Ottobre 10th, 2014 Riccardo Fucile
LA P.A. E’ UN INSIEME DI SERVIZI PER I CITTADINI, SPECIE I PIU’ DEBOLI… DIPINGERLA COME UN COVO DI LADRI E’ SBAGLIATO E PERICOLOSO
La pubblica amministrazione sta morendo. E ne pagheranno le conseguenze i deboli, i privi di tutela, in una parola coloro che non hanno santi in Paradiso.
Perchè l’amministrazione non è una dispensatrice di stipendi ai suoi inutili dipendenti, ma un insieme di funzioni e servizi per i cittadini, e soprattutto per coloro che non possono permettersi di rivolgersi o di comprare i servizi altrove
Basta, quindi, con una rappresentazione della realtà negata dai numeri, e dunque sostanzialmente falsa.
A parità di popolazione, la Gran Bretagna ha oltre 5 milioni di dipendenti pubblici, l’Italia poco sopra i tre.
I nostri dipendenti risultano i più anziani in Europa (oltre il 50% ha più di 50 anni), e la media è alta perchè non vi sono nuovi assunti ai quali i già occupati possano trasmettere competenze e buone prassi – in una parola insegnare il mestiere.
L’amministrazione centrale dello Stato è al collasso e sempre più spesso si fonda sul senso di responsabilità di singoli.
Nei ministeri vi è stato un progressivo prosciugamento: i ministeriali sono circa 160 mila (erano 274 mila nel 2000), e oggi scarseggiano il personale e le competenze tecniche indispensabili, i mezzi e le risorse finanziarie.
Al contempo, è crollata la spesa per investimenti, che nel 2013 era pari, per l’intero settore pubblico, al 2,7% del Prodotto interno lordo.
Stiamo distruggendo l’amministrazione pubblica.
Forse non è un disegno consapevole, certo non è un bene.
Non per i cittadini e per le imprese, che non ricevono più servizi adeguati o almeno decenti (meno sanità , meno sicurezza, meno gestione infrastrutturale)
Non è un bene per i giovani, perchè non si assume, mentre la disoccupazione giovanile – con laurea e senza – aumenta.
I cittadini reclamano più sicurezza, e mancano almeno 20 mila carabinieri e poliziotti.
È indispensabile la lotta all’evasione, e mancano i finanzieri.
Siamo il Paese con il più grande patrimonio artistico – una grande risorsa anche economica – e sono venti anni che non si assumono storici dell’arte.
Negli uffici pubblici mancano ingegneri, chimici, biologi, medici, infermieri; mancano insegnanti che diano con serenità ad altri la formazione necessaria.
Al tempo stesso i giovani sono disoccupati, e quella minoranza che nonostante tutto trova lavoro, spesso non adeguato al titolo di studio, ha dovuto sottostare a pressioni e ricatti. Vi è il rischio tangibile di diseducare all’etica del concorso, al principio che negli uffici pubblici si accede per merito e non per raccomandazione.
Occorre cambiare mentalità e tendenza, rivitalizzare l’amministrazione senza negare l’esigenza di razionalizzare, di qualificare, di eliminare inutili complessità burocratiche, senza nascondere le negatività esistenti.
Occorre dire basta al messaggio che tutto ciò che è pubblico è inutile e negativo.
Occorre restituire la dignità
Basta con i dipendenti pubblici rappresentati, nel migliore dei casi come scansafatiche, nel peggiore come ladri.
Perchè non è così, e la mortificazione continua non aiuta
Alla politica delle assunzioni dettata solo dal puro contenimento della spesa deve sostituirsi una seria programmazione delle esigenze di una amministrazione moderna e tecnicamente qualificata.
Concorsi, non assunzioni per raccomandazione. Impiego stabile e qualificato, non precariato intellettuale.
Selezione della dirigenza con criteri concorsuali oggettivi e di merito, non come premio di fedeltà servili.
Serve anche un’amministrazione professionale e rispettata perchè il Paese possa uscire dalla sua crisi.
Oberdan Forlenza
Consigliere di Stato, Segretario generale della Giustizia Amministrativa
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 10th, 2014 Riccardo Fucile
SI CHIAMA PD, MA E’ LA VERSIONE MODERNA DELLA DC
In Italia è rimasto un solo partito e non è di sinistra. Si chiama ancora Pd, ma è già la versione moderna, senza tessere nè sacrestie, della Democrazia Cristiana, la balena interclassista che tutti criticavano e però votavano.
