Ottobre 7th, 2014 Riccardo Fucile
CROLLATE LE POSSIBILITA’ FINANZIARIE, MANCA LA LIQUIDITA’
L’anticipo del Tfr in busta paga rischia di tradursi in una batosta soprattuto per le piccole e medie imprese già strangolate dalla crisi.
A tratteggiare lo scenario della situazione in versano le aziende sono la Cgia e la Confcommercio.
Il segretario della Cgia Bortolussi si chiede come faranno le imprese schiacciate dalla crisi a trovare le risorse per anticipare le liquidazioni.
«Le banche, lo sappiamo bene, in questo momento prestano il denaro solo a chi ha una certa solidità finanziaria; agli altri, purtroppo, l’accesso al credito bancario è praticamente precluso».
Inoltre se, come si dice, «l’operazione sarà a costo zero per l’imprese private, per quale motivo il Governo non estende la possibilità di richiedere l’anticipazione della liquidazione anche ai lavoratori del pubblico impiego?»
È evidente, conclude Bortolusi, «che le cose stanno diversamente da come il governo vorrebbe presentarle».
Una fotografia della situazione critica delle imprese emerge dall’osservatorio regionale sul credito della Confcommercio.
Nel secondo trimestre del 2014, quasi la metà delle aziende del terziario (48%) ha visto ridursi sensibilmente la capacità finanziaria, ovvero la possibilità di riuscire a fare fronte ai propri impegni finanziari, a pagare i propri fornitori, le tratte in banca, o a fare fronte agli oneri contributivi e fiscali.
Nel Centro-Sud la situazione è più grave.
Nel Lazio per il 50% delle imprese del terziario la capacità finanziaria è peggiorata mentre in Abruzzo si trova in questa situazione il 48%. Solo l’Umbria con il 59,3% e la Sardegna con il 54% fanno peggio.
L.D.P.
(da “il Tempo“)
argomento: economia | Commenta »
Ottobre 7th, 2014 Riccardo Fucile
DALL’AVVOCATO TOMBARI AL PADRE, TRA BANCHE E CDA
Smisero quasi subito, anche nel Pd, di chiamarla la giaguara della Leopolda.
Lei, avvocato civilista, non gradiva. E nel clima prerenziano fare un torto a Matteo Renzi pareva non opportuno.
Poi si vestì di blu elettrico e giurò al Quirinale da ministro. Segno che la videro giusta. Anche e soprattutto perchè Maria Elena Boschi non è solo acqua e sapone, ha un suo sistema di potere, molto familistico e potente, soprattutto a Firenze.
Uomo cardine della sfera Boschi è l’avvocato civilista Umberto Tombari, il professionista che ha battezzato avvocato la giovane Maria Elena.
Nel suo studio la ragazza, appena laureata, svolse la pratica. E Tombari, che non è uno di quei nomi che fa inchinare il foro, nei giorni del massimo splendore renziano, lo scorso maggio, è diventato presidente dell’Ente Cassa di risparmio di Firenze.
Un ruolo che, nel capoluogo toscano, vuol dire dirigere il potere come un vigile urbano fa col traffico.
L’ultimo esempio: Tombari ha messo la firma due giorni fa su 26 milioni nei confronti del terzo settore e, al convegno, ha parlato col piglio del futuro ministro: “E’ giunto il momento di una governance collettiva sul welfare”.
Classe 1966, rossiccio nei capelli, Tombari è legato anche a Renzi: fu l’attuale presidente del consiglio che gli chiese di guidare la partecipata del Comune Firenze mobilità , 39 mila euro all’anno di compenso più un gettone di presenza di 250 euro per ogni consiglio d’amministrazione.
Una società chiave nella gestione delle casse fiorentine pari alla Firenze Parcheggi che aveva come amministratore delegato Marco Carrai, oggi anche lui nel cda dell’Ente cassa dove guida il comitato d’indirizzo.
Tombari può vantare anche l’amicizia con Michele Vietti, ex vicepresidente del Csm, con il quale ha collaborato nel lontano 2001 alla Commissione ministeriale per la riforma del diritto societario voluta dal ministero della Giustizia.
In seguito non ha smesso di frequentare Roma neanche in tempi di tecnici, quando ministro dell’Economia era un presunto salvatore della patria come Corrado Passera. Chiese proprio a Tombari di collaborare al decreto Sviluppo Italia che, sapremo poi, come andrà a finire.
Tra gli altri incarichi mantiene la presidenza della Sici, acronimo di società imprese centro Italia e che vede tra i soci Fidi Toscana, Mps capital services, la stessa Cassa di risparmi di Firenze, quella di San Miniato e la Banca Etruria.
L’avvocato ha cresciuto un’altra stella del firmamento renziano, quell’Anna Genovese che è diventata commissario della Consob.
Insomma, è uno che i talenti li riconosce da lontano. O, molto più semplicemente, sono i talenti che scelgono lui.
Come fece, fresca di laurea, la giovane Boschi. In quel periodo la ragazza era già con la testa alla politica, non una frequentatrice assidua delle aule di tribunale.
Il padre, che ha seguito passo dopo passo la carriera della ragazza fino al sogno di vederla crescere ministro, in Toscana ha un suo perchè, è vicepresidente della Banca dell’Etruria, oltre a una decina di consigli di amministrazione e può vantare nel curriculum di aver guidato la Confcooperative di Arezzo per sei anni, fino al 2010. Pier Luigi, così si chiama il padre, è uomo riservato, ma mastica la politica da sempre con l’occhio più alla vecchia Democrazia cristiana che non al fu Partito comunista. Come ha sempre fatto la moglie, Stefania Agresti, che di Laterina, paese dell’Aretino in cui i Boschi hanno preso forma, è stata anche vicesindaco, sempre per la Democrazia cristiana e poi nel Partito popolare.
