generale della Cgil. Ho la responsabilità di difendere l’autonomia del più grande sindacato italiano e non intervengo nelle vicende interne di un partito. Per quanto riguarda Maurizio mi immagino che abbia la stessa opinione sull’autonomia del sindacato».
Perchè quando Renzi ha detto che è finita l’epoca del posto fisso lei ha risposto che non sa di cosa parla?
«Perchè non c’è alcuna relazione tra il cosiddetto posto fisso e l’articolo 18. Ed è lo stesso governo a riconoscerlo nel Jobs Act. Renzi rispolvera un argomento di Monti di tre anni fa. La differenza è che allora la Confindustria diceva che non era quello il problema, mentre oggi ha un’altra linea».
Torniamo ai poteri forti. Mi dica: quando proclamerete lo sciopero generale?
«Calibreremo le nostre iniziative mantenendo i nervi saldi. Ci saranno gli scioperi articolati, manifestazioni iniziative e poi faremo lo sciopero generale. Lo deciderà come sempre il nostro Comitato direttivo convocato per metà novembre».
Roberto Mania
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 29th, 2014 Riccardo Fucile
I RENZIANI COSTRETTI A RIPETERE: “SIAMO DI SINISTRA”, FORSE PER AUTOCONVINCERSI
Con le tifoserie schierate intente a sbertucciarsi come in seconda media, i dispetti tra piazze (e piazzette) contrapposte, le arrampicate sui vetri da dibattito televisivo, non è facile tentare un ragionamento complessivo.
Si aggiunga che la legge di Stabilità ha ormai più versioni di una canzone dei Beatles (acustica, elettrica, in slide, versione Quirinale, merengue, heavy metal, versione europea, e altre ne verranno), e la confusione aumenta.
Si aggiunga ancora che non si parla d’altro che delle differenze interne al corpo mutante della sinistra o di quel che fu (politiche… no, economiche… no, culturali… no, antropologiche, eccetera), il che mette in gioco passioni personali che certo non aiutano la serenità dell’analisi.
Ma insomma, ora, alla fine ci siamo. E siccome non sono più i tempi della nostalgia, dei gettoni, dei rullini e di Lenin, non faremo la solita domanda: Che fare?, ma ci chiederemo più smart e friendly: and now?
Certo, c’è il caso che per qualche tempo il lavoratore in mobilità e l’imprenditore che lo licenzia possano votare per lo stesso partito.
Ma è possibile ciò in un momento in cui si prendono decisioni storiche per le vite dell’uno e dell’altro? Un italiano alle prese con l’angoscia del futuro e con la difesa del posto del lavoro, può sostenere in modo convinto un premier che lo chiama dinosauro, accusandolo di non vedere il luminoso futuro che è solo l’inizio?
Ovvio, la società è una faccenda parecchio complessa, tra il ragazzotto azzimato della Leopolda e il metalmeccanico col fischietto di piazza San Giovanni ci sono milioni di sfumature . Però è fatale che qualcosa si romperà .
Io sento la frase “a sinistra del Pci/Pds/Ds/Pd” da quando giocavano Mazzola e Rivera e mio padre aveva la Millecento, dunque aspetto con la trepidazione mista a scetticismo dell’abbonato di lungo corso.
Ma è la prima volta che vedo distintamente in atto la creazione di una cosa “a destra del Pd”.
Segnali piccoli e grandi: i dirigenti locali di Forza Italia che votano alle primarie del Pd, fascinazione per Marchionne, applausi dalla destra giornalistica (Foglio, Giornale e Libero battono le mani spesso), imprenditori del cachemire presentati come geni del Rinascimento, articolo 18, Fanfani meglio di Berlinguer, il finanziere londinese che discetta del diritto di sciopero, sberleffi al mondo del lavoro, lotta ai corpi intermedi e rapporto diretto tra leader e popolo, tipo balcone.
Ecco. Con l’aggiunta che la piazza di San Giovanni interessa meno, ed è elettoralmente molto meno pesante, della piazza televisiva della D’Urso, gentilmente concessa dal capo dell’opposizione.
I sostenitori entusiasti, costretti a ripetersi come un mantra che loro “sono di sinistra”, forse per convincersi , fanno il resto sul piano teorico.
Il Partito della Nazione, di cui si legge da qualche tempo, è un’idea forte e pare in corso di attuazione, anche se strisciante.
Un partito del Premier che si mangerà molto a destra, mentre la grande incognita rimane a sinistra.
Dove andranno gli elettori accusati di essere trogloditi coi gettoni del telefono? Rimasugli ingombranti del secolo passato? Per ora hanno solo i vecchi, cari corpi intermedi, come va di moda chiamare il sindacato dei lavoratori.
Per i resto sono soli. Politicamente abbandonati all’autogrill, legati al guardrail perchè non provochino incidenti, con una ciotola d’acqua da ottanta euro e nient’altro. Nessuno che compaia per adottarli e ridare loro una famiglia.
