Ottobre 7th, 2014 Riccardo Fucile
“I SOLDI DEVONO ANDARE AD AZIENDE CHE HANNO PRODOTTO PERDITE E NON PAREGGI DI BILANCIO”
Un bilancio quasi sano? Ma per l’amor di Dio! Meglio un buco, una voragine, un abisso. Più profondo possibile. «Tanto paga la Regione».
Era questa, dice un’inchiesta della magistratura, la filosofia dell’Asl di Sassari.
Una storia abnorme e paradossale. Che aiuta a capire perchè la nostra Sanità , come spiegava ieri l’inchiesta di Simona Ravizza, sia sommersa dai debiti.
Dice tutto una e-mail finita nelle tremila pagine del fascicolo giudiziario. Dove Marcello Giannico, messo lì come commissario dall’allora governatore berlusconiano Ugo Cappellacci, scrive al direttore amministrativo dell’Asl Angela Cavazzuti (che denuncerà tutto ai giudici) raccomandandole come priorità «l’approvazione del bilancio 2010 con le rettifiche che le ho suggerito. Le ricordo che in Regione ci sono 120 milioni liquidi disponibili per ripianare le perdite del 2010 di tutte le Asl sarde. Le sottolineo che questi denari vanno alle Aziende che hanno prodotto perdite e non pareggi di bilancio». Traduzione: quel bilancio improntato al virtuoso contenimento dei costi non va bene perchè è troppo poco in rosso.
Ma come: il pareggio nei conti non è forse l’obiettivo di ogni buon amministratore dalla Patagonia alla Kamchatka?
Il bilancio dell’Asl di Sassari, che serve 336.632 cittadini di 66 Comuni sparsi su un territorio grande come tutto il Molise, aveva chiuso quel 2010 con 877 mila euro di passivo su un «fatturato» di oltre mezzo miliardo: esattamente 528 milioni e 567 mila.
Per capirci: uno sforamento dell’1,16%.
Ventisei volte più basso di quello dell’anno prima. Oro colato, per la Sardegna che spende per la Sanità più o meno tre miliardi l’anno, la metà del proprio bilancio, e sfora ogni anno i budget di previsione di tre o quattrocento milioni.
Buchi ripianati dalla Regione, per anni, senza troppe puzze sotto il naso.
Il guaio è che, da qualche tempo, le nuove norme dicono che se i direttori generali ottengono un risultato peggiore rispetto all’anno prima, non possono essere confermati. Un problema serio, per il commissario Giannico arrivato nel gennaio 2011: come poteva far meglio del predecessore, esautorato secondo i più maliziosi perchè politicamente poco «affidabile»?
L’unica soluzione, accusa il sostituto procuratore Gianni Caria, che ha chiuso le indagini preliminari chiedendo il rinvio a giudizio di Marcello Giannico e dei quattro suoi collaboratori principali, era far figurare peggiore il bilancio 2010.
Bilancio che, tra le proteste della direttrice amministrativa, fu riaperto (per legge doveva esser chiuso al massimo entro il 30 giugno 2011) e stravolto per arrivare, aggiungi questo e aggiungi quello (ad esempio 7 milioni di debiti nei confronti dei dipendenti mai reclamati nè da loro nè dai sindacati) a 11 milioni e mezzo di buco.
Era il 3 novembre 2011. Macchè, il «ritocco» non bastava.
Cinque giorni dopo Giannico riceveva da Gian Michele Cappai, il responsabile del Servizio Programmazione preso infischiandosene delle contestazioni interne (un documento-oroscopo sindacale era arrivato a predire in anticipo le generalità dell’assunto: «le sue iniziali saranno G.M.C.»), una e-mail preoccupatissima: «Dal preconsuntivo 2011 emerge “una perdita tendenziale pesante”».
Traduzione: il primo intervento per peggiorare il bilancio 2010 non bastava davanti al resoconto 2011 che si profilava. E che avrebbe visto un buco di 13 milioni.
Che fare? I vertici dell’Asl sassarese decidono un nuovo intervento sul bilancio chiuso e riaperto.
Il baratro nei conti 2010 viene inabissato fino a 18 milioni e mezzo. Ventuno volte più profondo del modesto «rosso» iniziale. In realtà , scriverà La Nuova Sardegna, «gonfiare i debiti» fu per la Procura «un gioco di prestigio contabile per consentire a Giannico di evitare la revoca dell’incarico.
E siccome Angela Cavazzuti si era messa di traverso, ostacolando l’operazione, sempre secondo questa ipotesi accusatoria Marcello Giannico le creò prima il vuoto intorno e nel 2012 la licenziò in tronco».
Di più: il licenziamento della dirigente che rifiutava di sottoscrivere i giochi di prestigio fu corredato dalla diffusione di motivazioni così «ingiuriose» da configurare, dice il magistrato, il reato di diffamazione aggravata.
Col risultato che il commissario pidiellino rimasto al suo posto nonostante la vittoria del centrosinistra alle ultime regionali e nonostante le indagini sul bilancio, si ritrova con la richiesta di una imputazione in più.
Come andrà a finire? Lo dirà , se ci sarà , il processo.