La ramificazione del potere si è manifestata poi con la nomina di Maria Elena al ministero per le Riforme, voluta ovviamente da Matteo Renzi.
Il resto lo ha costruito lei, da sola. Senza lasciare niente al caso o all’improvvisazione.
Emiliano Liuzzi
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: governo | Commenta »
Ottobre 7th, 2014 Riccardo Fucile
MOLTI POTREBBERO AMMALARSI O PERDERE L’AEREO
Sul Jobs Act il premier potrà contare sempre e comunque sul «paracadute» berlusconiano.
Nel caso (improbabile) che venissero a mancargli dei voti in Senato, Renzi si salverebbe dal baratro grazie a Forza Italia.
Questo è sicuro, sebbene ufficialmente a destra tutti sostengano il contrario preannunciando anzi una netta opposizione. «Il modo per dare una mano lo troveremmo», garantiscono sottovoce personaggi molto influenti nel giro di Arcore.
Al premier l’hanno fatto sapere.
Per esempio, un tot variabile di senatori azzurri potrebbe scordarsi la sveglia, col risultato di perdere l’aereo proprio nel giorno delle votazioni; altri potrebbero restare vittima di qualche malanno: le solite scuse che si tirano fuori in circostanze del genere.
Ancora ieri, parlando con alcuni suoi fedeli, Berlusconi era categorico: «Renzi non deve cadere. Bisogna che vada avanti almeno fino a quando avremo varato una legge elettorale conveniente tanto a lui quanto a noi, a quel punto se ne riparlerà ».
Oltre a questa motivazione, dettata da calcoli tattici, pare ce ne siano altre che rendono l’ex Cavaliere pronto a tutto, pur di tenere in piedi il governo, alcune di un certo spessore politico: «Dobbiamo augurarci di fare insieme al Pd le nostre riforme», è uno dei ragionamenti berlusconiani, «o desideriamo ritrovarci con la Trojka in casa tra meno di sei mesi?».
Domanda retorica con risposta scontata: mille volte meglio tenere in sella Renzi che farci governare dalla «Spectre» finanziaria internazionale.
E dunque, quale che sarà l’esito del duello a sinistra sul Jobs Act, il premier verrà sorretto perfino nel caso in cui dovesse precipitare.
Ciò premesso, nessuno (nemmeno Verdini) si augura questo «soccorso» azzurro.
Renzi rifiuta di prenderlo anche solo in considerazione perchè, primo, sarebbe un segnale di immensa debolezza e, secondo, verrebbe a ritrovarsi tra le braccia di Silvio.
Per quanto gli si mostri amico, Matteo giustamente non se ne fida.
Lo stesso Berlusconi preferisce di gran lunga che il governo se la cavi con le proprie forze, senza trucchi e senza inganni.
La ragione è semplice: pure lui, se fosse costretto a sostenere Renzi, pagherebbe un prezzo politico salatissimo.
Nel suo partito il Jobs Act non piace letteralmente a nessuno.
Toti, il consigliere politico, lo bolla senza cerimonie come l’«ennesimo compromesso al ribasso tra le componenti del Pd». Gasparri, che bene interpreta gli umori dei «peones», spara a pallettoni contro le «deleghe confuse e ancora da conoscere nei loro esatti contenuti».
Il Capo la pensa come loro. Una piccola folla di esperti gli ha detto peste e corna del Jobs Act. Gliene parla malissimo pure la Santanchè.
L’imprenditore Berlusconi è convinto che all’Italia servirebbe ben altro, una riforma che nessuno (tantomeno lui) è riuscito a far passare.
Poi c’è Fitto, ci sono i «malpancisti» di Forza Italia, c’è la concorrenza da destra dei Fratelli d’Italia e della Lega, soprattutto c’è Grillo…
Il Cav non ha voglia di prestare il fianco ai loro attacchi, e nemmeno di donare il sangue gratis a Renzi.
Tra l’altro, negli ultimi giorni si è molto indispettito per come il governo sta trattando il tema della giustizia.
Gli risulta che il guardasigilli Orlando presti orecchio a certi magistrati «comunisti», e rimprovera a Renzi di non vigilare abbastanza
Ugo Magri
(da “La Stampa”)
argomento: Parlamento | Commenta »
Ottobre 7th, 2014 Riccardo Fucile
PREVEDE, PROVVEDE E TRACIMA: LA BATTUTA OLTRE L’OSTACOLO, LA PROMESSA OLTRE LA REALTA’
“Li fregherò tutti, uno a uno, su questo non c’è dubbio”. Ogni promessa è debito, e Matteo, modestamente, non si tira indietro.
È cambiato il mondo, l’Italia lo ama e lui lo sapeva già : “Dopo di me c’è solo il mago Otelma”, profetizzò all’inizio della traversata, quand’era ancora sul ciglio fiorentino.
Matteo prevede, a volte provvede, ma più spesso tracima.
È una oscura forza che gli impone, nel cuore di un pensiero espresso a voce alta, di esorbitare e spingere la battuta da bullo oltre l’ostacolo o anche la promessa oltre la realtà .
Per esempio: “Io sono per dire eliminiamo tutto il ceto politico delle provincie, facevo il presidente della provincia non mi sono ricandidato apposta perchè ho detto che per me le provincie andavano abolite. Tacchino che chiede l’anticipo del Natale”.