Alessandro Robecchi
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Ottobre 29th, 2014 Riccardo Fucile
L’AMMIRAGLIO: ANDIAMO AVANTI CON MARE NOSTRUM A FIANCO DEI MEZZI UE”… L’AFFOGATORE “CATTOLICO” REPLICA: “USCIREMO DALLA MISSIONE”
Dopo gli annunci di Angelino Alfano sulla chiusura dell’operazione umanitaria «Mare Nostrum» fissata
per il primo di novembre, l’ammiraglio Filippo Maria Foffi – comandante in capo della flotta italiana e dunque responsabile della missione nelle acque del Mediterraneo – va a Bruxelles e dichiara: «Andiamo avanti, non abbiamo ricevuto alcun ordine ufficiale e dunque proseguiremo anche quando inizierà “Triton”, la nuova operazione Frontex nel mar Mediterraneo, per facilitare un passaggio di consegne efficace e senza problemi di sorta».
L’irritazione del ministro è evidente nella risposta che arriva poco dopo dal Viminale: «L’ordine arriverà non appena il Consiglio dei ministri fisserà i tempi – precisa –. L’uscita da “Mare Nostrum” sarà velocissima».
Lo scontro è dunque aperto. E provoca non poco imbarazzo anche al ministero della Difesa.
Del resto, i soldi non ci sono, e non è stato previsto alcun nuovo stanziamento anche perchè l’Italia peracottara di Renzi e Alfi aveva già fatto sapere di non poter sostenere una spesa di nove milioni di euro al mese.
Dunque quella dell’alto ufficiale appare una provocazione. Anche perchè arriva nelle stesse ore in cui il governo britannico attacca l’Unione Europea e fa sapere che non sosterrà «le operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterrano perchè riteniamo che queste missioni creino un fattore di attrazione involontario, incoraggiando più migranti a tentare la traversata pericolosa del mare, determinando così le morti più tragiche e inutili».
Il malumore della Marina per la decisione di sospendere «Mare Nostrum» non è mai stato nascosto, tanto che nelle riunioni operative delle ultime settimane era stato ipotizzato di lasciare comunque una linea avanzata rispetto a quella «coperta» dall’Unione Europea con «Triton» (fissata a una distanza di trenta miglia dalle coste italiane) anche per garantire lo screening sanitario dei migranti.
Ipotesi ritenuta poco percorribile, pur se non ancora esclusa in maniera definitiva.
In realtà , i nostri militari avrebbero però voluto avere un ruolo di primo piano all’interno della nuova operazione sotto le insegne di Frontex, una sorta di «comando» che invece non è stato riconosciuto. E la reazione dei vertici non si è fatta attendere.
Nel suo intervento a Bruxelles, parlando di fronte al Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli, Foffi è stato esplicito, a tratti quasi ironico: «Non ho visto ancora nessun documento ufficiale riguardante Triton, soltanto molte bozze di lavoro, quindi non mi sento di commentare sulle forze che saranno messe in campo dall’agenzia per il controllo delle frontiere esterne dell’Unione, ma mi rallegro per quanto ho sentito oggi proprio da un funzionario di Frontex, che ha rassicurato sul fatto che con Triton parteciperanno anche a operazioni di salvataggio di vite in mare».
L’ammiraglio tiene a sottolineare che «fino a questo momento le decisioni del governo italiano, in particolare quella di continuare con “Mare Nostrum” per oltre un anno, sono state responsabili», come a lasciare intendere che la sospensione invece non lo è.
Quindi evidenzia come «dopo aver agito da soli, con il solo aiuto di una nave slovena, sono contento che finalmente la Ue si prenda le sue responsabilità e metta in campo una vasta operazione i cui risultati, però, dipenderanno dalla volontà di collaborare di tutti gli Stati membri e dai mezzi che saranno messi a disposizione».
Poi il passaggio chiave: «”Mare nostrum” va avanti esattamente come è cominciata il 18 ottobre dell’anno scorso e collaboreremo con Frontex con tutte le capacità di cui disponiamo. Quando abbiamo iniziato, pensavamo durasse soltanto per un paio di mesi. Poi, con il passare del tempo, nessuno ci ha detto di smettere. Sicuramente riceveremo ordini a livello politico di interrompere l’operazione, ma al momento tali ordini non sono ancora arrivati».
Alfano fa sapere che accadrà prestissimo. Chissà se basterà a chiudere la polemica.
Fiorenza Sarzanini
(da “il Corriere della Sera“)
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Ottobre 29th, 2014 Riccardo Fucile
NAPOLITANO RICORDA LE CONSULTAZIONI CON SCALFARO E SPADOLINI SULLA PISTA CORLEONESE E IL MOVENTE DI ”AUT AUT” ALLE ISTITUZIONI… MA I SERVIZI DEPISTAVANO
Chissà che cosa scriverà , ora, chi aveva teorizzato che la testimonianza di Napolitano era inutile, superflua, un pretestuoso accanimento dei pm di Palermo a caccia di vendette per il conflitto di attribuzioni, un pretesto per “mascariare” il presidente della Repubblica agli occhi degli italiani e del mondo intero, per trascinarlo nel fango della trattativa Stato-mafia, per spettacolarizzare mediaticamente un processo già morto in partenza sul piano del diritto, naturalmente per violare le sue prerogative autoimmunitarie, e altre scemenze.