Il processo ha raggiunto il suo culmine questa settimana con la sconfitta degli ultimi eredi del Pci sull’articolo 18.
Renzi ha celebrato il proprio trionfo con una scelta mediatica significativa: andando a pontificare negli unici talk show che parlano all’ex popolo berlusconiano, quelli capitanati da Porro e da Del Debbio.
Con la spregiudicatezza tipica delle persone cresciute in un ambiente familiare sereno e quindi molto sicure di sè, l’annunciatore fiorentino sta disintegrando i tabù che hanno paralizzato per decenni i suoi predecessori comunisti e pidiessini.
Il timore di avere nemici a sinistra e di mettersi contro la Cgil, ma soprattutto l’imbarazzo nel chiedere voti alla base sociale dell’incantatore di Arcore: liberi professionisti, commercianti, piccoli imprenditori e disoccupati, che secondo l’analisi pubblicata nei giorni scorsi dal Sole 24 Ore hanno «cambiato verso» alle elezioni europee, dirottando per la prima volta i loro consensi sul partito che finora gli aveva procurato solo attacchi di orticaria.
La realtà è che oggi chiunque, da Passera a Della Valle, pensi di entrare in politica per rifondare il centrodestra deve prendere atto che al momento non esiste un bacino di voti disponibile.
Renzi ha fatto il pieno, lasciando scoperta solo la zona riservata ai piccoli borghesi impoveriti, cioè ai lepenisti italiani magistralmente interpretati dall’altro Matteo, il becero ma efficacissimo Salvini.
Il resto è un mondo finito e svuotato di consensi che sopravvive sui giornali per vecchi automatismi che inducono i cronisti a interessarsi alle ultime convulsioni dei tirapiedi e dei traditori di Berlusconi.
I voti di Alfano e di Monti sono già tutti in pancia al Pd. E quei pochi che restano a Silvio finiranno in parti uguali a Matteo uno e Matteo due.
L’unica terra di conquista elettorale è dunque quella che un tempo avremmo chiamato Sinistra.
Sono i giovani e i precari attratti da Grillo (fino a quando?), i pensionati, i nostalgici dello Stato sociale e in genere gli oppositori di un sistema capitalistico che per un processo apparentemente ingovernabile sta privilegiando le rendite, disintegrando il ceto medio e creando sacche sempre più ampie di povertà .
Il pigliatutto di Palazzo Chigi, naturalmente, si considera di sinistra anche lui. Anticomunista, ma di sinistra. Solo che la sua non è la sinistra europea e statalista dei Palme e dei Mitterrand, ma quella anglosassone e meritocratica dei Clinton e dei Blair.
Per chi non vi si riconosce rimarrebbe uno spazio persino più ampio di quello occupato dagli emuli dilettanteschi del greco Tsipras.
Manca però appunto uno Tsipras. Cioè un leader in grado di indicare un modello sociale alternativo ma praticabile e di perseguirlo con coerenza.
Difficile possa esserlo Civati e meno che mai Bersani e D’Alema, con il sostegno delle truppe brizzolate della Camusso.
Se i grandi vecchi non se ne vanno dal Pd, non è per fedeltà a un partito che tanto non sarà mai più il loro, ma perchè sanno che fuori di lì si condannerebbero all’insignificanza di un Gianfranco Fini.
Nella settimana in cui comincia ufficialmente l’era del partito unico, bisogna riconoscere che l’Antirenzi potrà nascere solo dentro il nuovo Pd, così come i rivali dei leader democristiani venivano prodotti in serie dalla stessa Democrazia Cristiana. Renzi lo sa talmente bene che sta provvedendo a ucciderli tutti nella culla.
Ma con la consapevolezza che, come accade sempre in politica, prima o poi qualcuno riuscirà a sopravvivergli e a fargli la pelle.
Massimo Gramellini
(da “La Stampa”)
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Ottobre 10th, 2014 Riccardo Fucile
LA CARICA DEI 108 CORTIGIANI PER LO SPOTTONE A PAGAMENTO
La “società civile”, non i poteri forti, ha deciso di mostrare al premier Matteo Renzi, il suo sostegno.
E lo ha fatto acquistando un’intera pagina del Corriere della sera.
Il quotidiano diretto da quel Ferruccio de Bortoli, che qualche settimana fa, con un editoriale espresse perplessità sull’operato di Renzi e sul patto del Nazareno, con il suo “stantio odore di massoneria”.