Così è stato. Infatti oggi le provincie sulla carta non ci sono più. È restato a galla solo il ceto politico.
Non è meraviglioso?
“Marchionne? Se fa buone auto non ci offendiamo”
Tacchino furbissimo oppure battutista à la carte. Quando il nemico era Berlusconi: “Cambia idea ogni tre giorni, non lo seguiamo più. È una soap opera tra Beautiful e Sentieri… Invece di star dietro alle sue paturnie non potremmo parlare di Italia e degli italiani? ”.
C’era da incornare Sergio Marchionne? Chi meglio di Renzi: “Se Marchionne ogni tanto fa una macchina buona non ci offendiamo”. È maledettamente vero: l’unico che può mettere al tappeto Renzi è sè medesimo. Perchè la sua narrativa è così prolifica che produce un grandioso museo della parola.
Il suo è verbo transgenico e multicolor, gode della qualità dell’ambivalenza. È reverse.
Matteo è l’uno e il suo opposto e avanza secondo i criteri della semina del grano.
Se è luna crescente sostiene una cosa. Se è calante riesce ad affermare l’esatto contrario con la medesima esuberanza e spontaneità .
Ma è questione che attiene alla psicopatologia della politica.
Vade retro ditta. Sì, ma quale ditta?
“Sono quelli che iniziano con la B che hanno paura di confrontarsi”. Con chi ce l’aveva? Penserete Berlusconi. Sbagliato, troppo semplice.
È Pier Luigi Bersani, che ha imposto al Pd di cambiare lo statuto ad personam per far gareggiare e vincere Renzi, il nemico giurato. Con B. ci fa le riforme. Con Pier Luigi nemmeno una birra insieme.
“Se avessimo pensato meno a smacchiare il giaguaro ma ad occuparci più dei giovani e del lavoro, ora al governo ci saremmo noi, senza Brunetta o Alfano”.
Ecco, qui è l’unico momento in cui Matteo difetta di personalità e mostra poca considerazione di se stesso. Lui è al governo insieme ad Alfano e con un Brunetta di scorta.
E diciamoci la verità : nessuno dei due sembra allarmato e men che mai il premier che aveva altre idee in testa ma poi se le è fatte passare.
Era straconvinto che Berlusconi fosse un nemico. “Gli conviene restare al governo perchè sa che se andiamo al voto asfalteremo il Pdl”. Miracolo! Silvio sta dimostrando di essere un gran bel riservista governativo, lo sostiene con dignità e quel tanto di riservatezza che non guasta. I suoi voti sono lì, e quando servono lui li sgancia.
La scomparsa dell’inciucio e il carro del vincitore
Si chiamava inciucio, ma oggi non si dice più, non si porta più. “Se c’è qualcuno abituato a salire sul carro per convenienza sappia che noi siamo abituati a farli scendere”.
Qui la narrativa renziana era dettata dalla luna crescente, e le parole e le promesse si espandevano come le nubi d’autunno.
Poi però con la luna calante è giunto il patto del Nazareno. Molto meglio di quello della crostata, diciamoci la verità : “Se vinco io non è che finisce il centro sinistra, al massimo finisce la carriera parlamentare di D’Alema”. Obiettivo raggiunto.
Il premier non si trastulla con le vittorie che anzi gli fanno ritrovare quell’animo un po’ fanciullesco e bullesco che interrompe ogni rilassatezza di pensiero.
Il bullo che è in lui (luna crescente) si mostra e tracima: “Sia chiara una cosa: io non tramo ma non tremo. E visto che di qualunque cosa parlo mi sparano addosso, allora chiedo: se vogliono farmi la guerra me lo dicano. Così mi regolo”.
Marini, i dispetti per l’Italia e Rosi Bindi
Lo diceva ieri, quando era in minoranza. Ma lo può dire anche oggi che è presidente-segretario. “Marini è un dispetto per l’Italia”. Oppure: “Nello zoo del Pd ci sono già troppi tacchini sui tetti e troppi giaguari da smacchiare per permettersi gli sciacalli del giorno dopo”.
O anche: “Sono cascati male, ho presi questi voti per cambiare l’Italia davvero”.
E infine: “Sto zitto e non faccio polemiche. Ma non mi si chieda di venire a Roma per fare riunioni con Rosi Bindi: non fa per me”.
Ecco Matteo, tweetpensatore, guerrigliero della parola: “Il mio incubo è la logica dell’inciucio”. Tutto risolto. B. lo ama quasi, e Verdini si sta dimostrando un fior di consigliere e alleato. L’Italicum sarà la nuova legge elettorale e con rinnovati listini bloccati.
Finalmente Gianni Cuperlo potrà legittimamente chiedere la parola.
Di lui Matteo appena qualche mese fa disse: “Come fa a parlare chi è stato nominato nel listino bloccato? ”.
Antonello Caporale
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: Renzi | Commenta »
Ottobre 7th, 2014 Riccardo Fucile
IL TRIBUNALE VIETA DI AFFACCIARSI DAI TERRAZZINI IN 5 NEW TOWN SU 19… LA PARABOLA DEGLI ALLOGGI REALIZZATI DOPO IL SISMA DEL 6 APRILE 2009
Il 3 settembre scorso ci aveva pensato il sindaco de L’Aquila a vietare ai cittadini di affacciarsi dai balconi.
Ieri invece è intervenuta la magistratura che ha avviato l’operazione “sigilli” che interessa 800 terrazzine in cinque New Town sulle 19 realizzate dopo il sisma del 6 aprile del 2009.