Quel che è accaduto ieri nella vecchia Sala Oscura del Quirinale è la smentita più plateale e, per certi versi, sorprendente di tutti gli inutili (quelli sì) fiumi d’inchiostro versati per un anno e mezzo da corazzieri, paggi e palafrenieri di complemento che, con l’aria di difendere Giorgio Napolitano, hanno guastato forse irrimediabilmente la sua immagine pubblica, spingendolo a trincerarsi dietro segreti immotivati, privilegi inesistenti, regole riscritte ad (suam) personam e spandendo tutt’intorno a lui una spessa e buia cortina fumogena che ha indotto molti cittadini a sospettare.
Quando ieri, finalmente, il capo dello Stato s’è trovato di fronte ai giudici e ai giurati della Corte d’Assise, ai quattro pm e ai legali degli imputati (mafiosi, carabinieri e politici) e delle parti civili, è stato lui stesso a dissipare — per quanto possibile — tutto quel fumo.
Facendo la cosa più normale: rispondere alle domande dicendo la verità , come ogni testimone che si rispetti.
E, finalmente libero dai cattivi consiglieri, ha preso atto che la ricerca della verità è il solo movente che anima i giudici e i pm di questo processo: nessuno vuole incastrare o screditare nessuno, tutti vogliono sapere cos’accadde fra il 1992 e il 1993, mentre Cosa Nostra attaccava il cuore dello Stato e pezzi dello Stato la aiutavano a ricattarlo, scendendo a patti e firmando cambiali in bianco. Insomma, ha detto la verità .
E così, consapevolmente o meno, ha fornito un assist insperato alla Procura di Palermo.
L’aut aut. Ripercorrendo i suoi ricordi e anche i suoi appunti di ex presidente della Camera, Napolitano ha fornito un contributo che forse nemmeno i magistrati si aspettavano così nitido e prezioso, confermando in pieno l’ipotesi accusatoria alla base del processo: che, cioè, i vertici dello Stato sapessero benissimo chi e perchè metteva le bombe.
Per porre le istituzioni dinanzi a quello che Napolitano ha definito un “aut aut”: o lo Stato allentava la pressione e la repressione antimafia, cominciando dall’alleggerimento del 41-bis, oppure si consegnava alla strategia destabilizzante di Cosa Nostra, che avrebbe seguitato ad alzare il tiro dello stragismo per rovesciare l’ordine costituzionale.
I fatti — all’epoca sconosciuti a Napolitano, ma persino al premier Carlo Azeglio Ciampi — ci dicono che fra il giugno e il novembre del 1993 quell’allentamento ci fu: prima — all’indomani della bomba in via Fauro a Roma e della strage in via dei Georgofili a Firenze — con la rimozione al vertice delle carceri del “duro” Nicolò Amato, rimpiazzato con il “molle” Adalberto Capriotti e col suo vice operativo Francesco Di Maggio; poi — in seguito all’eccidio di via Palestro a Milano e alle bombe alle basiliche romane di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano (Giorgio come il presidente della Camera Napolitano, Giovanni come Spadolini presidente del Senato) — con la revoca del 41-bis a centinaia di mafiosi.
Il risultato, in simultanea con gli ultimi preparativi per la nascita di Forza Italia (da un’idea di Marcello Dell’Utri) e la discesa in campo di Silvio Berlusconi, fu la fine delle stragi.
O meglio, la loro sospensione sine die, per dare a chi aveva chiuso la trattativa il tempo e il modo di pagare le cambiali.
“Violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, cioè al governo, anzi ai governi italiani: questa è l’accusa formulata dalla Procura (e confermata dal Gup) agli imputati di mafia e di Stato.
Un’accusa che la lunga testimonianza di Napolitano sull’“aut aut” mafioso — tutt’altro che inutile, anzi fra le più utili fin qui raccolte — ha clamorosamente rafforzato.
La lettera.
Il contributo meno interessante Napolitano l’ha fornito a proposito di un passo della lettera di dimissioni che gli inviò il 18 giugno 2012 il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, nel pieno delle polemiche per le sue telefonate con Nicola Mancino: “Lei sa di ciò che ho scritto anche di recente su richiesta di Maria Falcone. E sa che, in quelle poche pagine, non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere…”.