Ma oggi il Corriere volta pagina, anzi ne vende una a più di cento comuni cittadini: “Noi stiamo con Renzi”, è il titolo.
Ma chi sono questi 108 sostenitori di Matteo?
Basta cercare qualche nome su Google per scoprire che sono cittadini ma non esattamente comuni: c’è ad esempio Alberto Milla, fondatore e vicepresidente della banca Euromobiliare, Anna Cristina du Chene de Vere, presidente della finanziaria Ida e vicepresidente di Publitransport, Gerolamo Caccia Dominioni, ex amministratore delegato Benetton, Claudio Biscaretti di Ruffa, docente universitario di Economia, Vannozza Guicciardini membro del Fai, molti avvocati e chi più ne ha più ne metta.
Questa è la società civile renziana.
Ma non chiamateli poteri forti.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Ottobre 10th, 2014 Riccardo Fucile
LO RIVELA IL “SOLE 24ORE”: MANNAIA DI 2 MILIARDI, COMPRESI GLI ANZIANI SENZA ALTRI REDDITI
Che la revisione delle spese per il funzionamento della macchina pubblica fosse in alto mare lo si è cominciato a capire fin da quando il premier Matteo Renzi, quest’estate, ha pubblicamente liquidato il commissario Carlo Cottarelli.
La certezza è arrivata con l’aggiornamento del Documento di economia e finanza, in cui il governo ha messo nero su bianco che metà dei 23 miliardi necessari per finanziare la prossima legge di Stabilità arriverà da un aumento del deficit.
Il resto? I soliti tagli semilineari ai ministeri e una bella sforbiciata (4-5 miliardi) alle risorse destinate a Regioni e Comuni.
Ora IlSole24Ore rivela però da dove arriverà un’altra corposa fetta di risparmi. Sorpresa: assegni sociali e integrazione al minimo delle pensioni.
Ebbene sì: allo studio del governo, secondo il quotidiano di Confindustria, c’è un colpo di mannaia da oltre 2 miliardi sulle spese gestite dal ministero del Lavoro. Comprese, appunto, le prestazioni destinate alla fascia più debole della popolazione: gli anziani senza altri redditi.
L’idea sarebbe quella di utilizzare il debutto (previsto per l’1 gennaio 2015) del nuovo Isee, l’indicatore della situazione economica da cui dipende l’accesso a servizi sociali e sociosanitari, per “dare una piccola sforbiciata alla parte meno bisognosa della platea che accede a questi sussidi”.
Modificando al rialzo i requisiti da rispettare per aver diritto all’assegno sociale o all’integrazione della pensione quando questa sia inferiore al livello minimo, ovvero 501,38 euro al mese.
L’operazione è “delicatissima” e il ministro Giuliano Poletti la sta dettagliando con “attenzione massima”, annota il Sole. Ma tant’è. A essere colpiti, se il piano va in porto, saranno anche la decontribuzione sulla contrattazione aziendale e sul Tfr girato dalle imprese ai fondi pensione e i fondi per i lavoratori esposti ad attività usuranti.
E, ciliegina sulla torta, verranno ridotti pure i costi di funzionamento di Inps e Inail, che però già oggi possono contare su budget inferiori del 35-40% rispetto a quelli del 2011.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 10th, 2014 Riccardo Fucile
MENTRE IN GERMANIA SI STUDIA GRATIS
Di là , in Germania, è caduta pure l’ultima «roccaforte», la Bassa Sassonia: dal 1° ottobre l’università è gratuita.
Di qua le tasse restano. E aumentano del 63% in dieci anni.
Tedeschi o no, quando si tratta dei conti del sistema accademico l’Italia non brilla. Lo spiega un documento della Commissione europea che ha preso in esame la contribuzione studentesca, le borse di studio e le esenzioni previste nella dichiarazione dei redditi.
Ci si laurea gratis in Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia (e Germania).
In Spagna per un percorso triennale si spendono 1.074 euro, in Belgio fino a 837, in Francia 183, in Gran Bretagna 11.099, tra 830 e 3.319 in Svizzera.
L’Italia fa pagare in media 1.300 euro.
L’Estonia, invece, spicca per la sua «originalità »: se lo studente raccoglie 30 crediti formativi in sei mesi (o 60 in un anno) non paga nulla. Altrimenti per ogni credito mancante deve sborsare 50-120 euro, a seconda del corso.
Le cose non vanno meglio alla voce «diritto allo studio».