Si tratta di una serie di alloggi — fatti costruire dall’ex premier Silvio Berlusconi, per gli sfollati che rimasero senza abitazione a seguito del sisma adesso non potranno neanche affacciarsi alla finestra: sono stati montanti anche i tubi innocenti alle finestre del piano terra per impedire fisicamente il passaggio al balcone in modo da evitare il rischio di rimanere colpiti dal crollo di quelli del piano superiore.
L’operazione “sigilli” è stata avviata dopo il maxi sequestro delle 800 strutture esterne disposto dal gip del Tribunale de L’Aquila nell’ambito dell’inchiesta aperta a seguito del crollo di un balcone in legno del 2 settembre scorso.
In quel caso il balcone posto al secondo piano della palazzina, è crollato, schiantandosi su quello sottostante, per fortuna senza ferire nessuno.
Dopo l’apertura dell’inchiesta per crollo colposo e frode in pubbliche forniture (per ora ancora contro ignoti) era intervenuto il sindaco del capoluogo abruzzese Massimo Cialente, che, per precauzione, con un’ordinanza aveva vietato di affacciarsi dai balconi di 22 palazzine.
Da ieri però sono state avviate anche le operazioni della forestale, che si concluderanno l’11 ottobre. Condizioni particolarmente preoccupanti sono state ritrovate a Cese di Preturo dove una trentina di famiglie sono state evacuate.
Ma andando casa per casa, gli agenti si sono ritrovati davanti anche altre irregolarità che non riguardano i balconi ma la gestione degli appartamenti del Progetto Case: ci sono infatti affitti fittizi, nel senso che alcune persone non abitano le case pur mantenendone la titolarità , ci sono famiglie che mancano da mesi, ci sono inquilini che sono all’estero, e non mancano casi di subaffitto.
Anomalie che finiranno in una relazione al vaglio degli inquirenti.
Ieri sull’operazione in corso è intervenuto anche il capo della Protezione civile, Franco Gabrielli che ha anche annunciato che il suo dipartimento si costituirà parte civile di un procedimento penale “qualora venisse accertata la frode nelle pubbliche forniture”.
Il riferimento è alla vicenda che riguarda una fornitura in legno fasulla destinata proprio del balconecrollato a Preturo, riscontrata dalla procura di Piacenza mentre indagava sul crac di una ditta e che ha inviato gli atti ai colleghi de L’Aquila.
“Come al solito arriviamo sempre un po’ prima — ha affermato il capo della Protezione civile — Ci siamo presentati parte civile nel procedimento penale instaurato a Piacenza perchè, al di là delle contingenze, i procedimenti penali si possono sviluppare sul piano del tempo anche in altri territori”.
Intanto il prossimo 10 ottobre comincerà anche il processo di appello a carico degli ex componenti della Commissione Grandi rischi, organo scientifico consultivo della presidenza del Consiglio dei ministri.
Gli imputati sono sette e sono già stati condannati in primo grado a sei anni di carcere per omicidio colposo e lesioni: l’accusa è quella di aver dato false rassicurazioni agli aquilani al termine della riunione dell’organismo del 31 marzo 2009, che si tenne nel capoluogo a cinque giorni dal terremoto.
Altre inchieste, stesse vittime: gli abitanti de L’Aquila che dal 2009 subiscono ancora le conseguenze del terremoto.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
argomento: terremoto, Veltroni | Commenta »
Ottobre 7th, 2014 Riccardo Fucile
LE RIVELAZIONI DEL MANAGER: “DESCALZI E’ AGLI ORDINI DEI NIGERIANI”… “IN ITALIA IMPOSERO IL MEDIATORE, 50 MILIONI TORNARONO IN MAZZETTE”
A chi dovevano essere “retrocessi” i 200 milioni di dollari caricati a titolo di mediazione sul prezzo dell’acquisizione da parte di Eni del giacimento nigeriano OPL245?
Chi, ai vertici del colosso petrolifero, manovrò al di là di ogni ragionevole azzardo perchè quel fiume di contanti venisse riconosciuto a un “facilitatore” dall’ignoto pedigree e sprovvisto di un valido mandato a vendere?
E ancora: perchè Eni dovette ricorrere a un mediatore pur avendo un rapporto diretto con il proprietario del giacimento?
Chi, insomma, ha sin qui mentito sull’acquisizione per 1 miliardo e 300 milioni di dollari di OPL245 da parte di Eni e Shell?
L’uomo che ha deciso di ricostruire con “Repubblica” l’intera storia, di dare delle risposte (naturalmente le sue) a quelle domande, è un siciliano di 42 anni, un ex dirigente dell’Eni.
E il suo nome è Vincenzo Armanna. Il 30 luglio scorso, accompagnato dall’avvocato Fabrizio Siggia, ha infilato spontaneamente un ufficio del palazzo di Giustizia di Milano.
E, per undici ore, ha risposto alle domande dei pm Fabio De Pasquale, Eugenio Fusco e Sergio Spadaro, i tre magistrati che lo indagano per corruzione internazionale insieme a Paolo Scaroni (ex ad di Eni), Claudio Descalzi (attuale ad di Eni), Roberto Casula (ex vicepresidente Eni per l’Africa e oggi capo dello sviluppo e delle operazioni), Luigi Bisignani, il finanziere Gianluca Di Nardo, il mediatore Emeka Obi, l’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete.
Da quel giorno, Armanna si è inabissato, insieme al segreto del suo verbale di interrogatorio.
E da quel giorno, il suo nome, la sua “verità ” sono diventate un incubo per i vecchi e i nuovi vertici di Eni.