Napolitano sostiene che D’Ambrosio non gli disse nulla, anche se riconosce che poi nel libro della Falcone quegli episodi non li raccontò. Ha trovato anche la lettera dattiloscritta che il consigliere inviò alla Falcone, ma assicura ai pm che il testo è identico a quello poi pubblicato. “… (episodi) che mi hanno portato a enucleare ipotesi — solo ipotesi — di cui ho detto anche ad altri…”.
Quell’“anche ad altri” fa pensare, per la seconda volta, che ne abbia parlato anche con Napolitano. Il quale però nega. “…quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Il presidente riconosce che si tratta di frasi “drammatiche”.
Perchè allora non ne chiese conto al suo collaboratore dopo averle lette?
La risposta è evasiva: quando, l’indomani, parlò con D’Ambrosio, lo fece soltanto per convincerlo a ritirare le dimissioni e non affrontò con lui il tema degli “indicibili accordi”.
Ora, visto che D’Ambrosio è morto e gli “altri” destinatari delle sue confidenze sono ignoti, il giallo rimane insoluto. Il 1992. Anche sul 1992 — quando inizia l’attacco ricattatorio di Cosa Nostra allo Stato dopo la sentenza della Cassazione sul maxiprocesso, con il delitto Lima, la strage di Capaci, l’inizio della trattativa del Ros con Vito Ciancimino (intermediario prima con Riina poi con Provenzano), la mattanza di via D’Amelio, l’accantonamento di Ciancimino e le trame di Provenzano per consegnare Riina ai carabinieri — Napolitano ha poco da dire.
Se non che ricorda bene come, alla Camera da lui presieduta, il decreto Scotti-Martelli sul 41-bis, varato il 6 giugno subito dopo Capaci, si arenò e occorse l’omicidio di Borsellino perchè il Parlamento lo convertisse in legge il 1° agosto.
E che, stranamente, il neopresidente dell’Antimafia Luciano Violante, suo compagno di partito, rivelò anche a lui che Ciancimino voleva esser convocato e sentito in commissione (cosa che Violante promise di fare, e poi misteriosamente non fece mai). Per la verità , a raccomandare don Vito per un incontro a tu per tu con Violante, era stato proprio il colonnello Mario Mori, ma questo il compagno Luciano non lo disse al compagno Giorgio. Perchè il presidente dell’Antimafia avvertì proprio il presidente della Camera di quella richiesta di Ciancimino? Napolitano non sa spiegarselo. Il 1993.
Dopo la cattura pilotata di Riina, Cosa Nostra si rifà sotto a suon di bombe per costringere lo Stato a piegarsi. Roma e Firenze a maggio. Poi Milano e di nuovo Roma nella notte fra il 27 e il 28 luglio.
Il presidente ricorda che subito, fin dal 29 luglio, “la Triade” Scalfaro-Spadolini-Napolitano, cioè i massimi vertici dello Stato che condividevano tutte le conoscenze (mutuate dall’intelligence e dalle forze investigative) su quel che stava accadendo, erano certi che anche quelle stragi avevano una matrice mafiosa (“corleonese”, specifica il presidente) e un movente ricattatorio, estorsivo.
Napolitano ricorda di averne parlato col presidente Scalfaro e forse, ma non lo ricorda con precisione, col premier Ciampi. Il quale, dopo il black out dei centralini di Palazzo Chigi nella notte delle bombe, dirà di aver temuto un colpo di Stato e tirerà in ballo la P2.
Non solo Cosa Nostra voleva ricattare lo Stato: ma i massimi esponenti dello Stato si sentivano sotto ricatto di Cosa Nostra.
Napolitano ricorda una imprecisata “pubblicistica” che già all’epoca avrebbe riferito di due correnti divergenti fra i corleonesi: l’ala guerrafondaia e un’ala più morbida (quella di Provenzano). In realtà nessuno allora scrisse mai nulla del genere: lo disse il ministro dell’Interno Mancino, nel dicembre ’92, poco prima della cattura di Riina, in un’incredibile intervista al Giornale di Sicilia. Poi si giustificò con i pm sostenendo di averlo saputo da Pino Arlacchi, consulente della Dia.
Ma l’allora capo della Dia, Gianni De Gennaro, ha smentito: in quei mesi riiniani e provenzaniani risultavano una cosa sola, anzi si pensava che Provenzano fosse addirittura morto.
Solo chi trattava con Ciancimino, e dunque con Provenzano, sapeva che quest’ultimo era vivo e si era smarcato dall’ala stragista. Ma su questi fatti Napolitano non ha nulla di utile da riferire.
Tutti sapevano.
In una nota del Sismi appena scoperta e depositata dai pm, datata 29 luglio ’93 (il giorno dopo le stragi di Milano e Roma), si legge: “Tra il 16 ed il 20 agosto ci sarà un attentato che non sarà portato a monumenti o a teatri, ma a persone. A livello grosso. Una strage. Poi si faranno ad uno grosso (inteso in senso di personalità politica). Spadolini e Napolitano, uno vale l’altro.