Secondo il dossier comunitario siamo il Paese che dà meno supporto finanziario (tra borse per motivi di reddito e premi per merito), se si esclude la Grecia: lo riceve soltanto il 7,5% degli studenti.
Lontani dalla Francia, dove lo ottiene più di un giovane su tre. Lontanissimi dalla Danimarca dove lo Stato, oltre a non far pagare le rette, mette a disposizione fino a 9.274 euro.
E la percentuale italiana potrebbe pure diminuire – denunciano le associazioni studentesche – se va in porto un punto dello sblocca Italia che permetterebbe di far inserire alle Regioni i fondi per le borse nel patto di Stabilità .
Un’università gratuita per tutti anche da noi?
«Me lo auguro, magari non da un anno all’altro, ma per gradini», ragiona Ivano Dionigi, rettore dell’Università di Bologna, un ateneo che conta 87 mila iscritti. Sarebbe un modo, secondo il docente, «per fermare l’emorragia di studenti che non si iscrivono più nei nostri atenei e per trattenere quelli che vanno a formarsi all’estero. La fuga dei cervelli non è più solo quella dei ricercatori trentenni, ma anche dei 18-19enni».
Sarebbe anche un modo «per garantire davvero il diritto allo studio: un principio costituzionale rispettato più negli anni 60-70 che oggi».
Copiare la Germania sì, ma con due precisazioni.
La prima: «Il sussidio non deve essere un assegno di pre-disoccupazione, ma deve verificare che lo studente abbia un percorso regolare negli studi, che dia gli esami».
La seconda: «La gratuità non si può applicare a chi ha un reddito elevato, di centinaia di migliaia di euro».
Tutto questo in tempo di crisi. «Mi rendo conto che per il Paese sarebbe un costo immediato notevole – continua Dionigi – ma si tratta di un investimento».
Certo, per i tedeschi è facile. «A loro i soldi non mancano e a livello pro capite spendono più dell’Italia», aggiunge Stefano Paleari, numero uno dell’Università di Bergamo e presidente della Crui, la Conferenza dei rettori.
Preso il finanziamento pubblico agli atenei nel 2012, la Germania ha dato alle sue istituzioni quasi 25 miliardi di euro, 304 per ogni cittadino.
In Italia quella voce è stata di 6,6 miliardi, pari a 109 euro a testa. Un terzo. «E dal 2008 quella spesa è aumentata del 20% in Germania, ma diminuita del 14% in Italia».
Paleari non è molto d’accordo sulla gratuità . «Noi e i tedeschi abbiamo sistemi diversi e di là le tasse non sono mai state altissime».
Però, se vogliamo fare come loro, «dobbiamo copiare tutto il modello, altrimenti il meccanismo salta».
«Quello che ci serve nell’immediato è una stabilità del sistema contributivo – analizza Paleari –: stop a ulteriori tagli dei finanziamenti statali e di conseguenza stop all’aumento delle tasse universitarie».
Un modo per concentrarsi sul diritto allo studio «che in Italia funziona male ed è insufficiente».
Leonard Berberi
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 10th, 2014 Riccardo Fucile
I LAVORI SU UN CHILOMETRO DI SPONDE BLOCCATI DALLE CARTE BOLLATE PARTITE DALLE IMPRESE CHE HANNO PERSO L’APPALTO… I TRIBUNALI HANNO DATO RAGIONE ALLA REGIONE: “PRONTI 35 MILIONI, SE AVESSIMO POTUTO SPENDERLI AVREMMO SALVATO VITE E NEGOZI”
Non si contassero morti e rovine si potrebbe archiviarla sotto l’etichetta della burocrazia perversa.
Invece la vicenda che riguarda il rifacimento della copertura del torrente Bisagno entra a pieno titolo nel teatro dell’assurdo che governa la cosa pubblica in Italia.
Il sindaco Marco Doria, non più tardi di dieci giorni fa, aveva stigmatizzato la lentezza della giustizia amministrativa che aveva bloccato per quasi tre anni i lavori che consentiranno di aumentare la portata del torrente Bisagno nella sua parte terminale, dalla stazione Brignole alla foce, a ridosso della Fiera del Mare.
Un chilometro all’incirca, coperto tra il 1928 e il 1933.