E fino all’eventuale condanna, si capisce, Marcello Giannico e i suoi sodali (che grazie a quel lifting ai conti son riusciti a farsi dare l’anno dopo dalla Regione 40 milioni in più e addirittura 47 nel 2012 fino a far segnare un miracoloso sia pur minimo attivo di bilancio) sono innocentissimi. Auguri.
Vada come vada, resta quella e-mail strabiliante che chiede alla funzionaria ribelle di ritoccare i numeri perchè i soldi della Regione «vanno alle Aziende che hanno prodotto perdite e non pareggi di bilancio».
Per non dire di una email di Gianfranco Manca, responsabile del Bilancio, al commissario che l’aveva scelto: «Come sai le rettifiche non saranno prese bene dalla Cavazzuti che farà di tutto per crearmi problemi. Il fatto di non essere un esperto di bilancio non sarà certamente un vantaggio per l’espletamento dell’incarico».
Confessione ribadita nell’interrogatorio giudiziario: «Non avevo prima esperienza nel settore bilancio…».
L’avevano scelto apposta per gestire mezzo miliardo di euro l’anno…
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera”)
argomento: sanità | Commenta »
Ottobre 7th, 2014 Riccardo Fucile
JOBS ACT: NEL PD 23 ASSENTI, SOLO 12 GIUSTIFICATI… DANNO FORFAIT ANCHE 10 SENATORI NCD…TRA POCO SI RIVOTA SUL VERBALE
Il caos calmo del Pd si materializza sul pallottoliere di palazzo Madama.
Dove manca il numero legale sull’approvazione del verbale di seduta.
Il che significa che la discussione generale sul jobs act va avanti. E che servirà una nuova votazione del pomeriggio per arrivare a chiudere la discussione generale e a votare la fiducia domani, secondo la road map di Renzi.
Che vuole presentarsi al vertice informale sul lavoro a Milano con il jobs act approvato.
Eccoli, i numeri della votazione mattutina: sono 23 gli assenti del Pd.
Di cui 12 in congedo o in missione (quindi come si dice in gergo “giustificati”), gli altri ingiustificati.
Tra i giustificati: Bubbico, Caleo, Casso, Cuomo, Giacobbe, Guerrieri, Marino, Minniti, Pinotti, Puppato, Santini, Verducci.
A sorpresa sono mancati invece: Bianco, Cantini, D’Adda, Esposito, Latorre, Mineo, Mucchetti, Tomaselli, Tonini.
Al gruppo del Pd sdrammatizzano: “È un caso di disattenzione. Diciamo che si sono sommati un poì di malumori e un po’ di classici ritardi del martedì mattina”.
Una decina di assenti si registrano anche nelle file di Ncd.
Renzi è a palazzo Chigi in conferenza stampa. Ostenta sicurezza. Scandisce che non “teme agguati”.
Il pallottoliere di palazzo Madama dice che sarebbe servito il soccorso azzurro per approvare il verbale sul jobs act.
Soccorso che non arriva: “Noi — spiega il capogruppo di Forza Italia Paolo Romani – abbiamo partecipato al percorso delle riforme, ma su tutti i provvedimenti di carattere economico noi siamo all’opposizione. Questa mattina eravamo in aula ma ho dato indicazione di non votare il numero legale”.
Segno che Forza Italia è diventata più intransigente verso Renzi? Nient’affatto.
È che, per dirla con le vecchie volpi azzurre, “almeno il numero legale se lo garantiscano da soli”.
Dal punto di vista della tattica parlamentare è una scelta praticamente ovvia, perchè non si è mai vista un’opposizione — neanche blanda — che garantisca il numero legale per aiutare la maggioranza a mettere la fiducia.
Lo spiega Maurizio Gasparri: “Abbiamo fatto mancare il numero legale perchè è inaccettabile la fiducia”.
Perchè lo abbia fatto mancare un pezzo di Pd è al momento un mistero.
Maldipancia degli oppositori interni di Renzi o semplicemente disattenzione? Nuovo voto nel pomeriggio.
argomento: Parlamento | Commenta »
Ottobre 7th, 2014 Riccardo Fucile
IL 70% PREFERISCE VENGANO ACCANTONATI, SOLO IL 30% VUOLE INCASSARE SUBITO
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha ripreso l’idea di lasciare nella busta paga dei lavoratori la quota accantonata ogni mese per il TFR (Trattamento di Fine Rapporto).
Gli interessati potrebbero così disporre immediatamente di una fonte di reddito ulteriore — da trasformarsi, secondo gli auspici del governo, in maggiori consumi — ma dovrebbero rinunciare alla disponibilità di una cifra consistente nel momento della cessazione del lavoro.
Proprio questo aspetto rende perplessi gli italiani.
Un sondaggio condotto da Ispo mostra che la maggior parte — quasi due su tre — mostra di preferire l’accantonamento del TFR, in modo da ritrovarsi una cifra consistente a fine rapporto.
Solo poco più del 30% si orienta verso la riscossione immediata della quota di TFR, con una accentuazione tra gli impiegati.
Mentre, viceversa, tra gli operai, è ancora maggiore la quota di chi preferisce l’accantonamento del TFR e si dichiara contrario alla distribuzione mensile in busta paga.
È interessante la differenziazione delle risposte rispetto al reddito familiare.