Gli autori sono sempre i soliti: quelli là (riferito ai corleonesi?) d’accordo coi grossi (riferito ai politici) e coi massoni”. Parole che fanno scopa con quelle pronunciate ieri da Napolitano, che fra l’altro ha ricordato il rafforzamento delle misure di sicurezza sulla sua persona proprio in quei giorni.
Perchè è così importante, per la pubblica accusa, la testimonianza del presidente sulla matrice corleonese e sulla finalità ricattatoria delle stragi dell’estate ’93 come consapevolezza comune e unitaria fin da subito presso i massimi vertici dello Stato? 1) Perchè, della “triade”, Napolitano è l’unico superstite: Scalfaro e Spadolini sono morti, e così l’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi, uomo-chiave di quella stagione, anche per il suo filo diretto con Scalfaro.
2) Perchè nessun altro uomo delle istituzioni di allora è mai stato così chiaro ed esplicito sul livello di consapevolezza dei rappresentanti dello Stato sul significato dell’offensiva stragista di Cosa Nostra: una lunga sfilza di politici smemorati e/o reticenti.
3) Perchè, se già il 29 luglio ’93 si sapeva che le bombe in via Palestro e contro le basiliche erano roba di mafia per piegare lo Stato, non si comprende quel che accadde subito dopo. Piste e depistaggi. Il 6 agosto ’93, attorno a un tavolo del Cesis (il comitato che coordinava i servizi segreti militare e civile), si riunirono i capi dell’intelligence, ma anche il capo della Polizia Parisi, il capo della Dia De Gennaro, il vicecomandante del Ros Mori e il vicecapo e uomo forte del Dap Francesco Di Maggio.
E se ne uscirono con una fumosa relazione, sulle bombe della settimana precedente, piena di piste fasulle al limite del depistaggio: oltre all’eventuale matrice mafiosa, ipotizzarono quella del terrorismo serbo, o palestinese, o del narcotraffico internazionale.
Del resto, se gli apparati e i servizi avessero davvero avuto dubbi sulla pista mafiosa per strappare allo Stato un cedimento sul 41-bis, cioè sul trattamento dei boss detenuti, perchè mai invitare a quel tavolo un estraneo come il vicecapo delle carceri Di Maggio?
Fin da giugno, il suo superiore Capriotti aveva scritto al ministro Conso sollecitando un taglio lineare dei 41-bis per “dare un segnale di distensione nelle carceri”. E proprio per accelerarlo Cosa Nostra aveva seminato morte e terrore in quella primavera-estate.
Infatti appena quattro giorno dopo il vertice al Cesis, il 10 agosto, De Gennaro firmò un rapporto della Dia, destinato a Mancino e a Violante, che metteva nero su bianco la pista mafioso-trattativista delle bombe e invitava il governo a non cedere sul 41-bis: “È chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale… del 41-bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito dalla stagione delle bombe”.
Un modo per smarcarsi dal fumoso e depistante rapporto del Cesis, che pure lo stesso De Gennaro aveva siglato? Un mese dopo, 11 settembre, lo Sco della Polizia, guidato da Antonio Manganelli, fu ancora più esplicito, usando per la prima volta il termine “trattativa” in una nota inviata all’Antimafia di Violante: “Obiettivo della strategia delle bombe sarebbe quello di giungere a una sorta di trattativa con loStato per la soluzione dei principali problemi che affliggono l’organizzazione: il ‘carcerario’ e il ‘pentitismo’… Creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una ‘trattativa’, per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa Nostra anche canali istituzionali”.
Più chiaro di così…
Lo sbraco.
Anche questo allarme, come i precedenti, viene ignorato sia da Mancino sia da Violante. E il 5 novembre il ministro Conso non rinnova il 41-bis in scadenza a 334 mafiosi detenuti, contro il parere negativo della Procura di Palermo.
Ma in ossequio alla sollecitazione che gli veniva dal nuovo capo del Dap fin da giugno. Per negare l’evidente cedimento al ricatto mafioso, Conso s’è trincerato dietro il rapporto del Cesis che ipotizzava matrici diverse da quella di Cosa Nostra per le stragi dell’estate.
Ma, oltre ai rapporti Dia e Sco, a smentirlo ora c’è anche la parola di Napolitano: i vertici dello Stato sapevano fin da subito che era stata Cosa Nostra per ricattarlo.
E lo Stato sbracò.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 29th, 2014 Riccardo Fucile
TRE ORE E MEZZA DI TESTIMONIANZA SU TUTTE E 40 LE DOMANDE DEI MAGISTRATI, PIÙ QUELLE DEI LEGALI. E LA CONFERMA DELL’IPOTESI ACCUSATORIA SULLO STATO RICATTATO DAI CORLEONESI
Lo Stato sapeva di essere sottoposto a un ricatto da parte di Totò Riina nel 1993. 
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo ha raccontato ieri ai magistrati di Palermo saliti a Roma tra mille polemiche appositamente per sentirlo al Quirinale.