Nel 2006 — giunta Pericu — erano iniziati i lavori. Scoperchiamento del tratto dalla Questura al mare e rifacimento della copertura. Cinque anni di cantieri, traffico impazzito e lo stop dei lavori, a fine 2011, confermato a gennaio 2103 dal Tar della Liguria che aveva accolto il ricorso di due consorzi d’imprese, la Pamoter e la Fincosit, escluse dall’assegnazione del secondo lotto dei lavori (valore di 30 milioni di euro), dalla Questura fino a via Santa Zita, a ridosso della stazione ferroviaria di Brignole.
Motivo della bocciatura, la commissione giudicatrice dell’appalto era stata formata dal commissario Giuseppe Romano (un ex prefetto che è anche vicepresidente dell’ospedale Galliera), con tre tecnici non qualificati. Tre professionisti i cui curricula non contemplavano studi di ingegneria idraulica.
Il controricorso al Consiglio di Stato ha stabilito che il Tar della Liguria non era competente a giudicare la controversia, assegnata quindi al Tar del Lazio che si espresso nel luglio di quest’anno.
Ribaltato il verdetto del Tar ligure, ha riconosciuto le ragioni delle aziende Vipp, Sirce e Tre Colli (nel frattempo le ditte sono diventate quattro) e ha disposto la ripresa dei lavori.
Eppure i cantieri non sono stati ancora riaperti.
Da qui il disappunto del sindaco Doria nei confronti della giustizia amministrativa: “Deve darsi una scrollata, non può bloccare da un tempo lunghissimo la messa in sicurezza del torrente Bisagno, dalla Questura a Brignole”.
Il governatore ligure, Claudio Burlando, che è anche commissario straordinario dell’opera, si sfoga: “La mia rabbia è questa: io posso accettare che non si riesca sempre a prevedere cosa accadrà ma è inaccettabile che da tre anni noi riusciamo a fare i lavori per la messa in sicurezza del torrente Bisagno nella zona della Foce perchè ci sono state tre sentenze amministrative — del Tar Liguria, del Consiglio di Stato e del Tar Lazio — che hanno paralizzato l’intervento. Io chiedo che mi sia consentito di affidare i lavori e iniziare al più presto”.
Burlando affonda il coltello nella piaga: “Questi lavori costituiscono l’intervento più importante per la messa in sicurezza del Bisagno. E’ prevista la sostituzione della copertura del torrente con un aumento considerevole della sezione che consentirebbe il passaggio di un flusso di acqua maggiore, scongiurando le esondazioni a Borgo Incrociati. Ci sono tante zone della Liguria in cui si devono fare interventi grossi e molti li abbiamo fatti, a Varazze, Borghetto, Murialdo, a La Spezia, sul Fereggiano e sullo Sturla. Ma questo sul Bisagno è il più grosso e siamo ‘piantati’ da tre anni.
Ci sono, pronti e disponibili, 35 milioni. Se li avessimo spesi e l’opera fosse stata realizzata, ieri sera avremmo salvato tante attività economiche e forse anche una vita umana”.
Renzo Parodi
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Ottobre 10th, 2014 Riccardo Fucile
LO AVEVA ILLUSTRATO AL NOSTRO DIRETTORE L’ALLORA CANDIDATA SINDACO SUSY DE MARTINI NEL SUO PROGRAMMA
Era il 29 aprile 2012, campagna elettorale per le comunali a Genova.
A fronte delle ripetute alluvioni che avevano messo in ginocchio la città , la candidata sindaco Susy De Martini, in una intervista rilasciata al nostro direttore, lanciava una proposta concreta e fattibile: “il torrente Bisagno va deviato, così come è stato fatto a Valencia per il Turia. Tutti gli interventi effettuati fino a oggi a Genova sono stati inutili per la città e utili solamente a spendere milioni di denaro pubblico. La vera sicurezza per la città passa per una soluzione definitiva di questo epocale problema. La deviazione del Bisagno è la soluzione che propongo. A Valencia è stato deviato, dopo l’ennesima alluvione , il fiume Turia, un corso d’acqua cinque volte più capiente del Bisagno. La stessa cosa si può fare a Genova, costruendo due gallerie sotterranee di circa 6 metri di diametro (lo scolmatore del Fereggiano è una galleria di 3 metri di diametro) e trasformare la Val Bisagno in un’isola felice, con parchi, spazi urbani e di servizi.
Tesi rilanciata al nostro direttore poche ore fa da New York, dove è in missione Ue,
Il protagonista di questa storia è il Turia, il fiume che bagna – o meglio, bagnava – Valencia, la terza città iberica per numero di abitanti.