Ora, seduto ai tavolini deserti di un bar, Armanna dice: “In Eni hanno tentato e stanno tentando di distruggere la mia reputazione, la mia storia professionale. E ho letto con incredulità quello che è stato capace di raccontare Descalzi al vostro Gad Lerner. Eppure, in Eni sono stato membro di numerosi cda di società controllate. In Congo, Uganda, Qatar, Arabia Saudita. Per non parlare del mio lavoro in Iran. Ma io non ho paura. Non sono un vinto. Nè, come vedete, ho intenzione di nascondermi. Ognuno è libero di credermi o meno, ma come ho detto la verità ai magistrati, così la dirò a voi”. Una “verità “, naturalmente, che solo il tempo e le verifiche delle indagini diranno se è tale.
La missione in Nigeri
Armanna arriva in Nigeria nel 2009, quale “senior advisor” della “Nigerian Agip Oil Company”, consigliere di amministrazione della “Nigerian LNG” e vice presidente delle attività upstream subsahariane di Eni.
Lo precede una fama di professionista preparato. Ma, anche, dicono di lui gli amici rimasti in Eni, di “uomo allergico all’appeasement con la catena gerarchica se qualcosa non lo convince”.
È arrivato nel palazzo del cane a sei zampe nel 2006, dopo essere stato in Fiat e quindi in Ferrovie con Moretti.
In Eni ha cominciato agli approvvigionamenti, dove gli viene riconosciuta la qualità del suo lavoro, salvo trasferirlo all’improvviso.
“Nel mio ufficio di Abuja mi misero a esaminare le lettere anonime”. Finchè – è il dicembre del 2009 – Chief Akinmade, un nigeriano ex dirigente della “Nigerian Agip Oil Company” ed ex assistente del già ministro del petrolio Dan Etete, si presenta con una proposta di vendita del 40 per cento del giacimento OPL245 per 1 miliardo di dollari. Akinmade sostiene di trattare la cessione del giacimento in nome e per conto proprio di Etete, uomo di straordinaria ferocia e altrettanto straordinaria corruzione. Un vecchio “amico” di Eni, che con lui, già nel 2007, aveva avviato trattative proprio per l’OPL245.
L’offerta di Akinmade viene girata in Italia al dirigente con cui Armanna lavora in staff: Roberto Casula, uomo di Descalzi, vicepresidente esecutivo di Eni, chairman della “Nigerian Agip Exploration” e dunque tra le figure chiave della divisione E&P (Exploration and Production).
Del resto, OPL245 è un boccone ghiotto. Un giacimento stimato tra i 3 e i 4 miliardi di barili. Ma qui, ecco la prima stranezza.
Dopo quattro giorni dalla prima offerta, arriva via mail una proposta economicamente identica a quella di Akinmade, ma di cui, stavolta, si dice procuratore tale Emeka Obi. Il tipo sostiene di operare attraverso la società “Eleda Partners” e aggiunge di avere un mandato in esclusiva sia da Dan Etete, sia dalla società “Malabu” che, formalmente, era la concessionaria del giacimento.
Il 24 dicembre del 2009, Roberto Casula, vicepresidente esecutivo di Eni, invia una lettera con cui manifesta l’interesse della società per la proposta di Obi e lo investe formalmente della mediazione.
Un lavoro da 200 milioni di dollari. “È una procedura singolare – chiosa Armanna – che espone e impegna direttamente i vertici dell’Azienda”.
C’è un’unica condizione: la prova che Obi agisca effettivamente in nome e per conto di Dan Etete.
La gabbia dei leoni di Lagos
L’ultima settimana di dicembre 2009, Armanna la cerca a Lagos, nella villa lungo il fiume dove vive Etete.
“Arrivai su una macchina blindata – ricorda Armanna – scortato da un pick-up con tre dei nostri uomini armati della sicurezza Eni”.
L’ex ministro del petrolio è con Emeka Obi. “Etete mi condusse nel giardino della villa, facendomi passare sotto un arco formato da due mastodontiche zanne di elefante intarsiate. Sfilammo di fronte a un tempio in marmo, finchè non raggiungemmo una gabbia con due leoni. A quel punto, l’ex ministro si rivolse verso di me con un sorriso e, indicandomi le due bestie, mi disse: “Qui è dove finiscono i miei nemici”.
Confesso che mi apparve insieme ridicolo e minaccioso, non fosse altro perchè quell’uomo viene accusato di aver sterminato le minoranze etniche che rivendicavano la proprietà di alcuni giacimenti. Poi, finalmente, entrammo nel suo studio”.
Etete è su di giri. Apre due bottiglie di champagne. Parla in inglese e, a tratti, si rivolge in nigeriano a Emeka Obi.
“Cominciò a dire che l’OPL245 non valeva meno di 4-5 miliardi di dollari. Obiettai che il giacimento non era suo, perchè non ne aveva ancora pagato la licenza visto che mancavano circa 200 milioni di dollari. E che non esisteva alcuna evidenza di un suo rapporto con la società Malabu, titolare della concessione.
Cominciò ad urlare. “Voi bianchi siete i soliti. Tutti uguali!”. Quindi, puntandomi il dito contro mi disse: “Stammi bene a sentire: quando Descalzi non era nessuno prendeva ordini da me”.
E poi, indicando Obi: “Perchè voi di Eni avete bisogno di lui?””.
Armanna prende la porta, ma non prima di assistere a una sfuriata dell’ex ministro a Emeka Obi: “Io non ti do il mandato! Tu vuoi i miei soldi!”.