Erano due i principali filoni sui quali i pm si attendevano risposte dalla testimonianza del Capo dello Stato: la lettera di dimissioni del 18 giugno 2012 di Loris D’Ambrosio, nella quale il consigliere giuridico del Colle scriveva a Napolitano “Lei sa che di ciò ho scritto anche di recente su richiesta di Maria Falcone (nella prefazione di un libro, Ndr). E sa che, in quelle poche pagine, non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989- 1993 che mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi — solo ipotesi- di cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”.
Il secondo tema all’ordine del giorno era la consapevolezza da parte di Napolitano nel 1992-1993 della strategia di Cosa Nostra: fare la guerra per poi fare la pace grazie a una trattativa intavolata al fine di ottenere benefici per i mafiosi.
Sul primo punto sostanzialmente l’accusa ieri ha fatto un buco nell’acqua dando ragione allo stesso Napolitano che aveva scritto una lettera nel novembre del 2013 al Presidente della Corte di Assise di Palermo Salvatore Montalto per evitare la convocazione perchè il presidente non aveva mai ricevuto nessun ‘ragguaglio o specificazione da Loris D’ambrosio’ dopo la lettera del 18 giugno 2012 e prima della sua morte il 26 luglio dello stesso anno.
Ben diverso invece l’apporto dato ieri, almeno secondo il giudizio dato dai magistrati palermitani, sul secondo versante: Napolitano ha offerto una descrizione inedita di come ha vissuto, nella sua veste di presidente della Camera, il periodo in cui — secondo l’accusa — si sarebbe svolta la trattativa a suon di bombe tra i corleonesi e le istituzioni.
Le auto blindate dei magistrati di Palermo varcano l’ingresso laterale del palazzo del Quirinale su via XX settembre alle 9 e 40 del mattino. Il Procuratore aggiunto Vittorio Teresi, i pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, hanno preparato un elenco di una quarantina di domande da porre al Presidente della Repubblica.
Tutte saranno ammesse dalla Corte tranne una, quella più delicata sulle ragioni della cancellazione del regime di isolamento del 41 bis a favore di 330 mafiosi nel novembre 1993, dopo le bombe di Cosa Nostra.
L’opposizione della Corte alla domanda dei pm è stata motivata con l’estraneità al tema probatorio.
Anche se altre domande sarebbero potute cadere sotto la stessa mannaia e invece sono state ammesse.
Nella sala del Bronzino ci sono una quarantina di persone, i giudici, due togati e i popolari, la cancelliera, cinque pm — presente anche il Procuratore capo di Palermo Leonardo Agueci. Alle dieci e 5 minuti si inizia.
Giorgio Napolitano si siede a sinistra dietro lo studiolo, davanti alla Corte ci sono gli avvocati. Il procuratore Agueci fa un breve discorso introduttivo per ricordare il rispetto per l’istituzione che ha di fronte ma anche per la verità che i magistrati stanno cercando. Il vero e proprio esame ha inizio con il procuratore aggiunto Teresi che chiede al testimone di precisare i suoi incarichi istituzionali. “Presidente della Repubblica”.
Si inizia a parlare di Loris D’Ambrosio. Non esiste ancora un verbale ma è possibile ricostruire il senso delle risposte grazie al resoconto orale degli avvocati.
Il Capo dello Stato è prodigo di ricordi e di attestati di stima verso D’Ambrosio: “Me lo presentò il professor Giovanni Maria Flick ed era una persona libera da schemi e di grande cultura. Con lui — dice Napolitano — c’era un rapporto di stima ma non di natura personale. Parlavamo solo di lavoro”.
Il procuratore Teresi legge alcuni passi della lettera di D’Ambrosio e della sua prefazione al libro di Maria Falcone ma Napolitano spiega che: “D’Ambrosio era sconvolto per la campagna mediatica nei suoi confronti. Ma mai mi parlò del suo timore di essere considerato scriba di indicibili accordi”.
Napolitano ribadisce quanto anticipato nella lettera alla Corte un anno fa: “Nessuna discussione sul passato con D’Ambrosio. Era una regola non scritta. Dovevamo lavorare giorno per giorno e guardare al futuro e non al passato. Gli indicibili accordi pertanto rimangono tre righe alle quali è difficile o impossibile dare un’interpretazione. Aggiungo che alcune espressioni di quella lettera — prosegue Napolitano — sono frutto di uno stato di tensione prodotto dal suo tormento e dal suo travaglio nel momento in cui escono le telefonate con Mancino che lo pongono in una luce di ambiguità ”.
Napolitano risponde di buon grado a tutte le domande anche se spesso ricorda che il contrasto alla criminalità non rientrava nella sua competenza diretta.
Poi prende la parola il pm Antonino Di Matteo e chiede a Napolitano se fosse a conoscenza della proposta di audizione dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino in Commissione Antimafia esaminata dal presidente di allora della commissione, Luciano Violante, su sollecitazione del generale Mario Mori.