Questa storia parte da lontano, in particolare dal 14 ottobre 1957, data nota in Spagna come la gran riada de Valencia.
Dopo giorni di piogge battenti in tutta la Comunidad Valenciana, diverse ondate di piena del Turia raggiungono a gran velocità e a distanza di poche ore l’una dall’altra il centro città , provocando decine di morti, distruzione e accumulando per le vie tonnellate di detriti. Il livello dell’acqua in alcuni quartieri supera i 5 metri di altezza, trascinando con sè tutto quello che incontra, compresi ponti e argini.
Saltano i collegamenti, l’energia elettrica e l’acqua potabile mancano per giorni e gli stessi soccorsi faticano a raggiungere le zone più colpite.
L’economia cittadina (commercio, trasporti, industria, servizi, agricoltura) in poche ore viene messa in ginocchio e la città conosce una crisi senza precedenti.
Il conto finale dei danni ammonterà a circa 4 miliardi di pesetas.
Non era la prima volta che Valencia subiva inondazioni e allagamenti, ma un’alluvione di simili proporzioni è la molla che fa scattare la decisione del Governo: il corso del fiume deve essere deviato, messo in sicurezza e portato lontano dalle zone più abitate.
Nasce il cosiddetto “Plan Sur”, la “soluzione Sud”: l’idea è di spostare gli ultimi chilometri del letto del Turia a sud di Valencia, al di fuori dei confini cittadini.
Ma il progetto si trasforma subito in un piano molto più ambizioso, anche per volere del generale Francisco Franco: approvato nel 1961, va ben oltre la regolazione idraulica del fiume fino a comprendere la pianificazione di una nuova viabilità , trasporti e sviluppo urbano.
Si fa strada in particolare una soluzione che consentirebbe di collegare – grazie a una striscia di asfalto da costruire proprio sul vecchio letto del fiume – il centro città con l’autostrada per Castilla (direttrice est-ovest) e con quella del Mediterraneo (direttrice nord-sud).
Nel 1966 le autorità ufficializzano e rendono pubblica l’idea di costruire un’autopista, un’autostrada urbana al posto del letto del fiume.
Larga 28 metri e dotata in alcuni punti anche di 8 corsie, nelle intenzioni del Governo la “bretella” sarebbe stata il tratto finale della grande arteria di collegamento tra Madrid e il Mediterraneo.
E oggi? La trasformazione dell’antico alveo del Turia ha portato negli anni a una progressiva riqualificazione dei quartieri prospicienti il fiume, a iniziare dal barrio El Carmèn che rappresenta un po’ il cuore pulsante della vita della città .
Si è così innestato nel tessuto urbano uno spazio inedito di socialità e condivisione, che ha modificato l’immagine stessa di Valencia.
Negli ultimi trent’anni, nel Jardì sono sorte una serie di strutture, spazi e iniziative dedicate all’arte, alla scienza e alla cultura: dal Palau de la Musica al Puente 9 del Octubre dell’architetto Santiago Calatrava, fino al Gulliver (uno spazio ludico per bambini) e alla Ciutat de les Arts i les Ciences, che comprende un ricco giardino botanico e il grande acquario.
E non mancano certo le occasioni per fare sport.
Tutti i giorni i valenciani utilizzano il parco – 110 ettari di verde attrezzato, pulito e ben curato – per muoversi, andare in bicicletta, rilassarsi, passeggiare o stare semplicemente all’aria aperta.
Campi da tennis e da calcio si alternano ad aree adibite alla ginnastica e ai “percorsi vita”. E poi laghetti artificiali, piste per pattinare e corsie ciclabili.
Numerosi circoli sportivi e ricreativi di quartiere ne hanno fatto la propria sede, mentre altri spazi sono stati trasformati in orti urbani per chi voglia coltivare prodotti a filiera cortissima. Insomma: l’acqua non c’è più, ma anche così il fiume continua a portare sempre nuova linfa alla città .
(contributo al testo di Stefano Menna)
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Ottobre 10th, 2014 Riccardo Fucile
IL TEMA DELLE UNIONI OMOSEX SPACCA ANCORA LA DESTRA… TOTI AD ALFANO: “SIETE PIÙ INDIETRO DEL PAPA” … LA RISPOSTA: “VOI LASCIATE FUORI LA CHIESA”
Mentre la sinistra si divide sull’articolo 18, nel centrodestra sono botte da orbi sulle nozze gay.
Con Forza Italia e Ncd a darsele di santa ragione.