“Chiamai gli uomini della sicurezza e ci allontanammo velocemente. Telefonai a Casula. Gli raccontai lo sgradevole spettacolo e gli riferii le parole di Etete su Descalzi. Gli spiegai che Obi non aveva nessun mandato da Etete. Pensai che la storia fosse finita lì. Ma mi sbagliavo”.
La convocazione da Descalzi
A inizio 2010, Armanna viene infatti convocato a Milano da Descalzi. Questa è la sua ricostruzione, ribadita ai magistrati di Milano.
“Gli spiegai tutte le mie perplessità e gli dissi che Etete non era un soggetto con cui era opportuno parlare. Gli riferii anche quello che diceva di lui Etete, che ne parlava come del suo maggiordomo, alludendo ai loro rapporti di fine anni ’90, quando Descalzi era stato a capo della Nigerian Agip Oil Company. Ebbene, Descalzi mi fissò senza muovere un muscolo. Quindi, mi liquidò avvisandomi che la faccenda era seguita direttamente da Milano. Che, insomma, non avrei più dovuto fare ostruzionismo”.
Casula e Descalzi, ora, sono padroni della trattativa.
E, nel febbraio del 2010, firmano con Obi il “confidentiality agreement” che obbliga Eni a trattare in esclusiva con lui, per 12 mesi, l’acquisizione del giacimento. “Di fatto, con quell’accordo, l’Eni si consegnava a uno sconosciuto che era un “one man company”, visto che le società attraverso le quali sosteneva di operare – Eleda Partners, Energy venture Partners – erano scatole vuote”.
“C’è di mezzo Scaroni”
Armanna prova a convincere ancora una volta Casula a liberarsi del mediatore nigeriano. Inutilmente, a suo dire.
“Mi disse che Obi era legato a Gianluca Di Nardo e che questo Di Nardo era stato partner del noto finanziere Francesco Micheli, il quale, a sua volta, era vicino a Scaroni. Per convincermi di quanto l’amicizia tra Scaroni e Di Nardo fosse solida, mi mostrò anche una lettera anonima che era finita in un cassetto, senza alcuna indagine interna.
L’anonimo accusava Di Nardo di insider trading petrolifero insieme a Marco Alverà , altro manager di Eni gradito a Scaroni.
Insomma, Casula mi fece capire che dovevo farmi gli affari miei se non volevo entrare in rotta di collisione oltre che con Descalzi anche con Scaroni”.
I soldi per gli italiani
Ad Armanna appare ormai evidente che “Obi è uomo sicuramente di Descalzi. Lo chiamava “il Ragazzo”, e gli aveva dato un accesso agli uffici di san Donato neanche fosse un manager del gruppo”.
Ma c’è qualcos’altro che lo inquieta. In quel 2010, ad Abuja, diventa vox populi che i 200 milioni di dollari riconosciuti ad Obi per la mediazione siano “tangenti per gli italiani”.
“Il primo a parlarmi di “kickbacks” agli italiani, fu uno dei legali di Shell.
Mi disse: “Non potete prendervi così 200 milioni. Se proprio volete, trovate un altro sistema. E comunque toglietevi dalla testa che paghiamo anche noi””.
Armanna avrebbe insomma a quel punto “la certezza che Obi avrebbe retrocesso parte della somma della sua mediazione agli italiani”.
E a rafforzarla sostiene contribuisca l’Attorney general nigeriano che, nell’autunno 2010, quando la trattativa per l’acquisizione del giacimento sembra arenarsi, decide di fare la faccia feroce. “Minacciò di arrestarci tutti. E mi disse che sapeva che i 200 milioni di dollari di mediazione di Obi erano insieme “bribes”, tangenti, e un ricatto ad Etete”.
Armanna non ha tuttavia prove per dire se quei soldi siano stati o meno retrocessi agli “italiani”.
Piuttosto, ha un’informazione confidenziale da una fonte di cui non intende rivelare l’identità . “Rischierebbe la vita. Posso solo dire che mi confidò che della tranche di 400 milioni di dollari trasferiti da Eni ai venditori al momento dell’acquisizione di OPL245, 50 milioni finirono agli italiani. Ma se poi fossero uomini dell’Eni o persone vicine ad Eni, questo non ha saputo dirmelo”.
L’incontro con Bisignani
Del resto, ronzano in molti intorno alla faccenda nigeriana.
E Armanna ne ha una prova nel novembre del 2010, quando la segretaria di Luigi Bisignani lo convoca in piazza Mignanelli. Armanna e Bisignani non sono esattamente amici. Ma Armanna deve a Bisignani l’aiuto per risolvere al Bambin Gesù un problema di salute del suo secondogenito.
“Pensavo mi volesse solo salutare e poi, all’improvviso, mi chiese: “Mi spieghi che stai facendo?”.
Capii solo dopo un po’ che si riferiva alla Nigeria, a Obi e al giacimento OPL245. Provai dunque a spiegargli che in Nigeria si diceva che i “soldi” di Obi li avrebbe presi Scaroni”.
I legami di Bisignani con Paolo Scaroni sono di amicizia fraterna.
E per questo, Armanna capisce che le domande che si sente rivolgere hanno in realtà un altro destinatario.
Il numero uno di Eni. Il che diventa chiaro quando Bisignani lo congeda con una richiesta: “Paolo deve sapere questa roba. Scrivimi quello che mi ha detto in una nota”.
Ed è quello che fa Armanna. “Consegnai l’appunto alla segretaria di Bisignani”
La vendetta
Ad aprile 2011, Eni e Shell chiudono l’affare. Un miliardo e 300 milioni. Quaranta in più dell’ultima offerta rifiutata qualche mese prima da Etete.