In tutti i livelli, la maggioranza si conferma per la continuazione del sistema com’è ora, ma nelle due categorie estreme, i più “poveri” (meno di 15.000 euro all’anno) da un verso e i più “ricchi” (più di 50.000 euro l’anno) dall’altro, si rileva un’accentuazione relativa (che raggiunge il 41%) per l’erogazione mensile del TFR.
L’atteggiamento critico verso l’erogazione mensile del TFR è confermato da molte risposte degli intervistati.
Ad esempio, il 69% lamenta la possibilità di una tassazione maggiore, il 67% teme per la perdita di una forma di risparmio anche se forzosa.
Non solo: il 50% non ritiene che la distribuzione mensile del TFR costituisca un aiuto per le famiglie.
E il 60% dichiara di non credere che questo eventuale provvedimento possa rilanciare i consumi.
Ciò che, in ogni caso, accomuna quasi tutti gli italiani è l’idea che ciascuno debba essere libero di scegliere.
Secondo l’81%, il lavoratore deve decidere autonomamente il destino del proprio TFR.
(da “Huffingtonpost“)
argomento: Lavoro | Commenta »
Ottobre 7th, 2014 Riccardo Fucile
SOLITA SCENA: RENZI ALTERNA BATTUTE A CAZZATE, CISL E UIL MEDIANO PER L’ALDILA’, LA CAMUSSO FINGE DI DISPORRE LE TRUPPE
Tra il “dissenso totale” di Susanna Camusso e la “svolta possibile” della cislina Annamaria Furlan la distanza tra i due principali sindacati pare aumentata dopo il vertice con Renzi nella Sala Verde di palazzo Chigi.
“Non voglio dividere il sindacato”, dice il premier in premessa, ma il risultato pare l’opposto.
Cgil in piazza il 25 ottobre, Cisl e Uil no, e persino sulla “notizia del giorno” Camusso e Furlan si dividono: “C’è una sola notizia, che ci rivedremo il 27 ottobre. Per il resto cambia poco o nulla”, scandisce la prima.
“La notizia è che il dialogo c’è stato”, precisa la seconda, che nel corso della conferenza stampa modifica il suo giudizio da “spiraglio” a “svolta possibile”, nelle relazioni tra governo e parti sociali.
Per Camusso, accanto al “dissenso totale” sull’articolo 18, l’incontro con Renzi ha confermato in negativo “tutte le ragioni per la nostra manifestazione del 25 ottobre”: “Non è emersa nessuna disponibilità a discutere delle riforme con le organizzazioni sindacali, la stagione della concertazione non si è riaperta, la politica decide in modo unilaterale, ma noi reagiremo”.
Renzi parla di “sorprendenti punti d’intesa tra governo e sindacati”.
Sfida la Cgil al tavolo, annunciando un nuovo incontro per il 27 ottobre: “Ci vediamo dopo i tre milioni in piazza”, riferendosi alla manifestazione di Cofferati del 2002 sull’articolo 18. “Non non ci sentiamo all’angolo, questa partita merita di essere giocata”, replica la leader Cgil.
La riapertura della Sala Verde non segna neppure un timido disgelo tra Renzi e il sindacato rosso.
Il suo ufficio stampa twitta una foto in bianco e nero, rievocando i tavoli del passato. La Camusso ricorda beffarda che “la Sala è piena di lavori in corso, ci hanno accolti sul ballatoio”.
E alla sincadalista che aveva citato “Un’ora sola ti vorrei” per stigmatizzare la brevità del vertice, il premier replica con Bennato: “Una settimana, un giorno, solamente un’ora a volte vale una vita intera”. “Bennato mi piace tantissimo anche se ora suona per i Cinque Stelle”, ironizza Renzi.
I temi annunciati dal premier restano sullo sfondo: legge sulla rappresentanza, contrattazione di secondo livello, salario minimo.
Solo titoli da sviluppare in un secondo momento, nessuna sfida del governo sul modello Marchionne, per ora.
“Una legge sulla rappresentanza ora è inopportuna, abbiamo fatto degli accordi che devono essere applicati”, scandisce Furlan, scettica anche sul salario minimo: “Non ce n’è alcun bisogno, basta estendere i contratti a quel 15% di lavoratori che ora è scoperto”.
Tutti e tre d’accordo i sindacati sulla necessità di mettere il Tfr in busta paga “solo a zero tasse e senza intaccare la previdenza complementare”.
“Renzi ci ha detto che non lo farà se sarà un problema per le piccole imprese”, sintetizza Angeletti. “E mi pare che questa sia l’unica risposta chiara che abbiamo ottenuto”.
Il leader della Uil non smette i panni del mediatore tra i due sindacati maggiori, battibecca col premier sul numero eccessivo di sindaci (”Ci sono anche troppi sindacalisti”, replica Renzi) e spiega che “l’incontro ha avuto più una valenza politica e simbolica che di sostanza”.
“Vediamo, forse è l’inizio di un cambiamento nei rapporti tra governo e parti sociali…”.
Sull’articolo 18 per partiti e sindacati Angeletti si leva un sassolino: “Non c’è per tutte le organizzazioni di tendenza, solo il qualunquismo dilagante permette di oscurare questo. L’ho detto al premier e lui è stato zitto…”.