Dopo la circolare di Angelino Alfano ai prefetti per vietare ai sindaci di trascrivere i matrimoni omosex celebrati all’estero, la questione ha assunto i toni di uno psicodramma tutto interno ai partiti dell’ex Pdl.
Con l’Ncd (insieme a Fratelli d’Italia) sulle barricate contro le trascrizioni, mentre Forza Italia, spinta dalla linea pro gay di Francesca Pasca-le, a guidare il fronte “liberal”.
E mentre i sindaci continuano a dividersi, arriva il monito dell’Anci, con Piero Fassino. “Mi auguro che arrivi presto una legge nazionale”, ha scritto il sindaco di Torino in una lettera a Renzi e Alfano.
Perchè “il tema è troppo delicato per essere lasciato ai singoli casi, nè si può pensare di affidarlo alle ordinanze dei prefetti”.
Intanto, in attesa della legge, è bagarre.
Ad aprire le danze è un’intervista dell’azzurro Giovanni Toti, secondo cui “non possiamo rimanere un passo indietro al Sinodo e al Papa”.
Per il consigliere politico di Berlusconi, dunque, la Chiesa è più avanti della politica. “Prima di tirare in ballo il Papa, Toti ci pensi due volte ed eviterà di dire fesserie”, la risposta del ministro Ncd, nonchè ciellino, Maurizio Lupi.
“Tirare in ballo a sproposito il Papa dimostra come Forza Italia sia passata dal Family day all’Arci-gay”, attacca anche Carlo Giovanardi (Ncd).
“Coinvolgere il Sinodo e il Pontefice per attaccare Alfano è umiliante”, dice Barbara Saltamartini gettando altra benzina sul fuoco.
Stesso concetto ribadito poco dopo da Renato Schifani. “Ci eravamo augurati che Toti non si iscrivesse a quell’ala integralista che costrinse tutti noi a non aderire a Forza Italia. Un partito sempre più appiattito sullo scontro e sulle posizioni antieuropee e xenofobe della Lega”, sostiene l’ex presidente del Senato.
Tirato in ballo, ecco Matteo Salvini. Contro Alfano. “Sono contrario alle trascrizioni dei matrimoni, ma il ministro parla di gay solo perchè il suo partito nei sondaggi sta scomparendo”, punge il leader padano.
Da non perdere la centrista Laura Bianconi, secondo cui “Toti è riuscito a far diventare Papa Francesco un’icona gay, difensore delle nozze omosex”.
Insomma, guerra totale.
Puntuale arriva anche la risposta di Toti. “Ncd fa politica sulla pelle delle persone solo per lucrare consensi. A Lupi dico che non ho tirato in ballo Bergoglio e non ho mai detto che il Papa è favorevole alle nozze gay. Dico invece che quando arriva uno stimolo alla riflessione, addirittura dalla Santa Sede, è sciocco mettere la testa sotto la sabbia”, afferma l’ex direttore Mediaset.
“Toti è cinico e sconcertante, se c’è qualcuno che fa politica sulla pelle delle persone, quelli siete voi”, la replica di Gaetano Quagliariello (Ncd).
“Abbandonata la casa del padre, piccoli Ncd attaccano ci attaccano solo per guadagnare visibilità ”, la twittata serale di Anna Maria Bernini (Fi).
Nel frattempo alla Camera Mara Carfagna si è incontrata con Ivan Scalfarotto per dare il via a “un Nazareno dei diritti” e arrivare al più presto una legge.
Mentre, sull’altro fronte, Eugenia Rocella e Mario Adinolfi hanno dato vita al “patto di Santa Chiara” in difesa della famiglia tradizionale.
Fine della rissa. Per ora.
Gianluca Roselli
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 10th, 2014 Riccardo Fucile
IL PREMIER SI ERA IMPEGNATO A RISOLVERE LA CRISI DELLE “TRE T” CON TARANTO E TERMINI IMERESE: LA PRIMA E’ ANDATA…”DEL RIO E GUIDI? APPRENDISTI STREGONI, MEDIAZIONE INUTILE”
Il Jobs Act non è ancora legge dello Stato eppure un’azienda straniera, come la tedesca ThyssenKrupp, può permettersi di inviare 537 lettere di licenziamento nello stabilimento siderurgico di Terni.
Segno evidente che in Italia la facoltà di licenziare è viva e vegeta.