Napolitano racconta una circostanza inedita: Violante allora gli disse che Vito Ciancimino aveva chiesto di essere sentito dalla Commissione Antimafia anche se gli espresse un giudizio sfavorevole e poi la cosa non si fece.
Violante non disse a Napolitano però che la sollecitazione era giunta dall’allora colonnello del Ros dei Carabinieri Mario Mori, ora imputato per il reato di minaccia o violenza a corpo dello Stato.
A sorpresa il punto più importante per l’accusa arriva quando si arriva a parlare della valutazione delle stragi del 1993.
All’indomani degli attentati del 27 luglio del 1993 a Roma e a Milano “fu subito chiaro — dice il presidente Giorgio Napolitano — che erano sussulti dell’ala stragista della mafia dei corleonesi”. Per Napolitano quella strategia era chiaro che fosse “finalizzata a dare un aut aut ai pubblici poteri o a fare pressioni di tipo destabilizzante”.
Secondo l’allora presidente della Camera “l’allarme non venne sottovalutato anche perchè oltre agli attentati ci fu il black out a Palazzo Chigi e ricordo che il presidente Ciampi disse di avere temuto un colpo di Stato”.
Il pm Antonino Di Matteo è soddisfatto della risposta di Napolitano anche perchè la Procura ha da poco scovato alcuni documenti dell’epoca che sembrano disegnare uno scenario diverso.
Il 6 agosto il Cesis, il Comitato esecutivo per i Servizi di Sicurezza che coordina i servizi segreti e che ora è stato sostituito dal Dis, redige una nota al termine di una riunione alla quale partecipano le massime autorità , compreso il capo della DIA Gianni De Gennaro, nella quale si avanzano altre piste oltre a quella mafiosa.
Dai narcotrafficanti ai terroristi separatisti. Solo quattro giorni dopo, il 10 agosto 1993, Gianni De Gennaro sente l’esigenza di stilare una nota che indica il movente e gli autori giusti delle stragi.
Quando il pm Di Matteo chiede a Giorgio Napolitano cosa sapesse di quel documento della Dia, il Capo dello Stato replica: “Ci stiamo allontanando di molti chilometri dall’alveo originario della mia testimonianza e si presume che io abbia una memoria da fare invidia a Pico della Mirandola. Non ricordo la nota DIA a firma del dottore De Gennaro”.
Poi si passa all’allarme del SISMI su un attentato in preparazione ai danni di Napolitano stesso e del presidente del Senato Spadolini.
“Si ne fui informato dal capo della Polizia Parisi ”, spiega Napolitano prima di svalutare un po’ l’allarme: “quell’anno partiiper andare in vacanza a Stromboli e il 23 agosto 1993 Parisi mi riferì di questi allarmi ma mi disse: ‘i servizi consigliano cautela’ ma l’attendibilità della fonte era tale che non chiese di annullare il viaggio. L’allarme si tradusse solo nella precauzione di inviare qualche agente dei NOCS in più. Quando tornai da Parigi non ebbi ulteriori misure di sicurezza”.
Marco Lillo
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Ottobre 29th, 2014 Riccardo Fucile
IL 18 OTTOBRE I “GRANDI FRATELLI” AVEVANO INVASO REGGIO CON LA MANIFESTAZIONE NAZIONALE CONTRO GLI IMMIGRATI, SCIMMIOTTANDO LA LEGA… DIECI GIORNI DOPO I REGGINI LI “RESPINGONO” IN MARE APERTO: LA BECERODESTRA HA COLPITO ANCORA
Riportiamo dal Secolo d’Italia del 18 ottobre:
“È la cronaca di una protesta che è partita nel pomeriggio dalla Calabria, dove oltre diecimila persone hanno partecipato alla manifestazione organizzata da Fratelli d’Italia-An. «Siamo qui a Reggio Calabria — ha detto la leader del partito, Giorgia Meloni — una città che fa parte di una regione lasciata sola ad affrontare il peso dell’emergenza immigrazione, per dire basta alle politiche folli che sta portando avanti il governo di sinistra in tema di immigrazione. Oggi ricorre il primo anno dall’avvio di Mare nostrum, un’operazione scellerata che ci è costata oltre 100 milioni di euro e che ha portato in Italia 150mila immigrati ». Al comizio di chiusura, dopo che un tricolore di trecento metri, sorretto da cinquemila persone, aveva attraversato il lungomare della capoluogo calabrese, hanno partecipato i parlamentari e molti dirigenti di FdI-An, provenienti da ogni parte d’Italia.”
Dieci giorni dopo che i reggini hanno potuto ascoltare Giorgia Meloni in versione Salvini, i risultati delle elezioni comunali hanno visto trionfare il candidato Pd Falcomatà con il 60,99% dei voti, percentuale mai raggiunta dal centrosinistra a Reggio Calabria.
Non solo.
Fratelli d’Italia ha raccolto 923 voti pari all’1,06% dei consensi.