Dura Camusso: “Noi lo diciamo dal 2001 che si può estendere l’articolo 18 anche ai sindacati”.
Proprio su questo tema Angeletti evoca lo sciopero generale: “L’avremmo fatto se l’avessero tolto anche ai contratti in essere, bisogna ricordare che è una questione di potere nelle aziende, mica di psicologia degli investitori, stiamo parlando di licenziamenti illegittimi, e questo non lo ricorda mai nessuno”.
Secondo il leader Uil, “il premier si è accorto che i problemi sono tali da non poter essere risolti a colpi di fiducia e leggi delega. Questo schema mostra la corda, per questo ci ha convocato”.
E tuttavia, “noi confederali abbiamo un problema con l’opinione pubblica, i nostri messaggi non passano. Per questo dovremmo trovare una sintesi tra noi e fare una campagna unitaria, non solo una manifestazione…”.
Camusso annuisce: “Stiamo lavorando per questa campagna…”.
Furlan ammorbidisce le spaccature: “Avere sensibilità diverse è la forza del sindacato italiano, tra noi c’è rispetto…”.
(da “Huffingtonpost”)
argomento: governo, sindacati | Commenta »
Ottobre 7th, 2014 Riccardo Fucile
“ORMAI SIAMO DUE MONDI DIVERSI”
La paura dei franchi tiratori, la necessità di un’approvazione in tempi rapidi.
«Non possiamo sbrodolare», dice Matteo Renzi nel consiglio dei ministri chiedendo l’autorizzazione a usare la fiducia sul Jobs Act in Senato.
«Ma soprattutto – spiega il premier – il mio obiettivo è dare un senso unitario alla riforma, senza troppi strappi. Con i voti segreti e la battaglia sugli emendamenti questo obiettivo non sarebbe possibile. È un messaggio fondamentale non solo per l’Europa. Gli italiani devono capire dove vogliamo andare».
È un rischio, certo. Non per la tenuta del governo visto che i senatori dissidenti (tranne 4 o 5 casi) rientreranno nei ranghi e non faranno cadere il governo.
Ma perchè rimane il solco con la sinistra su un tema sensibilissimo come l’articolo 18.
L’incontro con i sindacati nella sala Verde di Palazzo Chigi, il suo esito finale, condizionerà le scelte della minoranza del Pd.
Così come il nuovo emendamento che sta scrivendo Giuliano Poletti per recepire le correzioni indicate dal Partito democratico nella sua direzione.
Acqua fresca, ribattono alcuni oppositori prima ancora di conoscere il testo governativo. Quella che si vede oggi è dunque la continuazione di un dialogo tra sordi.
Entrambi i fronti sembrano decisi ad aggravare la frattura.
Spingere Renzi a destra nell’immaginario collettivo, insistere nei paragoni con Margaret Tatcher, accusarlo di cedere ai «ricatti di Sacconi» mettendo la fiducia sulla legge delega, come fa il senatore bersaniano Miguel Gotor, ha un significato politico che va oltre il Jobs Act.
Significa liberare e marcare un territorio politico diverso, quello della sinistra, e se non è questa la premessa di una scissione poco ci manca.
Qualcuno nei giorni scorsi ha sentito pronunciare allo storico tesoriere dei Ds Ugo Sposetti due paroline tedesche: “Die Linke». È il partito fondato in Germania da Oskar Lafontaine in contrapposizione con il socialismo “di centro” di Schroeder, del quale rimane nella storia la riforma del lavoro, appunto. Linke vuole dire sinistra e ancora oggi il movimento ha il 7 per cento dei voti (Europee 2014).
A Sposetti chiedono tutti giorni “ma allora ve ne andate?” perchè il tesoriere è notoriamente seduto, come Paperone, su un patrimonio (immobiliare) di circa 2 miliardi di euro.
I soldi della Quercia vengono visti come una precondizione della nascita di nuovo soggetto politico.
Sposetti risponde a tutti: «Dove andiamo? Siamo quattro gatti».
Pippo Civati però ha già imboccato una strada diversa. «Semmai è il Pd di Renzi ad aver cambiato la natura del Pd. Non c’è più niente di democratico nel partito. E mi chiedo: come si fa stare in un gruppo di cui non si condivide nemmeno l’atteggiamento, non solo le leggi?».
È la domanda finale prima dell’uscita.
L’ex sfidante delle primarie spiega che lui «nel Pd crede ciecamente», che ne ha fatto «una ragione di vita » da quando è in politica.
Tuttavia il disagio è tanto, «la situazione deprimente» e il voto di fiducia avviene «sul nulla perchè dentro l’emendamento non ci saranno nemmeno le cose approvate in direzione».
I suoi 6 senatori sono i principali “indiziati” dello strappo, domani in Senato. Usciranno dall’aula per non votare contro il governo. Ma non diranno “sì”.
Stefano Fassina spinge anche gli altri dissidenti a ribellarsi, senza curarsi delle conseguenze del governo.
«Questa riforma del lavoro parla a un altro mondo che non è il nostro».
Due mondi diversi, quindi. Due pianeti lontani.