E mentre gli operai hanno iniziato a bloccare la stazione e a presidiare la fabbrica, la prima delle tre “T” indicate da Matteo Renzi come le principali emergenze industriali — Terni, Taranto e Termini — è saltata.
La vertenza delle Acciaierie Speciali di Terni, storico stabilimento siderurgico, polmone produttivo della città che dà lavoro a circa 2800 persone, si trascinava da tempo.
I tedeschi che hanno acquisito gli impianti puntano a ridurre drasticamente i costi di produzione in Italia con l’obiettivo iniziale di risparmiare 100 milioni di euro. All’ultimo miglio però, il tavolo di confronto istituito presso il ministero dello Sviluppo economico alla presenza della ministra Federica Guidi e del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, è saltato in aria.
La mediazione avanzata dall’esecutivo e su cui Delrio ha “messo la faccia” del governo, è stata capace di trovare contrari sia l’azienda che i sindacati.
E così l’Ast ha fatto partire le lettere di mobilità e la disdetta degli accordi integrativi dal 1 ottobre.
“Sono molto preoccupato — ha detto Matteo Renzi — ci sono tre mesi davanti di discussione, cercheremo la ragionevolezza”.
Al Fatto il braccio destro di Renzi, Graziano Delrio spiega che il governo “era riuscito a portare maggiori investimenti per 110 milioni e a ridurre l’impatto della mobilità ”. Invece dei 550 esuberi calcolati dalla Thyssen, il governo ha proposto 290 eccedenze da gestire con procedure di mobilità volontaria e incentivata.
“Abbiamo trovato un’azienda molto rigida ma anche i sindacati Delrio — non hanno capito che la nostra proposta era il ‘male minore’ e avrebbe consentito di affrontare meglio il futuro”.
Sul fronte sindacake, però, i ministri all’opera sono apparsi come “apprendisti stregoni”.
A Delrio, in particolare, si rimprovera di essere arrivato solo alla fine.
Il sindacato, che su questa vertenza appare unito, chiede invece l’utilizzo dei contratti di solidarietà , come avvenuto nella trattativa, esaltata spesso da Matteo Renzi, dell’Electrolux.
“Con i contratti di solidarietà — spiega Rosario Rappa della Fiom, “si sarebbero avuti risparmi analoghi a quelli richiesti senza toccarel’occupazione. Il governo non è riuscito ad avanzare una proposta di politica industriale in grado di spostare l’azienda”.
Anche Delrio ammette le rigidità della Thyssen e alla domanda se Renzi non avesse dovuto interloquire su questo punto con Angela Merkel, come chiede Antonio Tajani di Forza Italia, confessa che di tentativi ne sono stati fatti molti ma che la “rigidità ” non è stata superata.
La “durezza” Thyssen , del resto, si è vista nella rapidità con cui sono state inviate le lettere e con cui si è chiesta la riduzione del 20 per cento dei costi prodotti dall’indotto.
Chi rimprovera l’incapacità dell’esecutivo è Susanna Camusso secondo la quale “il governo è stato a guardare”.
Anche Annamaria Furlan, al primo giorno da segretario Cisl, definisce quella mediazione “inadeguata e insoddisfacente”.
Gli operai di Terni, a caldo, si sono riuniti in assemblea e all’unanimità hanno deciso di bocciare il piano del governo.
Allo stesso tempo sono cominciati i presìdi davanti ai cancelli con l’obiettivo, implicito, di bloccare l’entrata e l’uscita delle merci.
I primi cortei, nel pomeriggio, si sono diretti al Comune e, significativamente, sotto la sede del Pd per poi spostarsi alla stazione dove i lavoratori hanno occupato i binari. Martedì o mercoledì Cgil, Cisl e Uil proclameranno lo sciopero cittadino.
Lo stesso che un anno fa aveva visto scendere in piazza circa ventimila persone e che era finito con cariche della polizia in cui era stato colpito anche il sindaco. Fiom, Fim e Uilm, invece, hanno già promosso una manifestazione della siderurgia a Roma che si terrà nei prossimi giorni.
La “viva preoccupazione” per il fallimento della trattativa è stata espressa dai vescovi umbri che in una nota hanno rivolto “un accorato appello alle parti in causa, ThyssenKrupp, governo, sindacati, istituzioni affinchè riprendano immediatamente il dialogo e le trattative con toni sereni e aperti alla comprensione reciproca per trovare una soluzione equa e dignitosa per tutti, specie per i più deboli della vertenza in atto”.
Salvatore Cannavò
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