Invece che respingere gli immigrati, i reggini hanno respinto loro.
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Ottobre 29th, 2014 Riccardo Fucile
E RENDERE TUTTI PRECARI NON FA GUADAGNARE UN SOLO POSTO DI LAVORO
Il posto fisso non c’è più”, dice Matteo Renzi. 
I numeri però non gli danno ragione. Il posto fisso è ancora la norma del mercato del lavoro italiano.
Lo dicono i dati, oltre che il senso comune.
Del resto, il brindisi per la firma di un contratto di lavoro a tempo indeterminato è uno dei riti più importanti che costellano la vita delle aziende e quella delle famiglie italiane.
Quando arriva la notizia del contratto a tempo indeterminato, ciascun dipendente sente che la propria vita può imboccare una via nuova. Più tranquilla, più stabile. Anche le imprese, in fondo, preferiscono avere lavoratori stabili.
Lo dice l’esperienza e, anche in questo caso, lo dicono i dati.
Quelli tratti dall’ultimo rapporto sul mercato del lavoro redatto dal Cnel solo poche settimane fa, sono emblematici.
L’86% degli occupati è inquadrato con un contratto “permanente” mentre quelli “a termine” sono poco più del 13%.
Era così nel 2013, nel 2012 ed era così anche nel 2008, prima cioè che iniziasse la “grande crisi”.
Su 16 milioni, 878 mila dipendenti complessivi, 14 milioni e 650 mila sono permanenti di cui 12 milioni a tempo pieno e 2,5 milioni a tempo parziale.
Sono questi ultimi a essere cresciuti di più negli anni, per effetto di crisi e ristrutturazioni e, come sottolinea il Cnel, “per lavori accettati in mancanza di occasioni di impiego a tempo pieno”.
I contratti a termine, invece, nel 2013, ammontavano a 2,23 milioni di cui 1,6 a tempo pieno e 638 mila a tempo parziale.
Qui c’è l’evoluzione più indicativa delle dinamiche del mercato del lavoro.
Con la crisi, dal 2008 in poi, i contratti a termine sono diminuiti del 4%.
Ma la riduzione di quelli a tempo pieno è stata del 10% mentre quelli a tempo parziale sono aumentati del 18%.
Il significato è chiaro: la riduzione complessiva dell’occupazione — che dal 2008 è stata di circa un milione di persone sull’intera popolazione lavorativa — ha interessato in primo luogo i contratti più deboli.
Quelli a termine sono i primi a saltare anche perchè è sufficiente non rinnovarli.
La tendenza si desume da un altro dato, meno rilevante ma altrettanto significativo: il numero dei collaboratori conteggiati tra i lavoratori indipendenti, 382 mila unità nel 2013, è sceso di quasi il 18% rispetto al 2008.
Anche in questo caso, la tipologia in cui si annidano le “false” partite Iva, è quella che ha pagato il prezzo maggiore della crisi.
Questa fotografia, sottolinea il Cnel, è smentita solo parzialmente dai dati tendenziali desunti dalle “attivazioni di nuovi contratti di lavoro”.
Se si guarda, infatti, l’andamento delle nuove assunzioni si scopre l’aumento progressivo di contratti a termine rispetto a quelli permanenti.
Dal 63,7% nel 2012 sono passate al 68% nel 2013.
Le attivazioni a tempo indeterminato, invece, si sono ridotte dal 17,4 al 16,4% del 2013.
Va considerato però — e lo studio del Cnel lo fa — che le nuove attivazioni non sempre corrispondono ad altrettanti posti di lavoro.
Il motivo è semplice: i contratti a termine durano sempre più spesso meno di un anno anzi, oltre il 40% è ormai limitato a un mese soltanto.
Il loro numero crescente, quindi, significa semplicemente la ripetizione prolungata dello stesso contratto fatto alla stessa persona.
Con la riforma Poletti, poi, che ha esteso i rinnovi contrattuali fino a 5 volte nell’arco di 36 mesi senza dover giustificare la “causale”, questa pratica è sempre più utilizzata. In ogni caso, i numeri sono impietosi: la quota di lavoratori a tempo determinato, negli ultimi sei anni non ha superato il 13% dei lavoratori dipendenti mentre quelli a tempo indeterminato si mantengono sopra l’86%.
A diminuire, in realtà , sono tutti i posti di lavoro, permanenti, a termine, a tempo pieno o parziali. E anche gli “indipendenti”.
Il loro numero, lo scorso anno, era di 5,5 milioni. Ma nel 2008 erano 407 mila in più. Il saldo tra “entrate” e “uscite” nel mondo del lavoro si è fatto di nuovo negativo dopo i saldi positivi del biennio 2009-2011.
La crisi distrugge posti di lavoro.
Prima i precari ma dopo, inesorabilmente, anche quelli più stabili. Rendendo tutti precari non si guadagnerebbe un solo posto di lavoro in più.
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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