«Abbiamo la pistola alla tempia, che dobbiamo fare? », osserva Federico Fornaro, uno dei firmatari degli emendamenti in difesa dell’articolo 18. Fassina e Civati la fanno troppo facile perchè stanno alla Camera. Se pure votassero contro l’esecutivo non se ne accorgerebbe nessuno. A Palazzo Madama invece bastano 7 voti per mandare a casa Renzi.
«Voterò la fiducia – dice rassegnato Gotor – ma è un segno di debolezza di Renzi. Non ascolta il suo partito e subisce il diktat di Sacconi».
Questo è il Pd alla vigilia del voto sul lavoro, che è la radice della sinistra.
Goffredo De Marchis
(da “La Repubblica”)
argomento: Partito Democratico, PD | Commenta »
Ottobre 7th, 2014 Riccardo Fucile
I BERSANIANI IRRITATI DALLA SCELTA DI CHIUDERE IL DIBATTITO, PERà’ CEDONO: “CERTO CHE VOTIAMO, ALTRIMENTI ARRIVA IL SOCCORSO DI FORZA ITALIA”
“Ho detto partito, mi è caduto il microfono”. Matteo Renzi a Quinta Colonna la butta lì così la battuta che dice chiaramente come la pensa sul Pd.
Un Pd che ancora una volta si appresta ad umiliare.
“La fiducia? Certo che la votiamo”. Miguel Gotor, senatore bersaniano, non ha un attimo di esitazione. E spiega: “Al Senato abbiamo una maggioranza soltanto di 7-8 senatori”.
Però, ci tiene ad aggiungere, “si tratta di una manifestazione di debolezza di Renzi. Se la mette è solo perchè altrimenti sarebbe costretto a dimostrare all’opinione pubblica di aver bisogno del soccorso azzurro per governare”.
Per non far cadere il governo, i bersanian-dalemian-cuperliani diranno sì a una delega praticamente in bianco, che non contiene neanche l’estensione dell’articolo 18 per i licenziamenti disciplinari (ovvero, la mediazione ottenuta in direzione).
I dissidenti, civatiani e dintorni (una decina in tutto, capeggiati da Mineo, Tocci, Ricchiuti e Casson), usciranno dall’Aula.
Dopo settimane di dichiarazioni, interviste, annunci di guerra, minacce e alla fine pure appelli e preghiere (di non metterla, la fiducia, di recepire gli emendamenti, di permettere almeno una discussione) il Pd non renziano si prepara a piegarsi ancora una volta alla volontà del presidente del Consiglio.
Il capogruppo a Montecitorio, Roberto Speranza, è lapidario: “Siamo un partito serio”. Per tutti, così parla Alfredo D’Attorre, uno dei deputati che in direzione ha detto no: “Sarebbe giusto consentire un confronto di merito al Senato ma prevarrà la responsabilità di non far cadere il governo”.
Nel nome della “responsabilità ”, insomma, il Pd è pronto ad arrendersi.
D’altra parte, non c’è da stupirsi: in direzione, pure se il segretario aveva dei numeri schiaccianti, si è guadagnato il via libera dall’85 per cento dei votanti. Ben di più dei renziani presenti. Evidentemente, funziona il metodo-Matteo, che si può tradurre più o meno così: “O si fa come dico io, o cade il governo e si va a votare.
Le liste le facciamo noi e chi non è con noi è fuori”. E, poi, in fondo, se è per stare al merito, il Pd ha votato anche la riforma Fornero, quella che ha dato il primo colpo, quasi decisivo all’articolo 18.
Sempre per senso di “responsabilità ”, quello che aveva dato il via al governo Monti, dopo la caduta di Berlusconi.
“La situazione è sconsolante, da tutti i punti di vista. Sono giorni e giorni che ci raccontiamo che si sta lavorando a una mediazione: ma di quale mediazione parliamo? Qui si discute per finta”, commenta un Democratico a microfoni spenti. Una verità evidentemente troppo dura per poterla esprimere a viso aperto, mentre si decide di dare comunque il voto al governo.
Le dichiarazioni ufficiali, dunque, preferiscono richiamare i massimi sistemi o cercare di smuovere il segretario-premier con le buone.
Ecco Gianni Cuperlo: “Faccio un appello al governo e al presidente del Consiglio perchè si eviti il voto di fiducia su una materia delicata e complessa”.
Ma poi: “La parola scissione non la voglio neanche sentire”.
Ecco Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro a Montecitorio: “Insisto nel chiedere al governo di non mettere la fiducia al Senato. Questa scelta sarebbe grave perchè priverebbe il Parlamento della sua sede naturale di confronto. Lo stesso Governo che ha deciso di aprire un tavolo di confronto con le parti sociali, è quello che nega il confronto al Senato ed alla Camera? Sarebbe fortemente schizofrenico, a meno che il confronto nella Sala Verde sia soltanto una tantum dal sapore propagandistico”.
Lascia un margine di dubbio Ugo Sposetti: “Leggiamo prima l’emendamento e poi mi pronuncerò”.
Il più battagliero è il deputato Stefano Fassina: “Le conseguenze politiche della fiducia sul jobs act sono molto gravi innanzi tutto per il Parlamento. Il governo lo costringe a dargli una delega in bianco, è un problema istituzionale molto grave che merita l’attenzione del Presidente della Repubblica”.