“Un altro controsenso, che avrebbe dato adito ad altre chiacchiere”. Armanna non lo sa, ma i suoi giorni in Eni stanno per finire.
A fine 2011, viene spedito prima in Qatar e poi, nel 2013, ad Abu Dhabi dove deve partecipare a una gara per l’acquisizione del giacimento Adco, 1 milione e mezzo di barili al giorno, il 50 per cento della produzione locale.
Eni vuole che lo “sponsor” locale sia uno studio legale di un giordano.
Armanna si mette di traverso ancora una volta. Ed è l’ultima.
L’Eni concorda una “interruzione remunerata del suo rapporto di lavoro”.
Carlo Bonini e Emilio Randacio
(da “La Repubblica”)
argomento: Giustizia | Commenta »
Ottobre 7th, 2014 Riccardo Fucile
IL MINISTRO HA GIUSTIFICATO GLI EPITETI DI RENZI CONTRO I GIURISTI CONTRARI ALLE SUE RIFORME CON LA NECESSITA’ DI “PASSARE SUI MEDIA”
Professoroni, rosiconi, gufi.
“Abbiamo a che fare con la stampa, per cui le parole che usiamo più sono pesanti, più passano”.
Lo ha detto il ministro della riforme Maria Elena Boschi al presidente emerito della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky, secondo il racconto di quest’ultimo a ‘Partecipa’, la festa del Fatto Quotidiano, durante una telefonata avvenuta quest’estate nella quale il ministro si scusava con il giurista per gli epiteti usati dal presidente del Consiglio Matteo Renzi verso i critici delle riforme governative.
Ma la telefonata, secondo Zagrebelsky, era un tranello, una maniera per mostrare inesistenti aperture al dialogo e per dire di aver sentito tutte le opinioni, pure quelle contrarie come quella del giurista.
Il retroscena è stato rivelato all’incontro organizzato dal Fatto quotidiano al Teatro Nuovo di Torino, nel corso del dibattito sulla riforme e sui diritti in presenza dell’ex procuratore capo Gian Carlo Caselli, del segretario della Fiom Maurizio Landini e del direttore de ilfattoquotidiano.it Peter Gomez: “In occasione della riforma del Senato ho avuto alcuni contatti telefonici con la ministra delle riforme — ha raccontato Zagrebelsky -.
Mi dice: ‘Professore, non si sarà mica offeso della parola professoroni o rosiconi’.
Le dico: ‘No, non è questione di offendersi’”.
La Boschi gli ha poi spiegato il perchè fossero state usate parole come quelle: “Sapete, noi abbiamo a che fare con la stampa, abbiamo a che fare con la comunicazione, per cui le parole che usiamo più sono pesanti, più passano”.
Zagrebelsky crede però che dietro quella telefonata ci fosse un doppio fine: “Che cosa le importava? Le importava di dire che per questa riforma ha sentito tutti i costituzionalisti, anche quelli che non erano d’accordo”.
Lo scambio di opinioni tra il ministro e il presidente emerito della Corte costituzionale è stato documentato a luglio dal Fatto, con la pubblicazione delle proposte di riforma inviate nel maggio scorso da Zagrebelsky al ministro Boschi, proposte mai prese in considerazione.
Andrea Giambartolomei |
argomento: Renzi | Commenta »
Ottobre 7th, 2014 Riccardo Fucile
OSPITE A “LA ZANZARA”: “SILVIO E’ COME GESU’ CRISTO”… “IN KOREA NON ESISTONO LAGER”
“Caro Raffaele, te lo dico da amico: segui i consigli del grande Silvio e fatte nu poco li cazzi tuoi“. E’ lo spassionato consiglio che il senatore di Forza Italia, Antonio Razzi, riserva a Raffaele Fitto, dopo i recenti dissidi all’interno del partito.
Ospite de “La Zanzara”, su Radio24, il parlamentare ricicla gli stessi suggerimenti anche a uno dei conduttori, David Parenzo, e persino al comico Maurizio Crozza (“Io lo faccio lavorare”).
Sulla situazione interna a Forza Italia, afferma: “Noi abbiamo un capo solo e assoluto, Berlusconi ci è stato mandato dal Signore giù in terra per guidarci sulla strada giusta. Gli altri ci portano sulle brutte strade. Silvio è come Gesù Cristo, lui ci porta sempre al bene, lui è un genio ed è anche superiore a Kim Jong-un“.
Razzi rivolge anche gli auguri di pronta guarigione al leader nordcoreano, che di recente si è fratturato le caviglie per aver indossato scarpe col “tacco cubano”.
“Il popolo ha bisogno di lui, spero si rimetta presto per il bene del Paese” — sottolinea il senatore abruzzese — “Fargli una visita in ospedale? Questo non credo”.
Poi attacca duramente il dissidente Shin Dong-hyuk, autore del libro “Camp14″ e intervistato nei giorni scorsi dal Corriere della Sera dopo la sua esperienza in un lager: “I lager non esistono, questo mi sa che si vuole fare i soldi alle spalle della gente. Ma quando mai ha fotografato un lager? Purtroppo la gente abbocca e lui vende i libri. Questo mi sa che s’è imparato la furbizia, ma io il suo libro non lo compro. Ma mi faccia il piacere, come dice Totò.
Tutto inventato” — continua — “I lager c’erano negli anni Quaranta nella Germania e nella Polonia, ma dove sono oggi questi lager? Lì non c’è”.