Insomma, a Palazzo Madama tutto dovrebbe filare liscio, con qualche incognita di prassi.
Due o tre “No”, tanto per non perdere del tutto la faccia, potrebbero arrivare.
E poi, magari alla Camera, qualcuno alla fine si opporrà .
Confidando nel fatto che il suo voto è determinante.
Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano”)
argomento: Partito Democratico, PD | Commenta »
Ottobre 7th, 2014 Riccardo Fucile
VERTICE TRA ABI E GOVERNO… ANCHE I FONDI PENSIONE ATTENDONO CHIARIMENTI
Le banche vogliono chiarimenti dal governo sul fronte Tfr prima di dare il via libera all’operazione.
L’Associazione bancaria italiana (Abi) ha incontrato ieri i tecnici dell’esecutivo e oggi ci sarà il vertice ufficiale tra banche e governo per provare a sciogliere i dubbi sul provvedimento che porterà in busta paga la liquidazione dei lavoratori dipendenti.
Un’iniziativa «volontaria», assicura la politica, che impegnerebbe però il credito ad anticipare solo nel 2014 fino a un massimo di 11 miliardi alle piccole e medie imprese tricolori.
E che senza l’ok dell’Abi ben difficilmente potrebbe decollare.
Le bocche, come ovvio, sono cucite. Anche perchè gli istituti aspettano di leggere un testo ufficiale.
I testi circolati in questi giorni prevedono che a restituire il Tfr in busta paga ai dipendenti delle aziende con meno di 50 dipendenti – le uniche che lo trattengono in tesoreria – sia o un fondo compartecipato da Cassa depositi e dalle banche o gli istituti in prima persona. Un’intermediazione chiesta da Confindustria e necessaria per non creare problemi a realtà che utilizzano i soldi accantonati per il Tfr come riserva di liquidità a basso costo in un momento in cui il credito arrivacon il contagocce
La formula prevista della bozze del governo non toccherebbe questo tesoretto.
Le banche anticiperebbero i soldi in busta paga e solo al momento delle dimissioni del dipendente le aziende restituirebbero la liquidità accumulata agli istituti o al Fondo
I nodi per l’Abi sono chiari: che ritorno garantiranno questi prestiti alle pmi?
La liquidazione oggi ha un rendimento “automatico” (1,5% + il 175% dell’inflazione, in questo momento circa il 2,3%).
Un tasso molto inferiore a quello medio praticato sui crediti alle imprese, il 2,89% a fine agosto, e molto basso soprattutto rispetto ai valori praticati a quelle più inaffidabili o a rischio.
Il governo ha messo sul piatto la garanzia pubblica dell’Inps su questi fondi. E il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha in sostanza dato luce verde («le banche sono libere») all’utilizzo dei fondi raccolti con l’ultimo finanziamento Tltro della Bce – 23 miliardi chiesti dagli istituti italiani a un tasso agevolato dello 0,15% – per il finanziamento dell’operazione Tfr.
Il mondo del credito però vorrebbe rendimenti adeguati sui soldi girati alle aziende più fragili e chiede certezze su modi e tempi di rimborso in caso di fallimenti societari tra i debitori.
Un altro nodo da chiarire è cosa dovranno fare i lavoratori che hanno già deciso di girare parte della loro liquidazione alla previdenza complementare.
Potranno fare marcia indietro pretendendo di farsi depositare la cifra direttamente nello stipendio?
L’ipotesi ha creato già qualche mal di pancia tra i fondi pensione, alle prese con il faticoso decollo di questo “terzo pilastro” della previdenza integrativa sponsorizzato negli anni passati dalla politica.
Nel 2013 «su 12,3 miliardi di flussi contributivi complessivi in questi strumenti, circa 5,2 miliardi sono stati rappresentati da quote di Tfr», ha detto con un filo di preoccupazione Rino Tarelli, l’Authority di settore.
«È chiaro che, prima di esprimere una valutazione dell’effettivo impatto di tale eventuale misura, è necessario conoscere le modalità in cui tale soluzione verrebbe articolata – ha aggiunto – come la quota del Tfr presa in considerazione, durata e destinatari dell’iniziativa e la sua volontarietà ».
Ettore Livini
(da “La Repubblica“)
argomento: Renzi | Commenta »
Ottobre 7th, 2014 Riccardo Fucile
IN RITARDO SU TUTTE, MOLTE RINVIATE AL 2018…E I DECRETI ATTUATIVI MANCANTI SONO SALITI A QUOTA 240
Una riforma su cinque, non di più.
E’ questo il rapporto numerico tra le cose annunciate e quelle fatte dal governo. A certificarlo è la nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza 2014 approvata dal Consiglio dei Ministri il 30 settembre.
Si sa che è una sorta di libro dei sogni che si scrive a marzo e si corregge a settembre. Ma in questa occasione, il Def 2014 diventa il documento che rende evidente la dissociazione tra annunci e fatti del governo Renzi.
La nota, presentata la scorsa settimana dai ministri Padoan e Delrio, paga pegno all’ottimismo del premier tra qualche svarione, molte misure non pervenute e altre rimandate a date da destinarsi nell’orizzonte lungo dei mille giorni.
La riforma della legge elettorale resta forse la più emblematica: nel primo documento era data per “approvata entro settembre”, ancora oggi è al palo e nell’aggiornamento del Def viene calendarizzata per il 2015, un anno dopo.
Certo non è la sola oggetto di conferenze stampa, slide, tweet e annunci in diretta tv poi rimasta sulla carta.
L’aggiornamento del Def, si diceva, offre un quadro su tutte le azioni del governo.
Lo stato dell’arte è ben illustrato da una tabella di sintesi a pagina 71. E’ li che salta fuori con evidenza grafica lo spread tra promesse e fatti.
Il titolo è “cronoprogramma per le riforme”.
Nella colonna a sinistra viene indicato il periodo, al centro l’azione del governo con l’elenco dei singoli provvedimenti, a sinistra lo “stato” delle riforme secondo tre categorie: quelle avviate (), concluse () e programmate ().
Prima di mettersi a far di conto bisogna segnalare che lo stato “concluso” in realtà va preso con le pinze: la mole di decreti attuativi non ancora pervenuti, ascrivibili al governo Renzi, ha raggiunto quota 240 così che a molte misure date per “concluse”, in realtà , manca la legislazione di secondo livello che le renda operative.
Fino ad allora, di fatto, possono essere caricare sul carretto delle leggi inattuate.
Fatta questa premessa non resta che contare i pallini come a scuola.
E qui si scopre la sorpresa su cinque.
Fermandosi al 2014 nel nuovo Def sono elencati 38 provvedimenti, altri 15 sono “spalmati” tra il 2014 e il 2018.
Ponendo l’asticella del bilancio all’ultimo mese compiuto, settembre, si può notare come i pallini rossi alle singole azioni del governo siano quattro su otto.
Una su due si direbbe, non male. A guardare meglio, contando le singole riforme e confrontandole col vecchio Def, sono uno su tre, non bene.
A fare i conti armati di pazienza le riforme concluse sono ancora meno.
Nella nota di aggiornamento alcune misure che erano calendarizzate per settembre sono infatti slittate agli anni successivi.
Ad esempio la parte di Jobs Act relativa alla conciliazione tra esigenze del lavoro e quelle genitoriali.
Secondo il vecchio calendario doveva essere già legge, nel nuovo lo sarà entro il 2015. Stesso discorso per la riforma degli ammortizzatori sociali che doveva arrivare addirittura a luglio.
Così il bilancio che emerge dall’analisi dei due documenti ufficiali è ancor più magro: una riforma su cinque.
Ancor più pesante il rapporto tra le misure effettivamente approvate sul totale di quelle avviate: siamo otto su 44, cioè ancora meno di una ogni cinque.
Gli stati conclusi riguardano la prima parte del Jobs Act (all’appello ne mancano quattro), il “piano casa”, le misure di alleggerimento Irpef e Irap, il rafforzamento all’aiuto per le imprese se (Ace), la riforma della giustizia civile e il sostegno al settore agricolo.
Provvedimenti certo importanti ma sicuramente minori rispetto alle 24 misure ”avviate” che contemplano interventi molto attesi: dal piano per il turismo agli investimenti in ricerca e sviluppo, dalla garanzia giovani alle misure per la lotta alla corruzione e all’illegalità nella pubblica amministrazione.
Una per tutte va segnalata, sia perchè al centro del dibattito e delle polemiche di questi giorni sia per lo svarione con cui è stata scritta.
Un lapsus rivelatore del differenziale annunci-fatti, a sua volta figlio dell’equivoco tra termini e scadenze che ha il pregio di garantire sempre e comunque l’effetto annuncio. Nel nuovo documento “l’approvazione della legge sulla Voluntary Disclosure” è indicata a settembre. Sarebbe una notizia bomba, gli evasori avrebbero le ore contate. Ma naturalmente non è così.
Chi non ha letto i giornali negli ultimi giorni deve sapere che si tratta della riforma basata sulla collaborazione volontaria con cui si vuol favorire il rimpatrio dei capitali esteri non dichiarati.
La stessa che da settimane è incagliata in commissione Finanze dove non si riesce a trovare la quadra tra il bastone e la carota: la legge dovrebbe consentire agli evasori di emergere ma senza farli incorrere nel reato di autoriciclaggio.
Al momento prevale l’ortaggio, perchè si è deciso di non punire chi spende i proventi dell’evasione per se stesso.
Aldilà della questione, oggetto di polemiche e mediazioni tra e dentro i partiti, il fatto è che quella riforma è assolutamente al palo, meno che mai approvata come invece si legge nel documento ufficiale del governo.
Se sarà legge entro la fine dell’anno c’è da brindare, visto che aprirebbe le porte all’ormai fantomatico accordo con la Svizzera sui capitali esportati illegalmente.
Ma intanto il documento, con i suoi svarioni, finirà a Bruxelles insieme alla finanziaria e sarà valutato attentamente per stabilire se le riforme fatte e messe in cantiere siano compatibili con una deroga di al Fiscal compact.
E il taglio alle bollette? “Da oggi le piccole e medie imprese…” pausa, silenzio, correzione. “Non da oggi… dall’entrata in vigore del decreto, avranno anche il risparmio del 10% sulle bollette”.
Il piccolo cameo documenta in pochi secondi la foga di annunciare la cosa per fatta quando non lo è. Perfino Matteo Renzi se ne rende conto mentre la dice e si corregge da solo.