Razzi poi cambia decisamente umore, quando viene citata l’intervista rilasciata da Matteo Salvini a Franco Di Mare per “Uno Mattina” (Rai Uno): “Quel giornalista è caduto in basso, io con lui non sono mai stato a mangiare in una mangiatoia insieme. Ma lui come si permette? Quando ha parlato di me, ha avuto un’espressione che mi ha fatto arrabbiare. E che tengo io, la rogna? Ma come cazzo ti permetti di dire quelle parole così? Guarda, io non avevo niente in mano, sennò avrei spaccato anche la televisione, ero in albergo. Prima vedevo “Uno Mattina”, mo’ non lo guardo manco più”.
E puntualizza: “Ho scritto a Gubitosi. Io voglio le scuse di Di Mare, io sono sempre un senatore della Repubblica e non gli permetto di offendermi con quell’espressione di maleducazione”
Gisella Ruccia
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: Forza Italia | Commenta »
Ottobre 7th, 2014 Riccardo Fucile
DA UN LATO 1.200 EURO L’ANNO IN PIU’, DALL’ALTRO MENO DETRAZIONI E AGEVOLAZIONI… E C’E’ CHI CI PERDEREBBE
Più Tfr in busta paga, meno agevolazioni per asili nido, mense scolastiche, tasse universitarie. E anche minori detrazioni Tasi.
Esiste un rischio, insito nell’operazione cara al governo Renzi, fin qui trascurato o neanche ipotizzato dai tecnici.
Ed è quello di perdere gli sconti legati al reddito Isee, destinato con certezza a lievitare nel caso in cui il dipendente optasse per l’anticipo della liquidazione nel cedolino del prossimo anno.
Non una faccenda di poco conto.
Assicurata la liquidità alle piccole e medie imprese grazie al circuito bancario (a che interessi?… n.d.r.), l’ostacolo più grande all’idea del Tfr subito – in un’unica soluzione a febbraio oppure in rate mensili – ora diventa proprio questo.
Il pericolo cioè che il lavoratore ci perda. E che ci guadagni, alla fine, solo lo Stato.
Il Tfr in busta paga non è difatti solo “salario differito” che il dipendente può scegliere di consumare ora. Ma anche tasse di domani che il governo incassa oggi.
Dai 4 ai 6 miliardi, a seconda dell’ipotesi. Di fatto, una mini-manovra, buona per tagliare l’Irap alle aziende. O finanziare i “nuovi” ammortizzatori sociali. O entrambi.
Non male, in tempi di impegnative coperture alla legge di Stabilità .
Di quanti soldi parliamo? In media, 100 euro al mese, 1.200 euro l’anno, netti.
Un dipendente che viaggia attorno ai 23 mila euro lordi annui (l’imponibile medio dei lavoratori italiani nel privato), se scegliesse l’anticipo del suo Tfr, vedrebbe salire la busta paga di 106 euro in più (netti) da gennaio in poi.
Oppure di 1.269 euro tutti in una volta.
E questo nell’ipotesi, che ora va per la maggiore a Palazzo Chigi, di concedere nel 2015 il 100% della liquidazione accumulata nel 2014.
Il vantaggio mensile di fatto oscillerebbe tra gli 85 e i 153 euro, a seconda dei redditi (dai 18 mila ai 35 mila euro annui), calcola il Caf Uil.
Molto meno, se l’anticipo fosse del 50% del Tfr, dunque non una mensilità in più, ma solo mezzo stipendio extra: in busta paga si vedrebbero dai 43 ai 76 euro. Poca cosa. Tutto ciò nel caso in cui (logico e favorevole) l’anticipo del Tfr sia tassato non come cumulo di reddito e dunque con un’aliquota Irpef più alta (sarebbe una stangata fiscale in piena regola).
Ma in modo separato e agevolato, come avviene ora alla fine del rapporto di lavoro, con un’aliquota media pari a quella Irpef degli ultimi cinque anni (più un 11% della rivalutazione), dunque tra il 23 e il 25%.
Ebbene, anche in quest’ultimo caso di tasse ridotte, salirebbe il reddito.
Non quello imponibile ai fini Irpef, ma quello Isee. Che proprio dal 2015 ricomprende nel suo calcolo, giustappunto, anche tutti i redditi a tassazione separata, come appunto il Tfr, oggi esclusi.
Ma più Tfr significa maggiore reddito Isee, dunque minori sconti, specie per redditi medio- bassi.
Vediamo qualche esempio.
Un reddito Isee di 12.500 euro a Milano paga una tariffa di asilo nido pari a 103 euro mensili.
Ma se quel reddito si alzasse anche solo di un euro per effetto del Tfr anticipato – la retta passerebbe a 232 euro: 129 euro in più al mese. Conviene?
Il costo della mensa scolastica a Roma è di 50 euro mensili per redditi Isee non superiori, anche qui, a 12.500 euro. Limite che un anticipo di liquidazione potrebbe violare, portando così la mensa a 54 euro.
L’iscrizione all’università La Sapienza di Roma costa 549 euro l’anno, per i redditi Isee di 12 mila euro. Si passerebbe a 600 euro con un reddito poco sopra.
A Bari chi ha un reddito Isee di 10 mila euro non paga la Tasi. Sarebbe rischioso accettare il Tfr nello stipendio, se poi questo comportasse l’obbligo di versare la tassa sulla casa e per giunta con aliquota massima, al 3,3 per mille.
“Sarà una scelta volontaria”, rassicurava ieri il ministro dell’Interno Alfano.
“E se si fa, non costerà neanche un euro in più di tasse”, rincarava il viceministro all’Economia Morando.
Dipende, verrebbe da dire.
Valentina Conte
(da “La Repubblica”)
argomento: Renzi | Commenta »