Nel caso specifico annunciava le misure destinate a ridurre il costo energetico per le Pmi come cosa fatta a giugno.
In realtà nel Def di marzo era indicata entro settembre. Siamo però a ottobre e quella stessa misura, tre mesi dopo, è ancora largamente al palo tra rimodulazione degli importi e decreti attuativi.
Infatti non compare tra gli stati “conclusi” bensì col pallino bicolor degli “avviati”. Dove avviato può voler dire, ed è questo il caso, profondamente cambiato.
E infatti il taglia bollette uscito dal Cdm è stato profondamente ridimensionato rispetto alla versione originaria: da 1,5 mld a 800 milioni per poi arrivare alla cifra stabilità solo nel 2015 e attraverso “atti normativi e di indirizzo successivi”.
Quindi non “da oggi”, come diceva Renzi presentando il ddl, e neppure da domani. Ma chissà quando.
Il cronoprogramma si spinge fino al 2018 e quindi permette uno sguardo sul futuro. Per come è impostato il documento sembra implicito che il calendario renziano procederà ancora slegato da quello gregoriano, spaziando negli anni con grande libertà e senza scadenze precise: 9 riforme sono previste genericamente tra il 2014 e il 2015, altre 4 entro il 2016 e due fino al 2018.
Quasi una garanzia: tra le tante cose in cantiere non c’è l’intenzione di cambiar verso all’annuncite.
Thomas Mackinson
(da “il Fatto Quotidiano“)
argomento: Renzi | Commenta »
Ottobre 7th, 2014 Riccardo Fucile
DOMANI VOTO DI FIDUCIA SUL JOBS ACT: IL GOVERNO RIFIUTA IL DIALOGO COL PARLAMENTO
La fiducia sul Jobs Act, il disegno di legge-delega che riforma il mercato del lavoro, ci sarà .
Ieri sera il Consiglio dei ministri ha autorizzato la ministra per i Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, a porre la questione di fiducia sul testo di legge che oggi sarà avviato, alla presenza del ministro Giuliano Poletti, alla discussione del Senato.
Una scelta, quella dell’esecutivo, largamente attesa e giudicata molto negativamente dalla minoranza Pd che sarà costretta ad allinearsi a Matteo Renzi, pena la crisi di governo.
Per scansare ogni equivoco, il bersaniano Alfredo D’Attorre ha assicurato che il voto sarà “sì”.
Salvo poi annunciare che se ne riparlerà alla Camera dove la minoranza democratica ha numeri e postazioni — la presidenza della Commissione Lavoro è governata da Cesare Damiano — che le possono consentire di strappare qualche risultato.
Renzi al momento ottiene due risultati.
Blocca il tira e molla sul testo che sarebbe dovuto uscire dalla discussione di Palazzo Madama e porta “lo scalpo” al vertice europeo di domani.
La soddisfazione, del resto, era evidente ieri sera nel corso della sua presenza a Quinta Colonna di Paolo Del Debbio. Ospite di una Rete4 particolarmente accogliente — tra applausi e battute simpatiche con il conduttore sembravano i fasti del Cavaliere — Renzi ha ben spiegato perchè l’articolo 18 va modificato e dato fondo alle tradizionali “spacconate”: “La legge di Stabilità ? Sono in tanti a gufare ma noi li freghiamo”.
Il voto di fiducia al Senato, per il momento, gli consente di uscire dalla morsa tra la formulazione del testo di legge attuale, cara a Ncd, e le richieste della minoranza Pd. Il governo procederà alla scrittura di un maxi-emendamento, sostitutivo del testo, in cui come già spiegato dal ministro Poletti, “non farà stravolgimenti”.
Ci saranno alcune modifiche che vanno incontro alla minoranza Pd tra cui una limatura al comma che rende possibile il demansionamento e la conferma che il governo provvederà alla cancellazione delle tante forme del lavoro precario — ma senza specificare quali.
Nulla, però, sul punto più controverso, l’articolo 18.
Dovrebbe essere il ministro Poletti a dare rassicurazioni con il suo intervento conclusivo nell’aula di Palazzo Madama rinviando però ai decreti delegati.
“Un “fidatevi” sulla parola che si aggiunge al voto di fiducia a sua volta posto su una legge di delega al governo.
“Il Parlamento viene costretto a dare una delega in bianco”, commenta l’oppositore Pd, Stefano Fassina, il quale annuncia “conseguenze politiche” dopo la fiducia. Parlando con il Fatto Fassina chiama in causa anche il Quirinale su “una votazione fatta in questo modo”.
Il voto del Senato si terrà mercoledì, in piena concomitanza con l’incontro europeo di Milano dove Renzi potrà vantare il successo sull’articolo 18.
Risultato che rappresenta l’obiettivo principale di tutta l’operazione.
L’immagine di un’aula parlamentare chiamata in tutta fretta a dare il via libera al governo, che così incassa i complimenti dalla Ue, rappresenta quello “schiaffo al Parlamento” di cui parla Cesare Damiano che sottolinea anche la “schizofrenia” tra fiducia da un lato e convocazione delle parti sociali dall’altro.
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano“)
argomento: governo | Commenta »